Francesco Guicciardini

Roberto Palmarocchi Indice:Guicciardini, Francesco – Scritti autobiografici e rari, 1936 – BEIC 1843787.djvu Oratio defensoria Intestazione 13 gennaio 2021 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Scritti autobiografici e rari
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VIII

ORATIO DEFENSORIA

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DEFENSORIA CONTRA PRECEDENTEM

Cognosco non essere conveniente, giudici, che chi si sente innocente e con la conscienzia purgata, tema o si perturbi per le accusazione false, perché debbe sperare che Dio giustissimo giudice sia suo protettore e defensore, né comporti che la veritá sia suffocata dalle calunnie. Nondimeno queste cose insolite che mi si presentano innanzi agli occhi mi commuovono non mediocremente l’animo, vedendomi qui in mezzo di tanta multitudine, la quale tutta guarda me solo ed è testimone delle mie molestie; e che doppo una legge nuova, una nuova forma di cognoscere la causa ed udire le parte publicamente, io sia el primo chiamato in giudicio e riguardato da tutti quasi per esemplo, pieno di travagli abbia in pericolo tutto quello bene che ha e possa avere uno cittadino; e dove pochi mesi innanzi pareva che io avessi tanta felicitá che fussi quasi invidioso agli amici, ora mi truovi sí afflitto che sia nonché altro, miserabile agli inimici. Nondimanco la speranza che io ho prima nello onnipotente Dio, che non è solito lasciare opprimere alcuno a torto, di poi, giudici, nella bontá e sapienzia vostra, mi conforta e mi sostiene, in modo che non solo tengo per certa la salute (e che altro può sperare innanzi a tali giudici uno innocente?) ma ancora mi pare che lo essere chiamato in giudicio si possa attribuire a felicitá.

Migliore fortuna sarebbe stata che questi carichi e questi romori che non hanno causa o fondamento alcuno, non mi fussino sí ingiustamente andati addosso; ma poi che erano andati ed appiccati negli animi di molti, non potevo desiderare [p. 250 modifica]piú cosa alcuna, che venire occasione che la innocenzia mia fussi cognosciuta da ognuno sí chiaramente, che nessuno ne potessi piú dubitare, acciò che finalmente io apparissi al presente nel conspetto della cittá quello che sempre sono stato e per el passato sono apparito. Arebbelo a ogni modo fatto el tempo per se medesimo, perché come dice el proverbio, gli è padre della veritá, la quale è impossibile che a lungo andare non venga in luce; ma con queste contradizione e dispute si chiarirá per modo che resterá sanza dubio piú purgata e piú splendiente. Però se lo accusatore mio si è mosso a questa accusazione per zelo, come lui ha detto, della republica, non posso, sendo ancora io cittadino, volergli male di questa sua buona mente; se l’ha indotto la ambizione, come e molti credevano prima, ed ora che l’hanno udito lo credono molto piú, sono sforzato avere obligazione alla imprudenzia sua, poi che non ha cognosciuto che da quelle arme con che credeva offendermi ed opprimermi, io resterò difeso e sullevato, benché di lui e del fine suo io parlerò in altra parte.

Ora poi che tutto el fondamento della innocenzia mia consiste in Dio e ne’ giudici, io priego prima con tutto el cuore la Divina Maestá, che quale è l’animo mio e quali sono state le mie azione, tale sia el fine di questo giudicio. Se io sono infetto di quelli peccati che io sono imputato, non recuso di essere punito come meritamente si debbe, ed essere esemplo a ognuno della severitá vostra, giudici; ma se io sono innocente, che mi dia facultá di esprimere bene le ragione mie ed illumini in modo la mente de’ giudici, che la autoritá che questo popolo ha data loro per gastigare e’ cattivi, non sia a distruzione de’ buoni.

Di poi dimando a voi giudici non misericordia, non compassione, non memoria di quella benivolenzia che ho avuto con molti di voi, ma una sola cosa, ed a giudicio di ognuno molto ragionevole e molto onesta: che voi non portiate qua le sentenzie fatte in casa, ma le facciate nascere e le formiate in su questo tribunale; caviatele non dalle opinione e romori del vulgo, non dalle calunnie de’ maligni, ma dalle conietture, [p. 251 modifica]da’ testimoni, dalle pruove che vi saranno addotte in giudicio; rimoviate le impressione se alcuno n’avessi fatte, e fermiate l’animo e la intenzione come se oggi udissi una cosa di che non avessi mai sentito parlare, e con resoluzione di giudicarla non secondo che molti vanamente hanno creduto, ma secondo che maneggiandola e mettendo la mano nella piaga la vi apparirá e consterá. Cosí appartiene alla vostra bontá, la quale debbe essere piú presto desiderosa di potere giustamente assolvere, che rigidamente condannare, o almanco non inclinata in parte alcuna; cosí appartiene alla vostra sapienzia, la quale debbe considerare quanto sia pernizioso alla republica che alcuno innocente sia con false calunnie, con invidiosi romori oppresso a torto; cosí ancora è la voluntá del popolo, el quale se bene ha creduto o crede forse ancora qualche cosa, ha però voluto che diligentemente sia cognosciuto la veritá, e però non ha commesso o che io sia punito sanza essere udito, o preposto a questo giudicio uomini ignoranti e leggerissimi, ma persone di tanta prudenzia, bontá e gravitá, che ha tenuto per certo che non manco abbino a sapere che a volere trovare la veritá.

E certo, giudici, se in voi sará quella attenzione ed animo che io presuppongo, vi farò facilmente cognoscere che rimosso questo velo, questa nebbia di carichi e romori falsi, questo grido che, nonché sanza causa, ma anche sanza colore mi è andato addosso, non fu mai chiamato in giudicio alcuno con piú debole, con piú leggiere calunnie; nessuno fu mai assoluto con piú aperti, con piú saldi, con piú giusti fondamenti. Però sono certo che udendo le mie giustificazione vi verrá non solo compassione di me, che sanza alcuna causa sia stato cosí iniquamente sottoposto alle lingue de’ maligni, cosí ingiustamente lacerato da ognuno, ma nel caso mio considerrete el vostro e quello di ognuno, perché quello che sanza alcuna causa e sanza alcuno colore è intervenuto a me, può intervenire ogni dí a voi ed a ognuno.

Cosí è in facultá della invidia e della malignitá fingere e divulgare uno peccato di uno altro innocente, come contro [p. 252 modifica]alla veritá ha fatto e divulgato di me; cosí in potestá dello errore e della ignoranzia credere vanamente nel caso di uno altro, quello che ha creduto nel mio. Anzi sono molti sottoposti piú a questo pericolo che non ero io, perché avendo io giá molti anni fatto in tanti modi ed in tanti luoghi esperienzia di me, ed essendo non per una esperienzia sola di uno di, ma per molte, e per el corso di molti anni risonato in questa cittá tale odore della integritá e delle altre qualitá mie, che per parlare modestamente né io né la casa mia aveva da vergognare, pareva poco credibile che facilmente potessi nascere di me romore contrario, manco credibile che facilmente si avessi a credere, e scancellare cosí facilmente una opinione giá confermata ed invecchiata. Nondimeno se con uno grido di uno dí si è dimenticato ogni cosa e creduto in una ora sola el contrario di quello che era stato creduto tanti anni, quanto piú n’hanno a temere coloro che insino a ora non hanno avuto occasione di mostrare quello che sono, e della virtú de’ quali s’ha piú presto speranza che se ne sia veduto esperienza, ed in chi uno romore falso che nascessi non ará a combattere con opinione o memoria delle azione ed opere passate, ma non trovando ostaculo si apiccherá piú facilmente e con piú fondamento, ed essendo piú fondato, sará piú difficile a spegnere o sbarbare. Nella causa mia adunche e nel pericolo mio si tratta la causa ed el pericolo di molti, perché a tutti può accadere el medesimo che a me, a molti ancora piú facilmente che a me: però quella bontá e quella prudenzia vostra, giudici, che è debita in questo giudicio a me solo, mi debbe tanto piú volentieri essere prestata da voi, quanto piú cognoscete che quella salute che voi darete a me, con ragione potrá essere utilitá vostra e di tutti, quello male che voi mi facessi a torto potrebbe a qualche tempo nuocere con lo esempio a voi ed a tutti.

