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atto quinto 121

nelle miserie e soffrir le passioni per fin che venghino le prosperitá. E questo vi basti: ch’io voglio andarmene a Margarita; ch’io non credo veder quell’ora ch’io gli dica cosí felice nuova.

SCENA X

Messer Ligdonio, Sguazza.

Messer Ligdonio. Se me retrovo seicento scuti d’intrata, Sguazza, boglio essere acciso se non faccio la chiú bella vita che gentiluomo de Pisa. Ma, de grazia, dimme: che move quisti a fareme tanto bene cussi de improviso?

Sguazza. Che non vi par meritarli, ch? Da lor saprete il tutto.

Messer Ligdonio. Vede, Sguazza. Alla tavola mea te voglio fin ca vivo; e, comò può’sarrò morto, boglio lassare per testamento alli miei ca non te pozza mai mancare.

Sguazza. Mi mancava quest’altro bene. Sguazza, Sguazza! Imperio, imperio!

Messer Ligdonio. Oh corno m’è venuta buona! cierto, lo meglio che se pozza. Io pigliavo mogliere mal volentieri, per desiderio solo di robba. Addesso io averò la robba senza la moglie. Oh me beatum Mi pare ogni ora mille ca lo sacci lo mio Panzana.

Sguazza. E dov’è il Panzana?

Messer Ligdonio. È annato a ordinar ca se cene.

Sguazza. Oh che goder di Dio che noi aviamo a fare!

Messer Ligdonio. Boglio entrare dentro, che non pozzo chiú stare a le mosse.

Sguazza. Entriamo. Ma non so giá se Guglielmo e messer Giannino sian tornati.

Messer Ligdonio. Oh! Dove erono?

Sguazza. Li lassai qui in casa del capitano che facevano una certa pace e bevevano. E bevei ancora io. Ma entriam pure: che mi dissero esser qui in casa maestro Guicciardo.

Messer Ligdonio. Entramo.