Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. I, Laterza, 1912.djvu/301


atto quinto 293

          perché sopra di te non abbi alcuno
          ne la mia casa ma ne sia signora.
          E perché il nostro aver, per il passato,
          maneggiav’io, mi truovo da appiattare
          un cassettino ov’io missi da canto
          1 molti ducati e gioie: ond’io ti prego
          che mostri avere in te giudizio e ingegno,
          che li salviamo; e fidarsi d’altrui
          cognoscer dèi da te che non sta bene.
          Io verrò qui istasera a le cinque ore.
          Fa’ che mi attenda. — E le mostrai de l’orto
          la fenestrella. E dissi: — Come dorme
          tua madre, verrai qui, che gli avrò meco
          e insegnerotti quel che vo’ che faccia. —
          Semplicemente (come puoi pensare)
          la mi rispuose che non sapea come
          levarsi, che la madre non sentisse.
          Rimase, al fin, di farlo. E la pregai
          che facesse che alcun mai noi sapesse
          e che a la madre ancor trovasse iscusa
          perché non s’avedesse di tal cosa.
          Non ti dico altro. La mi venne fatta.
          E cosí fu la fin d’ogni mio affanno
          e ’l principio d’un si felice stato
          ch’io quasi par che a me istesso noi creda.
          Che te ne pare?
          Fileno Io, non sol mi stupisco,
          ma, dentro, d’allegrezza mi confondo.
          Bene è venuta a tempo: che comprata
          l’hai con tanti disagi e tanti pianti
          e tante amare notti e tanti giorni
          che appena mi risolvo se ciò basti
          a compensar tante fatiche e danni.
          Hai ben da ringraziar tutti li iddíi
          di tanto dono; ch’io cognosco certo,
          se questo non riusciva, la sposavi.