Sia adunche el fondamento principale della difesa mia quello che è verissimo, quello che è giustissimo, quello che non può avere alcuna replica o contradizione: che in questo giudicio non si attendino e’ carichi, non si attendino e’ romori, [p. 253 modifica]non si giudichi la causa col grido ma si cerchi la veritá; odinsi diligentemente e’ testimoni, pesinsi le pruove, considerinsi bene le conietture; concesso questo, che nessuno, mi si può1 negare, sono giá assoluto, sono liberato. Né io, giudici, fo instanzia che voi giá fermiate nello animo vostro che questi romori siano falsi, che siano contrari alla veritá; non vi dimando questo, se bene quando io lo dimandassi, non dimanderei forse cosa troppo inconveniente: perché che ingiustizia sarebbe, che essendo in su una bilancia da uno canto le cose fatte da me per el passato, la esperienzia di tanti anni, e quello che lungamente voi ed ognuno ha inteso e creduto di me: da altro niente, eccetto una opinione in aria durata quattro dí, uno romore incerto sanza origine, sanza autore, sanza verisimilitudine alcuna; che ingiustizia, dico, sarebbe, se con uno fondamento fermo, certo e paragonato, si ributtassi una vanitá di uno grido che non ha né veritá né colore? Ma io non dimando questo, non voglio che le cose mie procedino con sí buona condizione, non che mi giovi le fatiche, el sudore e pericoli di tanti anni, non che voi abbiate memoria alcuna di quello che per el passato avete veduto e creduto me; bastami, contentami, ho per grandissima felicitá, che stiate con la opinione vostra sospesi, stiate neutrali, parati a credere che e’ carichi siano veri, se con le pruove e con la chiarezza, e non col grido, si mostrerrá che siano veri; parati ancora a credere che siano falsi, se con la veritá, con la ragione si mostrerrá che siano falsi.

E perché tutto el fondamento della causa, tutta la difesa mia consiste qui, e fermato bene questo, è remosso ogni difficultá, ogni disputa, io, se non mi confidassi interamente nella sapienzia vostra, mi ci affaticherei piú, mi distenderei piú, allegherei molti esempli per e’ quali saresti capaci non solo voi che sanza questo siate, ma ancora tutto questo popolo, né manco che gli altri, quegli che hanno creduto piú che gli [p. 254 modifica]altri, che quello che ora è intervenuto a me di essere calunniato falsamente, è in ogni tempo ed in questa cittá, come nelle altre, intervenuto a infiniti uomini di grandissima virtú e bontá, e che erano lo specchio ed omamento delle loro patrie; anzi pare che questa, o invidia o fortuna che la sia, percuota piú spesso e piú volentieri chi manco lo merita, che gli altri; e quello che in ogni tempo è accaduto a tanti e che ora accade a me, può facilmente in futuro accadere a tutti gli altri.

Direi che Roma non ebbe mai né el piú utile né el piú savio cittadino che Fabio Massimo che con la prudenzia sua e col sapersi temporeggiare raffrenò el corso delle vittorie di Annibale; nondimeno quando era piú utile alla republica, ebbe tanto carico di tenere quelli modi co’ quali salvava la cittá, che fu creduto dal popolo che fussi d’accordo con Annibale, e venne in tanta infamia che alla dittatura gli fu dato uno compagno, cosa che né prima né poi non fu mai fatta a Roma; ma non mancò la veritá del solito suo, perché poco poi furono cognosciuti e’ sua meriti e confessato da ognuno che da lui solo s’aveva a ricognoscere la salute della cittá.

Ardirò dire che non solo in Atene che fu sí savia e sí famosa cittá, ma che anche in nessuna altra republica non fu mai el piú degno né el piú glorioso cittadino di Pericle; perché non con forze, non con fazione, né con alcuna corruttela governò trenta anni quella cittá che era libera, con la autoritá sola e riputazione della virtú; e nondimeno perché nella guerra contro a’ Lacedemòni, di che lui era stato consigliatore, seguí qualche disordine, fu con grandissimi carichi e romori deposto dal popolo del governo; benché poco poi accortisi del torto fatto a lui e del danno fatto a sé, lo restituirono maggiore che prima.

Né mi mancherebbono anche esempli nella nostra cittá, e quello che è piú nella famiglia nostra medesima. Messer Giovanni Guicciardini, essendo commissario del campo nostro nello assedio di Lucca, ed essendo el campo nostro sforzato a ritirarsi, fu sanza fondamento alcuno infamato d’avere avuto [p. 255 modifica]danari da’ lucchesi, di che fu accusato innanzi a’ rettori della cittá, e se bene gli fussi spinto adosso da Cosimo de’ Medici che allora aspirava alla grandezza, prevalse la innocenzia sua ed onorevolissimamente fu assoluto da’ giudici, e cognosciuto da ognuno quello che era. Ricordomi io ancora quasi fanciullo levarsi uno grido adosso a Piero Soderini, che andò tanto innanzi che insino allo uscio di casa gli furono dipinti molti improperi; nondimeno perché non aveva fondamento cadde da se medesimo in terra in capo di poche settimane, e lui, innanzi che passassi uno anno, fu fatto con grandissimo favore gonfaloniere a vita.

Potrei allegare questi ed infiniti altri esempli, ma è superfluo, giudici, alla sapienzia vostra la quale per se medesima è capacissima che altra cosa è una calunnia, altra una imputazione vera. Questa ha principio, ha autore certo, ha chiarezza, ha particulari de’ modi e de’ tempi; vedesi la origine sua, vedesi el progresso, veggonsi e’mezzi, non si può tanto occultare che si spenga, non tanto negare che non appaia, e quanto piú va innanzi col tempo, tanto piú si fonda e si ferma; quella non ha capo, non ha principio alcuno certo, non si vede la fonte, né si sa lo autore; è varia e confusa, non distingue tempi, non modi; non sa dire altro che dire: ha rubato; dimandato che, come o quando, tanto ne sa uno quanto uno che venga di Egitto; quanto piú si cerca manco si truova; quanto piú si vuole scuoprire tanto piú diventa incerta; el tempo da se stesso la consuma e la riduce in termine che alla fine chi l’ha creduta si vergogna di se medesimo d’averla creduta. Vediamo ora di che sorte è la nostra, e giudicate, giudici, se io sono degno di odio o se io merito compassione.

È el primo capo della accusazione che io ho rubato somma infinita di danari, e per potergli rubare, ho concesso a’ soldati nostri a sacco questo paese: peccato sanza dubio sí grande, sí enorme e sí orribile che tutte le arte di che è stata piena la orazione dello accusatore, tutte le esclamazione che ha fatto, ancora che siano state sí veementi e terribile, non sarebbono bastate a dimostrare una minima parte della gravezza sua. [p. 256 modifica]Ma non si può ragionare della pena se prima non si cognosca del delitto; s’aveva prima a chiarire questo, prima a dichiarare el verbo principale, poi a parlare degli accessori, e spargere quella vena di eloquenzia, la quale ti è parso non potere fare meglio cognoscere che col pigliare una accusazione falsa, perché le vere sa mostrare ognuno anzi si sostengono da se medesime, né hanno bisogno dello ingegno o lingua dello oratore; benché piú laudabile era cercare di mostrare alla patria prudenzia o bontá che artificio di parlare; mostrare che tanti anni che tu hai studiato e Cicerone e filosofi, avessi imparato che la patria ha bisogno di cittadini buoni, amorevoli e gravi, non di ornati parlatori, e’ quali o non mai gli sono utili, o almanco sempre gli sono dannosi, se non hanno congiunta la prudenzia e gravitá con la eloquenzia. Ed in che consiste piú la prudenzia di uno accusatore, che in sapere eleggere reo che difficilmente possa essere assoluto, non uno che non possi essere condannato? In che consiste piú la gravitá, che nel fondarsi in cose solide, pesate e certe e vere, non in argomentuzzi ed in cavillazioncelle, che da lontano paiono poco, da presso e quanto piú le strigni si risolvono in fummo?

Ha chiamato per testimonio uno esercito intero; credetti vedere questa piazza piena di arme e di cavalli; ebbi, io lo confesso, paura, perché ora che sono cosí abietto, cosí percosso dalla fortuna, con difficultá combatto con uno, non che io potessi difendermi da uno esercito. Ma dove è questo esercito? Volessi Dio che cosí fussino tutti gli eserciti! Non aremo mai paura di guerre o di inimici; perché questo non si vede, non si sente, non fa né male né paura a persona; è simile alle nostre calunnie, che chi le ode da altri, crede siano qualche cosa grande, ma ognuno che se gli accosta vede che sono non nulla. Cosí, tante migliaia di uomini, tanti capitani, tanti signori, tante legioni, si riducono a quattro, sei testimoni, e’ quali dimandati diligentemente quello che dicono, diranno alla fine loro medesimi che non sanno quello che si dicono. Non voglio recusarli, come giustamente potrei, perché sono tutte persone che, come hanno detto loro medesimi, patirono [p. 257 modifica]gravi danni nei transito ed alloggiamenti di quelle gente, né potendo valersi contra di chi gli ha danneggiati, cercano sfogarsi dove possono.

E chi non sa quanto le cose de’ testimoni sono tenere ne’ giudici, quanto bisogna avvertirvi, quanto debbono essere non solo tali che in loro non apparisca causa alcuna di grave passione, ma ancora tali che non si possa conietturare una minima scintilla di qualunque leggiere sdegnuzzo? Perché poi che dal detto loro ha dependere cosa sí grande quanta è la condannazione di uno uomo, arebbono volentieri le legge ordinato che non si stessi a detto d’uomini, sapendo quanto sono communemente corruttibili, e potendo dubitare che se bene non apparisca causa di corruzione, pure che segretamente la vi fussi; ma poi che per difficultá di provare le cose altrimenti, è stato necessario ammettere e’ testimoni ne’ giudici, hanno voluto le legge obidire alla necessitá, ma non dimenticarsi el sospetto, e però hanno escluso el testimone ogni volta che si possa conietturare causa alcuna per la quale possino avere passione, benché leggiere, nel negocio che si tratta.

