Opere minori (Ariosto)/Frammenti in ottave/Frammento I

Frammento I

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Frammenti in ottave Frammenti in ottave - Frammento II
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FRAMMENTO PRIMO.1




1 La gentil donna,2 che da questa figlia
Del duca Amon non torce gli occhi punto,
Di stupor piena e d’alta meraviglia
Di tal valore a tal beltà congiunto,
E che la vede star con meste ciglia
Più che se ’l padre avesse ivi defunto,
Con lei di molte varie cose parla,
E studia, più che può, di ricrearla.
2 Or le ragiona della sua regina,
Le cui bellezze esalta e mette al cielo:
Or della patria sua, la cui marina
Dal verno è stretta in sino al fondo in gelo,
E più di cento miglia ne declina
Di là dalle fredd’Orse il parallelo;
E quando lascia il sol del Tauro il corno,
V’ha per tre mesi, o più, continuo giorno:
3 Or le dice degli Eruli, che usciro
Di quel paese, ed occuparon quanto
Di terra abbraccia col suo largo giro
Il gran Danubio in l’uno e in l’altro canto;
A cui li Longobardi già ubbidiro,
Cedendo lor dell’arme il pregio e ’l vanto:

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Or dello scudo d’ôr le fa parole,
Che seco porta, e ciò che far ne vuole.
4 Che non per altro effetto che per darlo
Al re di Francia, in Francia era mandata,
Con patto che l’avesse a donar Carlo
Al miglior cavalier di sua brigata:
E poi soggiunse che volea mostrarlo
A lei, che ben tal vista avrebbe grata,
Però ch’era il più ricco e bel lavoro
Che mai con smalto alcun facesse in oro.
5 E che da vecchi e savi cherci avea
Udito dir che la savia Sibilla
Che abitò a Cuma e fu detta Cumea,
Formò lo scudo all’infernal favilla,
Nel tempo che a Silvestro dar volea
Costantino a guardar quella gran villa:
Villa dirò, chè allor villa divenne
La città che del mondo il scettro tenne.
6 Dicea la donna: — Quando ebbe disegno
Costantin di lasciar Italia e Roma,
Ne venne in Grecia, e fe capo del regtno
Quella città che ancor da lui si noma.
Molti lo giudicâr di poco ingegno,
E ch’avesse il cervel sopra la chioma:
Pur, come sempre a gran signori accade,
Gli osavan pochi dir la veritade.
7 E discorrendo alcuni sopra questa
Biasmata volontà, giudicio fêro,
Che saría la mina manifesta
Prima di Roma, e poi dell’alto impero.
Tal gita più d’ogn’altro ebbe molesta
Chi più d’ogn’altro ne previde il vero,
La Sibilla Cumea, la qual ridotta
S’era in que’ tempi alla Nursina grotta.
8 Su gli aspri monti in una selva folta.
Dai luoghi ameni ove abitava prima,
Si trasse, poi che al vero Dio rivolta
S’era la gente quasi in ogni clima,
E che l’oblazïon si vide tolta,
E rimaner inculta e in poca stima;
E fuor d’ogni commercio in quella parte
È di poi stata sempre a far su’ arte.

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9 Quivi la fama, a cui nulla s’asconde,
Penetrando, apportò che Costantino
Il seggio imperïal volea dall’onde
Del Tebro trasferir presso all’Eusino.
Alla Sibilla fûr poco gioconde
Queste novelle, che ’l fiero destino
Antivedea che a Roma dal partire
Del stolto imperator dovea seguire.
10 E perchè avea per le bell’opre antiche
De’ Cesari e de’ Scipi e de’ Marcelli,
Le voglie ancor, com’ebbe sempre, amiche
All’alto imperio che sì accrebber quelli;
Va discorrendo come rompa o intriche
Le fila ordite, e, in somma, far vedelli
Disegna le ruine e i gravi danni
Che avea Italia a patir nei futuri anni.
11 E vie più che dell’altra Italia tutta,
La gran città del mondo allor regina;
Che molte e molte volte a patir brutta
E fiera strage avrà, danno e ruina:
Ch’ora sarà da Vandali distrutta,
Or da Goti, or da gente saracina,
Or dagli Unni, e molt’altri popol empi
De’ quali il nome oscuro era in quei tempi.
12 Il dotto e savio cherco, da cui detta
Mi fu l’istoria (che ben n’era instrutto),
Dicea che la Sibilla, acciò perfetta
Notizia avesse Costantin del tutto,
Fece dodici scudi far in fretta,
In ciascun delli quali avea ridutto
Lo spazio di cent’anni: io voglio dire
Ciò che in cent’anni Italia avea a patire.
13 Fra mille e dugent’anni ciò che debbe
Patir l’Italia, ne’ dodici scudi
Dipinse la Sibilla, a cui ne ’ncrebbe,
E tutta v’adoprò l’arti e gli studi:
E poi che al bel lavor dato fin ebbe,
Rimosse i fuochi e i martelli e le incudi,
Dove sudâr Vulcani e Piragmoni,
Steropi e Bronti, e cento altri demonî.
14 Gli scudi un giorno, senza comparire
Il portator, sospesi in Roma al muro

