Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. I, Laterza, 1912.djvu/354

346 gl’ingannati


Scatizza. Accostati, salvaticaccio!

Isabella. Mirate se v’è niuno.

Lelia. Non ve l’ho detto? Non si vede persona.

Isabella. Oh! Io vorrei che voi tornasse dopo disinare quando mio padre sará fuora.

Lelia. Lo farò; ma, come passa il mio padron di qui, di grazia, fuggite e serrategli la finestra in fronte.

Isabella. S’io non lo fo, non mi vogliate piú bene.

Scatizza. Dove diavol gli tien la man, colei?

Crivello. Oh povero padrone! Che si, che si, ch’io sarò indivino!

Lelia. Addio.

Isabella. Udite: vi volete partire?

Scatizza. Basciala, che ti venga il cancaro!

Crivello. L’ha paura di non esser veduta.

Lelia. Orsú! Tornatevi in casa.

Isabella. Voglio una grazia da voi.

Lelia. Quale?

Isabella. Entrate un poco dentro a l’uscio.

Scatizza. La cosa è fatta.

Isabella. Oh! Voi séte salvatico!

Lelia. Noi sarem veduti.

Crivello. Oimè! oimè! O seccareccio, altrettanto a me.

Scatizza. Non ti diss’io che la baciarebbe?

Crivello. Or ben ti dico ch’io non vorrei aver guadagnato cento scudi e non aver veduto questo bacio.

Scatizza. Il veggio. Cosí fusse tócco a me!

Crivello. Oh! Che fará il padrone, come egli ’l sappia?

Scatizza. Oh diavol! Non si vói dirglielo.

Isabella. Perdonatemi. La vostra troppa bellezza e ’l troppo amor ch’io vi porto è cagion ch’io fo quello che forse voi giudicarete esser di poca onesta fanciulla. Ma Dio lo sa ch’io non me ne son potuta tenere.

Lelia. Non fate queste scuse con me, signora; che so ancor io come io sto e quel che, per troppo amore, mi son messo a fare.