Se adunche io facessi instanzia che a questi testimoni che dicono avere patito gravi danni, non si credessi, che non si tenessi conto alcuno del detto loro, né e’ giudici lo negherebbono, né questa moltitudine se ne maraviglierebbe, né tu sapresti che dire in contrario. Ma vedi quanto io procedo alla piana, quanto io confido nella veritá, quanto io non fo altro fondamento che della innocenzia mia: non oppongo a questi tuoi testimoni né questo né altro che si potessi opporre; non gli rifiuto; presto loro quella medesima fede che tu, anzi gli metto in migliore grado; che dove tu gli hai prodotti per soldati, io sono contento che questi giudici gli accettino per vangelisti, perché non so se el detto loro è vero o falso, ma so bene che non mi nuoce; ed a te forse pare che io t’abbia fatto una grazia grande, a me pare averti donato non nulla.

Che dicono questi benedetti testimoni? Dicono che quando si facevano quelli danni, udirono dire a molti fanti, (forse che [p. 258 modifica]hanno allegato capitani? o almanco avessino allegato uomini d’arme!) udirono, dico, dire a molti fanti, mentre che erano ripresi del rubare, che rubavano perché non erano pagati, e messer Francesco aveva dato loro licenzia che rubassino; questo ridotto atto è el sugo di tutto questo esamine. O bello testificato, o pruove concludente, o testimoni da averne paura! Non si sa chi siano questi fanti, non di che compagnie; non so se erano fanti pagati ordinariamente, o pure venturieri mescolati tralle compagnie, come sempre ne concorre infiniti drieto agli eserciti; e noi vogliamo avergli per testimoni, stare a detto di loro soli in una causa di tanta importanza, di tanto interesse?

Vogliono le legge che in ogni causa benché minima si sappino e’ nomi de’ testimoni, la patria, la origine, la vita, le dependenzie, acciò che si possino interrogare, si possi ricercare se hanno passione alcuna, si sappino e’ portamenti loro; perché a quegli che sono di mala fama, di mala vita, non si dá fede, e si crede che chi è poco circunspetto nel fare, sia ancora manco avvertito nel dire; vogliono, quando sono ancora integri da ogni parte, che abbino a dire quello che ne sappino, allegare particularmente tutto quello che hanno inteso, che hanno veduto, che è stato loro detto, dove, come, quando e da chi; che abbino a dire tanti particulari, che la cosa quasi da se stessa si metta in luce e si tocchi con mano; e noi crederreno a testimoni incogniti, a testimoni di poca condizione, a spadaccini, a ruffiani, testimoni usi a dire piú bestemmie che parole, e quello che è piú, a testimoni ladri, a testimoni trovati in sul furto?

Non dicono questi testimoni che tu hai prodotti, a’ quali io presto fede e non derogo loro niente, avere udito cosí rispondere da questi soldati quando erano ripresi delle loro ruberie? Dunche s’hanno a credere a uno che ruba le cose, che dice per coprirsi, a uno che si truova col furto in mano? Non si impiccherebbe mai nessuno ladro. Che volevi tu che dicessino: noi rubiamo perché siamo di mala natura, perché noi siamo ladri, perché non facemo mai altra arte? O quale [p. 259 modifica]è quella moglie che trovata col compagno addosso non sappia trovare qualche scusa; chi è quello ladro che confessi mai alla prima el furto quando è prigione ed è alla corda, nonché quando è libero per le piazze? E che scusa potevano allegare altro che questa, che è sola ed unica de’ soldati che rubano in terra degli amici, perché non ci è legge, né ragione, né consuetudine militare che lo permetta, se non el non essere pagati?

Non dicono che messer Francesco l’abbia detto loro lui, non averlo inteso da lui, non cosa alcuna che sappino che gli abbia dato questa licenzia o commissione; e se e’ primi e migliori uomini di questa cittá testificassino a questo modo, non sarebbe sí piccolo giudice che non se ne ridessi, non procuratore o avvocato che gli volessi leggere, e che non gli paressi avere gittato via el tempo e la spesa a farlo esaminare. Ma perché consumo io tante parole in una cosa sí manifesta? E perché vo io cercando di generare fastidio dove ho bisogno di generare attenzione? Se adunche questi testimoni per loro medesimi non vagliono nulla, se non pruovano nulla, se da sé soli sono ridiculi, quali sono le conietture o aiuti estrinsechi che gli sostenghino e faccino empiere el detto loro?

Sogliono coloro che governano le cause, quando bene si truovino gagliardi di testimoni, cercare di aiutare el fondamento suo o con scritture o con qualche altro lume, almanco con qualche coniettura; il che se fanno quegli che co’ testimoni soli possono vincere, quanto piú lo debbono fare coloro che hanno e’ testimoni deboli, e molto piú come ha el nostro accusatore che non ha nessuno! Perché tanto è avere testimoni che non pruovino, quanto è non ne avere nessuno. Ma dove sono in questa causa? Non solo non ce n’è nessuna, ma non ne è pure stata allegata nessuna, non pare pure che vi sia stato pensato. Direno che proceda [da] imperizia dello accusatore? Non sarebbe forse maraviglia, perché altro è leggere Prisciano o Aristotele, altro è trattare una causa; ma non è questo, giudici, non è questo; perché ha pure imparato tanto che saprebbe pure governare in una causa in volgare; e quello [p. 260 modifica]che da se medesimo non avessi cognosciuto, crediate a me, non gli è mancato maestri, non gli è mancato con chi consultare, e di quegli della professione mia, e’ quali io non nomino per avere piú rispetto loro, che non hanno essi a me.

Non sono ancora in tanta compassione che manchi chi mi perseguiti; non manca chi, non saziato di vedermi afflitto nel conspetto degli uomini, di vedermi avere bisogno di coloro che solevano avere bisogno di me, desideri el sangue mio, desideri vedere l’ultima ruina mia, desideri vedermi esemplo di tutte le calamitá e miserie. Misero a me, che ho io fatto loro? Non gli ho giá mai offesi, non gli ho provocati; se è invidia, sono pure oramai ridotto in grado che doverrebbe succedere la compassione, e come è scambiata la fortuna mia, cosí doverrebbe essere scambiati gli affetti degli uomini verso di me. Ma la non va cosí: è in loro quella medesima sete di spegnermi e di estirparmi, che era giá di abbassarmi; però non sono mancati allo accusatore né consigli, né ricordi, né suggestione.

Se potessino mostrare qualche spesa grossa fatta da me, che facessi fede al furto, crediate che a questa ora l’arebbono mostra; se altra coniettura, indizio o parola, non sono stati negligenti a cercarla, non sarebbono mancati di diligenzia a dedurla. Se nella vita mia avessino trovato note di furti, di rapine o di avarizia l’arebbono allegate; cercato con le cose passate fare ombra alle presente, e meritamente, perché quale è stata la vita di uno per el passato, tale si debbe credere che sia di presente, e come difficilmente si può credere che uno che sia stato sempre buono cominci di subito a diventare malo, cosí è mai verisimile che chi ha fatto abito nel male se ne astenga quando n’ha occasione. Non si allegano dunche queste cose, perché non ci sono; non ci sono testimoni, non scritture, non chiarezze non lume alcuno, non pure conietture mediocre, non pure leggiere, non tale che abbino, nonché altro, ardire di allegarle; tutto è fondato in su’ romori, in su’ gridi, e’ quali voi avete giá ributtati, a’ quali siate giá deliberati di non dovere né potere credere. Però in [p. 261 modifica]quanto a questo capo io ho satisfatto alla difesa, perché non è provato, non pure aombrato el furto; e chi non sa che non solo nelle cause criminali, ma in una differenzia di tre quattrini, se chi dimanda, chi fa instanzia non pruova, che el giudice non ha a fare altro che assolvere?