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Di Lateran, quando alla messa uscire
Volea l’imperador, veduti furo;
Il qual miròlli, e quanto avea a seguire
Della partita sua, non gli fu oscuro;
Che per note minute, oltre il dipinto,
Di tempo in tempo tutto era distinto.
15 Le guerre che in Italia dovean farsi,
Tutte vi si vedean, come già fatte:
Umbri, Piceni, Insubri, Apuli e Marsi,
Morti e captivi, e le città disfatte;
Roma presa più volte, e li templi arsi
E l’alte moli, e non mai più rifatte,
Da genti strane, ch’a que’ tempi, come
Già detto v’ho, non pur si sapéa il nome.
16 Questo intendendo Costantin, fu alquanto
Fra voler ire e rimaner sospeso:
Ma li maligni cherci, che già quanto
Era util lor ch’andasse avean compreso
(Però che quanto egli lasciava, tanto
Da lor sarebbe in pochi giorni preso),3
Creder gli fêr che tutte illusïoni
Erano false, ed opre di demonî;
17 I quali, per turbare il ben, la pace,
La maestà e la gloria dell’impero,
S’aveano immaginato, con mendace
Spavento, di mutarlo di pensiero.
Così l’imperador dalla fallace
Suasïon del tralignato clero,
In Grecia trasferì il seggio romano,
Lasciando i scudi al tempio Laterano.
18 Volgendo gli anni poi successe quello
Che fu pur ver, senza mancarne dramma;
Che Alarico, e poi Totila, flagello
Detto di Dio, diè Roma a sacco e a fiamma:
Gli scudi appresso, e l’altro arnese bello
In preda andâr, nè se ne salvò lamma,4
Fuor che d’un sol, che non fosse disfatta
Indi in moneta, e in altro uso ritratta.

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19 Questo che in esser suo primo rimase,
Forse il più bello, il crudel re de’ Goti
Mandò da Roma alle paterne case,
Ai liti del mar Battro sì remoti;
Col quale i gran successi persüase,
Che ancor per fama ben non eran noti,
Che la superba Italia aveva doma,
E presa ed arsa e saccheggiata Roma.
20 Galeotto lo Brun, ch’era a’ dì suoi
Il maggior cavalier che al mondo fusse;
Che l’isole lontane e gli Stenoi,5
Col nostro regno, al scettro suo ridusse;
Si fe signor di questo scudo, poi
Che un re de’ Goti di sua man percusse,
Percosse e mise a morte; indi portòllo
Seco in Islanda, ove al morir lasciòllo.
21 Nel scudo prima Radagasso ardito
Aver distrutta Italia si vedea;
Poi Stilicone incontra essergli uscito,
Che condotto a mal termine l’avea.
Venía di Gallia un altro che tradito
Dal capitan d’Onorio si dolea,
Che piglia e mette a sacco Italia e Roma;
E scritto v’è, che Alarico si noma.
22 Èvvi Ataulfo, che levar desia
Roma dal mondo e far nuova cittade,
Che nome dalli Goti abbia Gotia;
E che nè più cesarea maestade,
Nè nome imperïal nè Augusto sia,
Ma sia Ataulfo alla futura etade.
Ezio patrizio v’è, che par che chiami
Gli Unni, e l’Italia in preda lor dar brami.
23 Vengono gli Unni, e loro Attila è innante;
La gente afflitta alle paludi fugge:6
Esso Aquiléa, con l’altre terre, quante
Ne son fra l’Alpi e ’l Po, tutte distrugge:
Per arder Roma ancor môve le piante,

