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330 gl’ingannati


Clemenzia. E quanti mariti ho io provati, Spela? che Dio te faci spelar da le mosche! Hai tu forse invidia di non esser stato un di quelli?

Spela. Si, per Dio! che la gioia è bella, almanco.

Gherardo. Tace, bestia, che non lo dico per cotesto, io, no.

Spela. Perché lo diceste adunque?

Gherardo. Perché arei tante volte abbraciata, baciata e tenuta in collo la mia Lelia dolce, di zuccaro, d’oro, di latte, di rose, di non so che mi dire.

Spela. Oh! ohu! Padrone, andiamo a casa. Sii! presto!

Gherardo. Perché?

Spela. Voi avete la febbre e vi farebbe male lo star qui a questa aria.

Gherardo. Io ho il malan che Dio ti dia. Che febbre! Io mi sento pur bene.

Spela. Dico che voi avete la febbre: lo conosco ben io, certo; e grande.

Gherardo. So ch’io mi sento bene.

Spela. Duolvi il capo?

Gherardo. No.

Spela. Lasciatemivi toccare un poco il polso. Duolvi stomaco o pur sentite qualche fumo andare al cervello?

Gherardo. Tu mi pari una bestia. Vuo’ mi far Calandrino, forse? Io dico ch’io non ho altro male che di Lelia mia, delicata, inzuccarata.

Spela. Io so che voi avete la febbre e state molto male.

Gherardo. A che te ne accorgi tu?

Spela. A che? Non vi accorgete che voi séte fuor di gangari, farneticate, affannate e non sapete che vi dire?

Gherardo. Gli è Amor che vuol cosi, non è vero, Clemenzia? Omnia vincit Amor.

Spela. Ohu! Che bel detto da napoletani! Facetis manum, brigata. Mai piú fu detto.

Gherardo. Quella crudelina, traditorina di tua figliana...

Spela. Questa non sará febbre, ma scemamento di cervello. Ohu! Povero a me! come farò?