Posso adunche passare agli altri capi della accusazione, perché tra molte difese che ha chi è chiamato in giudicio, nessuna è piú facile, piú ferma, piú espedita, e che piú serri la bocca allo accusatore, piú tolga fatica al giudice, che potere dire el reo: e’ non è provata la intenzione. E certo se el primo dí che io fui chiamato in giudicio, anzi per dire meglio el dí medesimo che fu publicata la elezione de’ giudici, vedendogli io di tale qualitá che nessuno innocente poteva desiderarli migliori, io non mi fussi proposto nello animo maggiore fine che la assoluzione, e di salvarmi dalla rabbia degli inimíci miei, io starei contento a questo né cercherei piú oltre, e mi parrebbe assai, se non provato buono, non essere chiarito cattivo. Ma perché da quello dí in qua ho sempre sperato non tanto avere a essere assoluto, quanto essere assoluto in modo che tutta la cittá, tutti coloro che hanno creduto el male toccassino con mano el bene, ed essere restituito a quella buona opinione che giá tutto questo popolo per sua bontá ebbe di me, non mi basta quello che è fatto insino a qui, voglio procedere piú oltre, voglio fare io quello che toccava a fare allo accusatore, voglio provare, voglio chiarirvi che io non ho rubato, né ho potuto rubare e’ vostri danari; né recuso di essere, se io non lo pruovo, condannato come doverrei essere se lo avversario avessi provato lui: condizione tanto insolita, tanto dura che bisogna o che voi mi tegnate pazzo, o che voi cominciate a credere che io sia innocente. Né basterebbe che io fussi pazzo di una pazzia mediocre, ma di quella forte di quegli che gettano el pane non che le prietre, poi che trovandomi assoluto cercassi di ritornare in pericolo sanza proposito; e quello che è piú, non solo mi obligo a provarlo, ma a provarlo con ogni spezie di pruove che soglia ammettersi ne’ giudici, con conietture potentissime, con testimoni, [p. 262 modifica]con scritture. Il che se io farò, o cittadini, non vi prego altro, non vi dimando altra grazia, se non che si cancelli la mala opinione che a questi mesi avete avuto di me, che piú sia creduta la veritá che e’ carichi, che la invidia che m’ha tanto percosso diventi compassione, ma vegnamo allo effetto.

Mi persuado che ognuno di voi, giudici, ognuno di questi cittadini abbia opinione e creda, o che non sia vero che io abbia dato licenzia a’ soldati che saccheggino el contado, o che se questo è vero, che la causa sia stata che, avendo io voluto rubare le paghe, mi sia bisognato pascere e’ soldati con questo altro modo; e però se e’ non è vero che io abbia rubato e’ vostri danari, che non sia anche vero che io abbia fatto saccheggiare el contado, perché questo è causato e depende da quello, e provandovi che io non ho rubato, confesserete tutti d’accordo che io non vi ho fatto saccheggiare. Non dite voi questo medesimo? Ma che bisogna dimandarne voi che non darete mai se non risposte vere, piene di gravitá e di prudenzia? Non l’ha detto lo accusatore medesimo, non l’hanno detto e’suoi soldati, che per non gli pagare io davo loro questa licenzia? Ma quando non l’avessi detto, non lo dice la ragione da se medesima? Perché gli uomini non si mettono mai a fare male se non o per utilitá o per piacere. A me, se io pagavo e’ soldati come se non rubassino, che utilitá era fargli rubare, che piacere, che contento, che satisfazione di animo? Anzi in contrario molestie, querele, romori, carichi, inimicizie della sorte che voi vedete. Sogliono gli altri quando rubano cercare che si dia la colpa a altri: io arei de’ furti di altri cercato di avere la colpa io; gli altri quando sono tristi fanno ogni cosa per parere buoni: io essendo buono arei fatto ogni cosa per parere tristo. Siamo adunche tutti d’accordo che se io non ho rubato le paghe, non ho anche fatto saccheggiare el contado. Veggiamo se ho rubato queste paghe.

Sempre, giudici e cittadini, (io parlo ora anche a’ cittadini perché quello che io cerco, per che mi affatico ora, cioè di recuperare la buona fama, l’ho avere communemente da tutti; [p. 263 modifica]quello che era proprio de’ giudici, cioè essere assoluto, l’ho giá avuto, l’ho conseguito abastanza) sempre dico, quando si propone uno delitto di uno, la prima cosa che si apresenta all’animo degli auditori, innanzi si sentino pruove o testimoni, è el pensare se quello che si dice è verisimile o no; se è verisimile, si comincia a aprire una via che fa facilmente parere maggiore e piú vere le chiarezze che si allegano; e pel contrario se non è verisimile, bisogna bene che e’ testimoni siano degni di fede, bisogna bene che pruovino concludentemente, che le scritture siano chiare, perché è cosa molto naturale che malvolentieri si può credere che una cosa sia, se non è verisimile o ragionevole che la sia. Però ne’ giudíci criminali si dura fatica assai circa le conietture, e quando sono gagliarde, le sono di tanto peso, che bene spesso si dá loro piú fede che a’ testimoni, perché e’ testimoni possono facilmente essere appassionati o corrotti, ma la natura delle cose è sincera ed uniforme e non può essere variata; e se e’ verisimili hanno tanta forza dove sono testimoni che pruovano, quanta ne debbono avere nel caso nostro che non è provato nulla? E tra tutte le conietture una delle piú potente fu sempre ed è la vita passata dello imputato, e’ portamenti suoi, la sua consuetudine del vivere, perché in dubio si crede che ognuno sia di quella medesima natura, di quella medesima qualitá che è stato per el passato.

Cognosco, giudici, quanta difficultá abbia questo ragionamento, perché come naturalmente gli uomini pare che piglino uno certo piacere quando sentono dire male di altri, cosí pare che offenda gli orecchi quando sentono che uno dice bene di se medesimo; nondimeno poi che lo accusatore m’ha voluto fare ladro, la necessitá mi sforza a dire tutte quelle cose che mostrano che io non sia ladro; delle quali se alcuna è che vi dia fastidio, non dovete attribuirlo a me che sono necessitato a dirle, ma volerne male a chi per malignitá è stato causa di mettermi in questa necessitá. Di poi non è laude dell’uomo avere quelle cose delle quali se ne mancassi gli sarebbe vizio; lo essere netto non è tanto laudabile perché el non essere netto [p. 264 modifica]è vizio, quanto in chi fussi altrimenti sarebbe biasimevole. Sará piú presto scusarsi che laudarsi; sarebbe laude se io dicessi di essere ingegnoso, di essere prudente, di essere eloquente, perché anche chi non ha questa parte, non può essere biasimato, non essendo in sua potestá, ma doni della natura.

Io non voglio, giudici, raccontare quale fussi la vita mia innanzi che io andassi al governo di Modena, perché lo accusatore medesimo n’ha fatto fede, confessando che non sanza cagione fui cosí giovane eletto dagli ottanta imbasciadore in Spagna; e credo pure che sia nella memoria di qualcuno, che non ostante che lo esercizio mio sia odioso e sottoposto alle calunnie, la fu sempre di sorte che non fu mai giudicato che né di modestia né di bontá io non fussi degenerato da mio padre, e’ costumi e la integritá de’ quali furono sempre tali che lo accusatore me n’ha piú volte voluto fare carico; dove io spero che la mi abbia a fare grazia a favore, e che e’ meriti e la memoria sua m’abbia a giovare, quando apparirá che né lui se vivessi si pentirebbe d’avermi per figliuolo. Ma io non insisto in questi tempi perché si potrebbe forse dire che avevo poca occasione di fare male ed assai rispetto, essendo negli occhi della patria e di tutti e’ cittadini, a’ quali chi non ha desiderio di satisfare, si può bene dire che sia sanza gusto e sanza ingegno. Parliamo de’ luoghi dove cessano queste obiezione, ancora che in Firenze ed in quella professione non mancano de’ cattivi.

Andai di 33 anni al governo di Modena con quella autoritá e forse maggiore che ha detto lo accusatore, perché né alle amministrazione mie fu mai riveduto conto, né alle sentenzie dato appello; trovai una cittá piena di parte, piena di sangue, conquassata per tutti e’ versi, in modo che e la grandezza della autoritá e la condizione della cittá mi dava infinita occasione di rubare, massime che, come ancora ha detto lui, non si vive in quelli paesi come qua, perché non vi è republica, non si tiene conto del giudicio degli uomini, ognuno [p. 265 modifica]non attende a altro che al profitto suo particulare, sono soliti insomma a vendere e comperare ogni cosa. A Modena mi fu poco poi aggiunto el governo di Reggio, all’uno e l’altro quello di Parma. Andai commessario generale in campo con pienissima potestá; ebbi poi la presidenzia di Romagna, e tutte in modo che ognuno vedeva che tutto era rimesso a me, e che quanto allo effetto io non avevo superiore.

Che credete voi adunche che in tanto tempo, in tante cittá, in cittá tanto ricche, in cittá piene di parte, che erano state lunghissimo tempo sanza giustizia, dove erano infinite cognizione di cose criminali, infinite confiscazione, dove solo avevo autoritá di condannare, di bandire, di fare grazie, di fare composizione di qualunque sorte; che credete, dico, se io avessi voluto rubare, che fussi quello che io arei potuto? Non ha, sappiatelo certo né peso né misura; sarebbe bene tanto che io mi potrei ridere degli uficiali del balzello, dove ora, cosí mi aiuti Dio, è el maggiore pensiero che io abbia. Furono piú le volte che mi furono offerti mille, tremila, quattro, cinquemila ducati per campare la vita a qualcuno che meritava la morte, che non sono state le bugie che ha oggi detto lo accusatore, che non sono però state né otto né dieci; vi vissi in modo e vi detti tanto odore di non essere parziale e di avere le mani nette, che e’ superiori feciono a gara di darmi, sanza che mai io ne dimandassi alcuno, l’uno governo addosso all’altro; ed in tutte le calunnie, che qualche volta vere e bene spesso false, si dánno a chi governa, massime tanto tempo e con tanta libertá, non fu mai uomo che avessi ardire di dire che io avessi pure uno quattrino di quello di persona.

