Opere minori (Ariosto)/Poesie attribuite/Elegia IV

Elegia IV

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IV.1


     Non è più tempo omai sperar ch’io pieghi
Un’alma altiera, un’indurata spoglia,
3Con lunga servitù, con lunghi preghi:
     Ma ben temp’è sperar che un sdegno scioglia
Il laccio in che mi prese, e, preso, a lei
6Mi diede Amor, con mia perpetua doglia.
     Non è più tempo ch’al bel viso, a’ bei
Sembianti, all’accoglienze belle io vôlti
9Quest’incarcati e crudeli occhi miei:
     Ma ben temp’è mirar che se raccolti
Son i costumi in lei degni di loda,
12Degni di biasmo ancor ve ne son molti.
     Non è più tempo che ’l parlar dolce oda,
Che mai con l’intenzion non si conforma;
15Nè temp’è più che di lusinghe io goda:
     Ma temp’è da dar fede a chi m’informa
Qual sia la falsitade e qual il vero,
18E ch’ire a miglior via m’insegna l’orma.
     Non è più tempo star in quel pensiero
Ch’alto mi leva sì, ch’abbrucia l’ale,
21Ma poi torna cadendo al luogo vero:
     Ma ben temp’è sperar2 quanto sia il male,

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Quanto il bene, e stimar l’utile e ’l danno,
24Rendere alla fatica il premio uguale.
     Non è più tempo a lei mostrar l’affanno
E domandar mercè, chè mie parole
27Senza frutto coi venti in aria vanno:
     Ma ben temp’è narrando3 a chi console,
E mi curi, e m’insegni a liberarmi;
30Però che al mal rimedio esser pur suole.
     Non è più tempo ch’a memoria trarmi
Debba, quando talor parve cortese
33D’un dolce sguardo, e degnava parlarmi:
     Ma ben tempo è mirar l’ore mal spese,
Oltraggi, gelosíe, tanti martirî,
36Suo’ sdegni ingiusti, e mille e mille offese.
     Non è più tempo che per lei sospiri,
E quindi vento alle gonfiate vele
39Alla altezza4 sua da me s’aspiri:
     Ma ben temp’è che il sospirar rivele,
De’ giorni persi mi rincresca, quanto
42Non poterne sperar lungi querele.
     Non è più tempo che mie luci in pianto
Estinguer lasci, benchè fusser quelle
45Che mia nemica al côr laudavan tanto:
     Ma temp’è ritirarle infino ch’elle
Veggian vendetta, che via il tempo porti
48Maggior pietate alle maniere belle.
     Non è più tempo che il desir trasporti
Miei passi, che per lei cerchino i tempî,
51Sale, teatri, vie, campagne ed orti:
     Ma ben tempo è fuggir da’ suoi lumi empî,
Pari in effetto a quei del basilisco,
54Perchè più Amor del suo veleno m’empi.
     Non è più tempo in stil moderno e prisco
Ch’io cerchi che sua fama eterna viva,
57Ch’alla superbia sua materia ordisco:
     Ma ben temp’è ch’io pensi, parli o scriva,
Di dì, di notte, ove io mi fermi o vada,
60Quanta causa a mia morte indi deriva;
     Talchè stia in sella Sdegno, ed Amor cada.


Note

  1. Fu messa in luce da Francesco Trucchi nel tomo III delle Poesie italiane inedite di dugento autori, dall’origine della lingua in fino al secolo decimosettimo (Prato, Guasti, 1846-47). Afferma l’editore di averla tratta dal codice 873 della Libreria Magliabechiana.
  2. Dove il verbo sperare, in questo senso, non è in uso, dicesi invece Guardar contro il lume, o contro la luce. Qui, per similitudine, nel senso di Considerare minutamente.
  3. Fors’è da correggersi: narrarlo.
  4. Forse: All’ (o Dell’) alterezza.