Ecco qua e’ brievi di tre pontefici: guardate se è ancora piú onorevole e piú ampio quello di Adriano che gli altri; leggete le lettere che quelle tre comunitá, Parma, Reggio e Modena, scrissono tante volte a dimandarmi per governatore a Adriano con tanta efficacia; che dicono altro se non che la salute di quelle cittá consiste nell’avermi per governatore? Ecco qua e’ partiti e le elezione degli imbasciadori mandati [p. 266 modifica]a dimandare questo medesimo: non sono cose fatte ora, non fede mendicate con favore di conti, che tutti, perché io gli tenevo bassi e non gli lasciavo opprimere e’ popoli come erano soliti prima, mi erano inimicissimi; ma sono le cittá intere in tempo che si trattava della maggiore importanza che abbino, perché la salute e ruina loro consiste totalmente dalle qualitá de’ governatori; in tempo che per avergli governati lungamente mi potevano cognoscere, in tempo che nessuno poteva credere che io avessi luogo apresso a uno pontefice nuovo, che non m’aveva mai veduto né udito nominare, che non solo m’aveva a cassare per volere instrumenti nuovi come fanno tutti gli altri, ma piú particularmente per essere io dependente dal cardinale de’ Medici, quale lui batteva allora con tutti e’ modi e che era in tanto disfavore che non ardiva stare a Roma.

E nondimeno, udito el testimonio di tante cittá, la fama ed el grido universale che gli risonò negli orecchi, non solo mi confermò el governo di Parma, ma mi restituí Modena e Reggio, donde el Collegio e la insolenzia del signor Alberto e del conte Guido Rangone m’avevano levato: affermando restituirmeli non per essere io antico ministro suo, non per cognoscermi amico delle tirannide, ma per e’ meriti miei, per avere governato eccellentemente quelle cittá, per cognoscermi integerrimo. Ecco qua e’ brievi scritti con molto piú onorevole e magnifiche parole che per modestia non dico; questi sono e’ miei testimoni, non saccomanni, non fantaccini incogniti, bestemmiatori ed assassini. Che allegrezze credete voi, giudici, che fussino quando arrivorono questi brievi in quelle tre cittá? Che concorso universale, che romore di campane, che fuochi, che artiglierie? Pareva che ognuno fussi rinato.

Ecco qua e’ testimoni: tanti vostri cittadini, tanti vostri mercatanti che passando per Lombardia hanno tutti veduto e sentito queste cose. Vedete quello dicono, quello che dicono questi altri che sono stati in Romagna, questi che fanno tuttodí faccende con romagnuoli; né solo udite quelle che dicono ora, [p. 267 modifica]ma so che ognuno di voi si ricorda che allora non si parlava di altro che della nettezza mia, della buona fama che avevo ne’ governi, della giustizia grande che io facevo. Le quali cose quando mi tornavano a orecchi, che pure le sentivo spesso, era, Dio mi sia testimonio, maggiore sanza comparazione el piacere che io avevo d’avere tra voi buono nome, che di quanti onori ed utili io vi avevo. E nondimeno, meschino a me, io non posso parlare per dolore; meschino a me, avevo a essere tenuto nella patria mia ladro publico, avevo a essere tenuto assassino, avevo a essere tenuto saccheggiatore e distruttore di questo paese. O speranze degli uomini fallace, o pensieri incerti, o disegni fondati in su la nebbia! Quante volte pensai da me medesimo: io tornerò in Firenze finiti che saranno e’ governi, che so che hanno a finire, tornerò con facultá che basteranno al grado mio, ma molto piú ricco di buono nome che di roba; non si spegnerá mai la opinione della bontá e della integritá mia, viverò felice con questa conscienzia mia, con questo buono concetto degli uomini; questo solo basterá a tenermi contento piú che altro cittadino da Firenze.

E nondimeno quanto sono io restato ingannato! Quando la nave era condotta in luogo che vedeva el porto, quando credevo cominciare a godere questo frutto di tante fatiche, di tanti pericoli, di tanti anni che mi sono strascinato, che ho stentato, che Dio sa se ebbi mai uno dí di riposo, quando credevo potere vivere riposato e consolato, ogni cosa mi è tornata vana, mi sono trovato con le mani piene di fummo. Se io avessi perduto la roba, se io avessi perduto e’ figliuoli, se avessi perduto la patria, non mi dorrebbe la metá; ma troppo mi pare strano, troppo mi pare ingiusto, troppo mi pare disonesto che in sullo uscio della patria mia mi sia caduto quello buono nome, che per condurci avevo rifiutato piú oro, piú oro che non pesa quello gigante. Dio che cognosce el cuore degli uomini, a chi non è occulto nulla, sa se io dico la veritá; nel quale se io non sperassi, credo mi pentirei di tutto el bene che io ho mai fatto, di tutto el male che io ho [p. 268 modifica]potuto fare [e] non ho fatto; ma voglio sperare in Lui: forse ha permesso questo a qualche buono fine acciò che io non mi lievi in superbia, acciò che io ricognosca ogni bene da Lui e non da me. Sono contento2 alla voluntá sua, ma lo prego bene con tutto el cuore che voglia che la veritá abbia el luogo suo, e che finalmente torni di me in quella buona opinione che giá soleva avere. Ma seguitiamo el parlare nostro.

Vedete di che qualitá io sono stato ne’ governi e con quanta nettezza e buono nome io sono vivuto; e se io sono stato cosí in cittá forestiere, dove sapevo non avere a vivere continuamente, e dove l’avere grazia e viva fama, subito che io ne fussi partito, non importava nulla, che si debbe credere che io sia stato quando ho maneggiato le cose vostre? Che conto è verisimile che io abbia tenuto di essere in buono concetto apresso a voi con chi avevo a vivere, e dove se bene avessi avuto mille sicurtá di non potere essere mai accusato, lo essere in buona opinione per infiniti rispetti mi importava assai, e pel contrario l’averla cattiva mi poteva fare grandissimi danni? Arò tenuto piú conto di quegli che non avevo mai piú a rivedere, e che non mi potevano né giovare né nuocere, che di coloro negli occhi di chi avevo a essere ogni dí, e da chi alla fine aveva a dependere la maggiore parte del mio bene e del mio male?

Andai in Lombardia giovane, povero, e fu la prima occasione che io ebbi mai di rubare: né la facilitá della etá né el bisogno non bastò a corrompermi; ed ora di etá di piú di quaranta anni, quando ho giá fatto abito di resistere tante volte alle corruttele, quando ho facultá non quante è la opinione degli uomini, ma quante bastano a uno animo modesto ed a vivere in questa cittá, arò cominciato a rubare? Arei potuto farlo allora con minore perdita, perché non essendo ancora esperimentato in questa spezie di cose, non avevo nome di incorruttibile; ed ora che avevo acquistato uno nome che, io non so del giudicio degli altri, ma al mio valeva piú che ogni [p. 269 modifica]tesoro, non arò fatto capitale di conservarmelo? Sarò stato astinente ne’ luoghi dove per essere spesso governatori rapaci non si fa cosí romore di ogni cosa, ed arò provato a diventare ladro dove non solo di uno furto grossissimo ed infinito come è questo, ma di ogni piccola quantitá si fa grossissimo romore? Sarommi guardato da usurpare privati di cittá suddite che non hanno né tanta autoritá di esclamare, né tanta fede di essere creduti, per saccheggiare una republica potente come questa, la quale avessi modo di risentirsene e facultá di punirmi?

Le rapine ne’ governi, se fussino state con dispiacere degli oppressi, erano anche con satisfazione di coloro per conto di chi si faceva la ingiustizia, ed io non sono voluto essere ladro con displicenzia di qualcuno, per rubare poi con danno di ognuno; quivi di quello che io avessi rubato sarebbe bene alla fine andata la fama, ma non si sarebbe potuto provare, perché sono cose che si fanno occultamente e non hanno testimoni nè ripruove; ed io mi sarei difeso da quello per fare uno furto che apparirebbe in mille modi né si potrebbe nascondere? È detto e creduto quando non fu mai fatto: pensate quello che sarebbe se fussi fatto. Arei finalmente, se volevo rubare, perduta la occasione di undici anni, dove solo potevo valermi, per aspettare doppo tanto tempo una commoditá incerta se aveva a venire e sottoposta a mille difficultá, e dove almeno sanza la compagnia di altri non potevo rubare? Perché lui medesimo confessa che bisognava el consenso di Alessandro del Caccia.

Vedete, giudici, quanto la cosa apparisce da se stessa; vedete, giudici, se tutte le conietture, tutte le ragione ripugnano: se questo caso fussi narrato qua sanza nominare le persone, come caso di qualche provincia lontana, e fussi dimandati tutti la vostra opinione, diresti non solo non essere verisimile, ma non essere possibile che chi giovane, povero, in grandissima licenzia, in patrie forestieri delle quali non aveva a tenere conto, si fussi astenuto per tanti anni da furti privati che poteva negare se non celare, ed e’ quali non erano con dispiacere di tutti; in etá provetta, in facultá buone, avessi cominciato a rubare nella patria sua, dove aveva a vivere e [p. 270 modifica]che aveva autoritá di punirlo con odio infinito di ognuno, sanza speranza di potergli nascondere. Non potresti rispondere né credere altrimenti; dunque bisogna che el medesimo diciate e crediate di me, se la impressione fatta prima non vi occupa el giudicio, se volete giudicare con la veritá non co’ gridi: però di nuovo vi priego che abbiate lo animo vacuo, né crediate se non quello che trovate, quello che vi si pruova e vi si mostra. Sono stato netto tanti anni, astenutomi da’ furti piccoli, da’ mediocri, per diventare in uno momento sceleratissimo? Non è questo secondo la natura delle cose, né può essere: nessuno, dice el proverbio antico, diventa in uno tratto tristissimo; sono scale che si salgono a scaglioni, si comincia, prima si augumenta, poi si conferma; cosí fu sempre fatto el mondo per gli altri, cosí s’ha a credere a me. Immaginatemi ladro quanto voi volete, quanto ha detto lo accusatore; non sono però stato d’altra natura, né proceduto altrimenti che abbino solito a’ fare gli altri ladri; quello s’ha a credere che è verisimile che si può credere, non quello che aborrisce dal senso di ognuno, che è contro alla consuetudine, contro allo ordine e contro al naturale di tutte le cose.

Ma udite vi priego un’altra piú presto certezza che coniettura. Se io ho rubato tanti danari, bisogna che io gli abbia o che io gli abbia spesi; ecco qui el calculo di tutte le possessione che io ho comperato, ecco qui el sunto cavato di tutti e’ libri che io ho prodotti, cosí quegli che ho tenuti io, non con ordine mercantile ma con tale ordine che apparisce la veritá, come quegli che con stile mercantile ha tenuti Girolamo mio fratello. Vedete quante erano le facultá mie innanzi che cominciassi la guerra, vedete quello che sono piú dal principio della guerra in qua. Ecco nota de’ danari rimessi a Vinegia, di che si è fatto tanto rumore, ecco le lettere, e’ conti mandatimi da Vinegia da Girolamo. Le quali tutte cose, giudici, sapete che io le produssi el dí medesimo che fui citato, in modo che né lo ordine con che sono state tenute di tempo in tempo, né lo spazio che io ho avuto lascia uno minimo sospetto che siano scritte a proposito di questo pericolo. Non sono giá [p. 271 modifica]rigattiere che per ordinario tenga e’ libri doppi, né sono indovino che dua, tre o quattro anni fa avessi immaginato questo caso e preparatomi. Dove dunche sono andati questi danari? Guardate come bene dice quello proverbio che le bugie sono zoppe, guardate quanta è la forza della veritá e della conscienzia. Non aspettava giá questo lo accusatore che io producessi e’ libri mia, a che nessuna ragione mi poteva strignere, non che io mettessi qua in mezzo le arme mie proprie, e dessi libertá a ognuno di adoperarle contro a me. È grande differenzia da non comparire e fuggire el giudicio, a sottoporsi al giudicio piú ancora che l’uomo non è obbligato, piú che forse non s’ha a memoria che facessi mai alcuno; se io fussi stato in Spagna sarei venuto per le poste, e tu mi credi persuadere a andarmene? Ho, se io non mi inganno, satisfatto a ogni cosa piú forse che voi non aspettavi, giudici, piú certo che non credeva questo popolo; ma non voglio ancora restare di mostrarvi piú oltre.

Io dico che dal principio di questa guerra insino alla ruina di Roma, tutta la fanteria vostra e del papa ha avuto la paga ogni trenta dí; e se qualche volta per non essere e’ danari in ordine o per essere impedito el tesoriere sono andati piú in lá dua o tre dí, sono stati fatti loro buoni in sulla paga; in modo che non hanno servito una ora sanza pagamento, e particularmente sono stati pagati nel tempo che vennono in Toscana. Chi dice questo? Diconlo tutti, diconlo loro; ecco qua le lettere di diversi tempi del conte Guido, del conte di Gaiazzo, che dimandano le provisione de’ capitani, perché era lo ordine pagare prima e’ fanti; ecco le fede de’ capitani medesimi; ecco tanti testimoni che dicono che in nessuna guerra di Italia non si feciono mai sí belli pagamenti. Ecco le lettere del nunzio del papa da Vinegia che quella signoria fa instanzia che noi non paghiamo ogni trenta di, perché e’ fanti loro, che sono pagati piú tardi, si sviano, di che se avessimo potuto contentargli l’aremo fatto sanza aspettare loro prieghi; ma lo essere distribuita questa fanteria in capitani troppo grossi, conte di Gaiazzo, conte Guido Rangone, signor Giovanni, ha [p. 272 modifica]fatto che non la potevo maneggiare a mio modo, e come si dirá di sotto, è stata causa di molti disordini. Sono queste tante prove che bastano? Credo che oramai ne avanzi, credo siate pure troppo chiari oramai che io non ho rubato. Ma veggiamo l’ultima pruova che non ha replica e bastava sola.

Tutti e’ danari sono venuti in mano di Alessandro del Caccia, tesoriere deputato dal papa e non da me: tocca a darne conto a lui e non a me; non si vede in su’ libri partita che in mano mia, dalle provisione mie in fuora, sia venuto uno quattrino: perché adunche si cerca da me quello che ha avuto altri e non io? Potevo in questi conti essere chiamato per testimonio come persona che ne potessi avere notizia, ma essere fatto io la parte, essere fatto el principale, è cosa tanto strana che si sentí mai simile. Se voi avete sospetto o opinione che e’ vostri danari siano stati rubati, dimandatene el conto a Alessandro del Caccia, esaminate lui: se non ci è furto, assoluto lui sono assoluto io, se ci è furto, non posso avere rubato io sanza lui, ma può bene lui avere rubato sanza me. Che giustizia è adunche, che onestá, che si cerca el furto da colui che può essere che non lo sappia, e si lasci quello sanza chi non può essere fatto? Se furto ci è, può essere sanza me, ma non può giá essere sanza Alessandro, e si cerca da me, non da Alessandro? E questo è, Iacopo, lo amore che tu di’ che mi porti? Ma lasciamo stare gli interessi privati: questo è el zelo della republica? Fate instanzia che sia astretto a dare conto uno che può essere che non abbia rubato, lasciato indrieto quello che non può essere che non abbia rubato; strignete quello sanza chi può essere fatto el furto, lasciate quello sanza chi non si poteva fare.

Non puoi giá piú dire che t’abbia mosso l’amore della republica, non el beneficio publico, perché né a questa cittá né alle altre non fu mai utile condannare e’ cittadini innocenti; piú presto è qualche volta a proposito serrare gli occhi a qualche cosa, ma non mai punire chi non lo merita. Non puoi piú negare che la sia malignitá, che la sia rabbia; hai creduto opprimermi co’ gridi, concitare contro a me el popolo, fare che [p. 273 modifica]e’ giudici o per paura o per errore non mi udissino; hai pensato diventare grande col sangue mio, parere amatore della republica, e che per interesse suo non tenessi conto di inimicizie. Se avessi creduto che io fussi udito, che e’ giudici fussino disposti a procedere con la veritá, non co’ romori, che el popolo stessi attento, non pigliavi giá tu questa fatica, non davi a me questa occasione di mostrare la innocenzia mia; ho obligo non giá alla tua voluntá, ma alla tua o malignitá o imprudenzia, perché non sí presto si cognosceva la veritá e forse sempre nella opinione degli uomini restava qualche nota; dove ora essendo per opera tua condotto al paragone, ne uscirò piú chiaro, piú lucido che mai.

S’ha adunche a vedere el conto a Alessandro e non a me. Ma io voglio essere d’accordo con lo accusatore; voglio satisfarlo in ogni cosa; arò3 contento che el conto de’ danari spesi ne’ soldati si vegga cosí a me come a lui, essere obligato se si truova che siano stati rubati; se si vede fraude, non si cerchi chi l’ha fatta, ma si dica che io l’ho fatta io. Vedete e’ libri come si sono tenuti, con che riscontri di tempi, con che ordine; avete udito quanto ieri Alessandro giustificò bene ogni cosa: produsse e’ libri delle rassegne, mostrò le ricevute de’ capitani, le fede che nuovamente ha avuto di tanti signori, de’ quali ognuno direbbe piú volentieri di restare creditore, che di essere pagato. Che dubio resta qui, che disputa? Io affermo arditamente che qui non è furto; ho veduto tutte queste cose, e perché so di piú che se le paghe non fussino state date a’ tempi che Alessandro scrive, che arei sentito el romore de’ soldati: sarebbono venuti a querelarsi a me, a fare instanzia che io provvedessi; non ho sentito alcuna di queste cose, ho veduto el piú delle volte fare le rassegne io. Adunche io so che io posso offerire di obligarmi per lui sanza pericolo.

Sia sempre laudato Dio, io sono, giudici, in questo punto piú contento, piú allegro che io fussi mai, perché si vede pure [p. 274 modifica]che io non sono ladro, è pure ora chiaro questo popolo che io non ho rubato, ho pure recuperato quello antico buono nome, restano pure le cose mie piú chiare, piú purgate come le fussono mai. Non ho rubato, non ho dunche neanche dato a sacco el contado, perché, come abbiamo detto, non poteva essere questo sanza quello. Ma mi potrá domandare alcuno: donde sono proceduti tanti danni, donde tanta disubidienzia? Se non è stata tristizia tua, bisogna sia stata negligenzia o dapocaggine. Potrei di questo espedirmi con una parola, che sono chiamato in giudicio per furti e per malignitá, non per insufficienzia, né hanno questi giudici carico di cognoscere, né autoritá di condannare per altri capi che per quelli per e’ quali sono stato accusato. Ma perché m’ho proposto nello animo maggiore fine che lo scampare la pena, né penso tanto alla assoluzione quanto a giustificarmi nel conspetto di ognuno e di quello che si è detto e di quello che si potessi pensare nonché dire, ho somma grazia che mi sia dato occasione di parlare di questo, e vi prego tutti che mi prestiate la medesima attenzione; perché se vi ho fatto constare chiaramente che in me non è peccato, vi farò ancora toccare con mano che non ci è colpa, e che nessuno di quegli che patirono danno ebbe tanto dispiacere in quello tempo de’ danni suoi propri, quanto ho avuto io dolore ed abbia di quelli di ognuno, e che non solo ho preso per questo inimicizie grandissime, ma ne sono stato a certissimo pericolo della vita.

Non crediate, giudici e cittadini prestantissimi, che solo questo paese abbia patito, e che e’ soldati abbino cominciato a disonestarsi nel fine della guerra, ma tutti e’ luoghi dove siamo stati hanno avuto e’ medesimi danni, ed el principio fu non el secondo, non el terzo mese, ma el primo dí, la prima ora della guerra; né solo questi soldati o quelli, ma tutti, e’ franzesi, e’ viniziani, e’ nostri, in modo che quando andamo alle mura di Milano, tutto el paese che ci era amicissimo per e’ mali trattamenti avuti dagli spagnuoli e sperava essere liberato e bene trattato dallo esercito della lega, veduto che aveva piú presto peggio che meglio, ci diventò [p. 275 modifica]inimicissimo. El medesimo fu fatto poi a Parma, a Piacenza, in Bolognese; in modo che quando andamo in Romagna, molte terre che avevano sentito questa fama, ci serrorono le porte, e quelle che non lo feciono si pentirono di non l’avere fatto. Sapete che successe poi di qua; el medesimo si fece poi in terra di Roma, dove si disperò tutta la fazione Orsina che ci aspettava con desiderio; el medesimo hanno fatto e fanno ora in tutti e’ luoghi, dove sono stati e stanno di presente. Dimandatene tutti e’ paesi, troverrete essersi fatto per tutto e da tutti e’ medesimi mali; cose che alle imprese recano infinite difficultá, perché mancano le vettovaglie, le guide, le spie, infinite commoditá che si possono avere da’ paesi amici.

Di tanti disordini e di tante insolenzie è causa prima la natura de’ soldati, che sempre sono inclinati a rubare ed a fare male; né cominciorno a’ tempi nostri quest loro tristi portamenti, ma è male vecchio e nato insieme con loro. Non vi ricordate voi quello che dice el proverbio antico, che el soldato è pagato per fare male e fa peggio? Che mostra pure che sempre furono di una sorte. Dimandate questi piú vecchi che si ricordano della guerra del 78 e 79; vi diranno come fu trattata la Valdelsa e gli altri luoghi dove furono e’ campi. Questi loro tristi modi sono multiplicati a’ tempi nostri, per quello che si può comprendere, dallo esempio di questi eserciti spagnuoli, che come voi sapete sono stati molto licenziosi e sottili; ma loro hanno avuto qualche giustificazione o per dire meglio qualche scusa, perché el non essere quasi mai pagati gli ha sforzati a vivere di ratto; e l’hanno fatto sí disonestamente che torna loro piú utile stare con la licenzia sanza pagamento, che col pagamento sanza la licenzia. Lo esempio di questi ha insegnato agli altri, e come è natura degli uomini accrescere sempre el male, hanno, ancora che siano pagati, imparato a vivere nel medesimo modo; di sorte che la conclusione è questa, che oggidí gli eserciti in ogni luogo trattano male quanto possono gli amici, né e’ loro capitani che arebbono autoritá di provedervi lo vogliono fare, o perché la natura inclini anche loro piú al male che al bene, o perché nella [p. 276 modifica]licenzia di altri si approfittino ancora loro di qualche cosa, o perché col comportare a’ soldati tutto quello che vogliono, se gli mantenghino piú benivoli ed abbino da loro piú séguito. Né di questi eccettuo alcuno: sono stato col signor Prospero, col marchese di Pescara, con quello di Mantova, con tutti gli altri di questa ultima guerra: tutti a uno modo, tutti a una stampa.

Queste cagione possono tanto piú in uno esercito di una lega come era el nostro, perché se pure uno vuole provedere a’ suoi, non può provedere agli altri, e se una parte fa male, impossibile è tenere che gli altri non faccino peggio: incitansi per lo esempio ed hanno facultá di coprirsi e scusarsi l’uno sotto l’altro, né dove è uno esercito di tanti vescovadi non sono mai tutti e’ capitani del campo d’accordo a raffrenare ognuno e’ suoi. E certo questo è stato ora causa di infiniti mali, perché e’ soldati franzesi, per essere male pagati e per avere uno capitano atto a ogni cosa che a comandare eserciti, e con loro non aveva obedienzia alcuna, hanno rubato estremamente, abruciato case e fatto eccessivi mali, in modo che gli altri con questo esempio e compagnia cominciorono a fare el medesimo; e veramente innanzi che loro venissino in campo, e’ viniziani ed e’ nostri facevano male assai, ma non a comparazione di quello che hanno fatto poi. Queste sono state le cagione universali di tante iniquitá; ce n’è di piú stata qualcuna in particulare.

Le Bande Nere, che feciono mali assai, erano avvezze sotto el signor Giovanni che dava loro molta licenzia, e morto lui augumentorono, perché stettono molti mesi o sanza capi o con capi a loro modo. La cagione fu che nel tempo medesimo che el signor Giovanni morí, con chi erano in Mantovano, e’ lanzchenech passorono Po, e noi trovandoci sprovisti ed abbandonati allora dalle gente de’ collegati, fumo sforzati a mandarle in Piacenza, dove alloggiorono a discrezione e non avendo freno alcuno presono ardire, ed el conte Guido Rangone che vi andò poi, gli intrattenne ed allargò la mano, di modo che sempre peggiororono, né io che allora ero in Parma né [p. 277 modifica]potevo partire, vi potetti provedere. Né e’ pericoli in che noi eravamo (perché e’ lanzchenech erano fermi tra Parma e Piacenza, e gli spagnuoli stavano per uscire a ogni ora di Milano, e giá era fatta la deliberazione di venire alla volta di Firenze) ci lasciavano cassargli ed alterargli; anzi volendo dare loro uno capo, non lo voliono accettare e feciono certa unione insieme, che per essere nelle necessitá ci bisognò avere pazienzia. Non è el piú altiero né el manco ragionevole animale che el soldato quando cognosce el tempo suo.

Successe di poi la passata de’ lanzchenech alla volta di Bologna ed in Romagna, e noi per essere sforzati a guardare molte terre e perché el duca di Urbino aveva deliberato di dare loro la via, tenemo le gente sparse, in modo che sempre queste Bande Nere stettono lontane da me, né fu mai possibile che io vi ponessi alcuno rimedio. Le quali cose considerando io, poi che el papa ebbe fatto el primo accordo col viceré e che lui poi in Firenze trattava di accrescere la somma, confortai quanto potetti che non si guardasse in danari, allegando sempre nelle lettere mie questa ragione, ché piú sarebbe el danno che ci farebbono gli amici che gli inimici. Ecco qua tante lettere che dicono questo medesimo.

Cognoscevo la insolenzia di queste Bande Nere, vedevo la mala ed intollerabile natura del conte di Gaiazzo, uomo sanza ragione, sanza vergogna e sanza religione, sapevo la licenzia che el conte Guido è uso a dare a’ suoi, che lo essere el paese nostro magro e con difficultá di vettovaglie darebbe loro occasione di fare ancora peggio; e tanto piú mi facevano paura queste cose perché, come gl’inimici si dirizzavano verso Toscana, a me bisognava spignere innanzi queste genti sbandate, né potevo venire con loro, perché la necessitá mi sforzava a non mi spiccare uno passo dal marchese di Saluzzo, e per le deliberazione importante che nascevano ogni dí, e perché in questa disputa se Lautrec andrebbe innanzi o no, surgevano ogni dí nuove difficultá del venire loro al soccorso nostro, e perché come voi sapete consisteva allora in questo la nostra salute, che lo esercito della lega passassi ancora lui, e bisognava [p. 278 modifica]lasciare tutte le altre cose per questo; ed el medesimo intervenne quando fumo in Firenze, che per risolvere e sollecitare le cose non potevo allargarmi dal duca di Urbino né da lui. Cosí le Bande Nere sendo sanza capo, e le quali io non avevo mai vedute doppo la morte del signor Giovanni, se non passare una volta per la piazza di Bologna, el conte di Gaiazzo pessimo e rapacissimo, e’ fanti del conte Guido avezzi alla licenzia sua, feciono tanti mali di ogni sorte che non se ne spegnerá sí presto la memoria. E la fortuna volle che io non potetti mai andare a provedervi, che se pure vi fussi potuto andare, arei moderato qualche cosa, non dico provisto al tutto, perché non si può fare peggio che dare compagnie grosse a questi signori grandi.

Aveva el conte di Gaiazzo duemila fanti, el conte Guido tremila; questi ricognoscevano per padroni loro e non me, a’ fanti non potevo comandare, a’ capitani bisognava andare con rispetto perché eravamo nella acqua a gola. Non mancai però di fare tutte le diligenzie possibile: parlai in Bologna con tutti e’ capitani delle Bande Nere, confortandogli pregandogli strignendogli a volere portarsi bene in Toscana; mandai con loro a questo effetto per commissario el vescovo di Casale, servitore antico del papa e persona bene qualificata; quante volte a bocca commessi e per lettere pregai e scongiurai del medesimo el conte di Gaiazzo! Ecco qua le risposte sue dove promette fare tanto bene, che mostrano se io consentivo el sacco; el medesimo dico del conte Guido; e vedendo questo essere vano, non perdonai a querele, non a romori, non a adirarmi; erano infiniti in casa e’ Medici, quando per questo ebbi parole col conte di Gaiazzo, che allo effetto che io desideravo furono vane, ma furono per non essere vane per me, perché, come è publico a tutto lo esercito in terra di Roma, quando vidde el papa perduto, si fermò una mattina in sulla strada per ammazzarmi, e fu tanto el pericolo che ancora quando io me ne ricordo mi viene orrore. Ma Dio, amico della innocenzia, mi aiutò quella volta come ha fatto molte altre. [p. 279 modifica]

In somma io non mancai di fare tutte le diligenzie e le provisione a me possibile perché non seguissino tanti disordini, né arebbe in questo caso saputo o potuto fare alcuno altro piú di me; e so bene io con quanto dispiacere, con quanto affanno ne stetti. Arei volentieri fatto sanza menargli perché vedevo quello avevano a fare; ma oltre alla commissione che io ebbi spesso di condurgli, la necessitá sforzava, non volendo restare a discrezione delli inimici, e’ quali, se non fussi stato questo soccorso, arebbono fatto a Firenze quello che hanno fatto a Roma. Avete inteso el progresso tutto di questa cosa, e potete essere certi che tanti mali sono stati contro a mia volontá e che io non ho potuto provedervi; e se in Romagna e Lombardia mi sono fatto obedire ed ho avuto nome di farmi temere, quanto piú l’arei fatto di qua, dove di quelli che pativano erano molti parenti ed amici miei, gli altri erano tutti cittadini quali avevo a vedere ogni dí e di chi avevo pure a stimare lo amore, non a cercare sanza alcuno mio profitto d’avere a essere in odio di tutti!

Non crediate, giudici, che ogni dí non mi venissino mille querele, mille romori, e che io non sapessi quanto bruttamente si parlassi di me, che tutte mi erano coltellate al cuore e mi passavano l’anima, in modo che se non per amore degli altri e per fare el debito mio, almanco per mio onore vi arei provisto col sangue proprio, avessi io pure potuto, che ero ridotto in termini che la morte mi sarebbe stata grazia; ma non si possono fare le cose impossibile. Però io prego quelli che hanno patito, che o per passione o per errore n’hanno avuto malo animo meco, che considerino la veritá del caso, che si lascino governare alla ragione, che non imputino a me le cose che non erano in potestá mia, né pensino mai di me o tanta malignitá che avessi consentito queste iniquitá, né tanta pazzia che sanza mio profitto avessi voluto farmi vergogna ed acquistare tanti inimici, né tanta dapocaggine che se fussi stato possibile non vi avessi proveduto: perché quello che fussi mancato alla sufficienzia, arebbe compensato el dispiacere, lo sdegno, lo stimulo dello onore. [p. 280 modifica]

Resta parlare dell’altra parte della accusazione, che come ha detto lui, concerne la ambizione, e nella quale poi che non può infamarmi co’ peccati e carichi veri, ha cercato di opprimermi co’ sospetti e col cercare di persuadervi che io sia pericoloso alla libertá. In che io risponderò solo alle cose che a lui è paruto che abbiano piú nervo, lasciando adrieto l’altre che sono di sorte e con sí poco colore, che el parlarne sarebbe uno darvi fastidio invano; perché che importa rispondere alle cose che ha detto della puerizia e di Alcibiade, non solo alienissime dalla veritá, ma dette sanza fondamento, sanza testimoni e sanza spezie alcuna di verisimile? In che non posso fare non mi maravigli della prudenzia sua, avendo in uno giudicio di tanta importanza, presente tanta moltitudine, innanzi a tali giudici, parlato di cose fanciullesche non altrimenti che se fussi stato in una compagnia di fanciulli. La puerizia mia e di costumi e di lettere, per parlare modestamente, fu di qualitá, che se nella giovanezza è poi stata alcuna buona opinione di me, il che lui medesimo ha confessato, non solo non parve disforme agli anni piú teneri, ma ancora avere avuto principio e fondamento da quegli, perché non ebbono corruttela alcuna, non alcuna leggerezza, non perdita di tempo; cose che se bene procederono da mio padre, uomo ottimo e diligentissimo, nondimeno se avessino trovato la natura mia repugnante, arebbono piú tosto ceduto a quella che tiratola seco. Ma lasciamo queste inezie e quelle ancora del tempo innanzi che io andassi in Spagna, dove non ha saputo dire altro se non che per mescolarmi nelle discordie della cittá io tolsi per donna una figliuola di Alamanno Salviati contro alla voluntá di mio padre. E nondimeno quale fu lo effetto? Che io mi astenni da travagliarmi di quelle cose per non fare dispiacere a mio padre.

Guardate, giudici, che cosa è la passione, che cosa è la malignitá degli uomini ed el desiderio di calunniare; quanto gli accieca, quanto toglie loro ogni intelletto e cognizione. Non fanno e’ figliuoli communemente cosa alcuna piú secondo la voluntá e col consiglio del padre che el pigliare donna, [p. 281 modifica]né possono anche fare altrimenti, perché con l’aiuto del padre l’hanno a vestire, a conducere a casa e sustentare; e costui vuole che nel tôrre donna io non abbia avuto rispetto al padre, e poi nello effetto mi sia astenuto da quelle cose per le quali arei fatto questo errore. Ma sono cose tanto frivole che io mi vergogno a parlarne, massime essendo dette da lui in modo e con nessuna spezie di pruova, che essendogli negate non può replicare. Lasciamo adunche queste insulsitá e vegnamo a quelle che sono provate poco come queste, ma che se fussino vere sarebbono di troppa importanza. Tre cose in sustanzia sono quelle che mi ha opposto lo accusatore: l’una, che nella legazione di Spagna io procurai col re el ritorno de’ Medici; l’altra, che io tolsi la piazza ed el Palazzo al popolo el dí di san Marco; la terza, che io sono stato causa di questa guerra. Tutto el resto della accusazione sua è stato in volermi mettere a sospetto ed in persuadere che ancora che io fussi innocente e sanza peccato alcuno, che io avessi a essere gastigato: perché non vuole dire altro che dire che sanza testimoni, sanza pruove, sanza segno4 alcuno, ma solo per una prosunzione generale, per una opinione in aria io sia condannato.

Alle quali cose, giudici, mentre che io rispondo particularmente, vi prego mi udiate con la medesima attenzione e benignitá che avete fatto insino a ora; perché toccherete con mano in me tanta integritá circa le cose della vostra libertá e del vostro stato, che abbiate fatto ne’ vostri danari; né vi maraviglierete manco della impudenzia ed audacia dello avversario, che e’ non si vergogni dire cose sí manifestamente false, e si confidi con sí frivole invenzione, anzi con non altro che con esclamazione e con minacci, opprimere ed oscurare la veritá e la innocenzia, ed aggirare e’ giudici.

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Note

  1. Cosí il testo.
  2. In margine: vide an sit locus perorationis.
  3. Parola di lettera piuttosto incerta.
  4. Il testo ha segni.