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Ma in riva al Mincio un santo Leon rugge;
Ed esso vede armato Paolo e Pietro,
Che lo minaccian se non torna indietro.
24 Partonsi gli Unni; ed ecco Genserico,
Che passa il mar co’ Vandali, ed assale,
Di Dio, de’ Santi e d’uomini nemico,
Roma infelice, e le fa tutto il male.
Viene Odoacro e poi vien Teodorico:
Italia il giogo ricusar non vale,
Che al collo l’han non pur gli uomini messo.
Ma per più scorno ancora il debil sesso.7
25 Giustinïano, vien, che par che mande
Belisario in Italia, e nel passaggio,
Che pigli la Sicilia gli comande.
Èvvi come eseguisse: e di vantaggio
Napoli prende, e lo saccheggia, e grande
Uccisïone appar per quel viaggio:
Èvvi com’entra in Roma, e sì l’offende,
Che i bei palazzi e ricchi templi incende.
26 Esce fuor Belisario; i Goti dànno
Le spalle, ed a Ravenna poi fan testa.
Belisario la prende; i Goti vanno
A fil di spada, e ’l re captivo resta.
Totila poi successe al real scanno:
Arde e distrugge, e sì l’Italia infesta,
Che flagello di Dio vien detto, come
Attila prima; e ben conviengli il nome.
27 Benevento arde, e Napoli saccheggia;
Fra un mare e l’altro ogni città si rende:
Si volta a Roma, e d’ogn’intorno asseggia,8
E con la fame in tal modo l’offende,
Che ’l popol, che non sa come proveggia,
L’un l’altro mangia; all’ultimo la prende,
E presa mette, senza guardar loco
Sacro o profano, a sacco, a ferro, a fôco.
28 Giustinïan manda di nuovo il greco
Esercito, e ne fa Narsete guida;
Che par che, tolti i Longobardi seco,

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Duo re de’ Goti un dopo l’altro uccida:
Ma poi di sangue e d’ira fatto cieco,
Chiama Alboino, e di Pannonia il snida;
E quel, crudele e ingordo alla rapina,
Veneti e Insubri spoglia, arde e ruina.
29 Arde Pavia, Milan getta per terra;
Par ch’egli uccìso poi sia dalla moglie:9
Onde all’Italia ognun corre a far guerra,
E ne riporta ognun trionfi e spoglie.
Si vede poi dall’Alpe che la serra,
Che molta gente al pian qui si raccoglie,
A’ prieghi mossa di Maurizio Augusto,
Che vuol cacciarne il Longobardo ingiusto.
30 Ma le cose succedono diverse
Dal suo sperar, chè innanzi al Longobardo
Le genti franche van rotte e disperse,
Per fortuna e valor d’Eutar gagliardo;
Del qual si veggon poi l’arme converse
Verso Orïente, e corso il suo stendardo
Da’ piè de’ monti al mamertino lido,10
E par che s’oda, ovunque vada, il grido.
31 Due volte da costui par Roma oppressa;
Poi da Ghisulfo, quando Augusto irato
Par che ’l faccia venire a’ danni d’essa,
Di che n’arde Toscana in ogni lato.
Ecco, con gente più che l’api spessa,
Che ’l re bavaro è nel Friuli entrato,
Poi che Romilda, in mezzo ’l cor ferita
Dall’empio amor, la patria gli ha tradita.
32 E quel crudel la strugge sì, che a pena
Di quel ch’esser solea vestigio resta;
E i Longobardi in tanto strazio mena,
Che poco più non ne restava testa.
Di sangue e fôco è tutta Italia piena,
Ch’or gente greca, or barbara l’infesta:
Morto si vede Teodoro al piano,
Con otto mila del nome romano.
33 Altrove par che Grimoaldo, uscito
Di Benevento, i ricchi Insubri assaglia;

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Che ’l seme d’Ariperto sia fuggito;
Che a Clodovéo di Francia sì ne caglia,
Che con lui manda esercito infinito;
Che perda poi con scorno la battaglia,
Chè al vino e a’ cibi la gente francesca
Presa riman, come la lasca all’esca.
34 Costanzo passa il mar, e ’n Puglia smonta,
Arde Luceria e la contrada strugge:
Vien Romoaldo a vendicar quest’onta;
Non l’aspetta Costanzo, e a Roma fugge:
Resta Saburro, e ’l Longobardo affronta;
Ma tosto se ne pente, e in van ne lugge,11
Chè di ventidue mila ch’eran seco,
Seicento non tomaro al lito greco.
35 Onde Costanzo, che si disconforta
Del dominio d’Italia, i luoghi sacri
Spoglia d’oro, d’argento, e se ne porta
Degli antichi Romani i simulacri.
Non pur ferita da costui, ma morta
Roma ne resta; nè sì acerbi ed acri
In trecent’anni i Barbari le fûro,
Come in un mese il Greco empio e perjuro.
36 Per ornar la città di Costantino,
Porta gli onori e i trionfali segni
Che per memoria il popol di Quirino
Lasciato avea de’ superati regni:
Ma vento avverso gl’impedì il cammino
E fe in Sicilia scaricare i legni,
E di là poi, con molti altri tesori,
Se li portaro in Alessandria i Mori.
37 Si vede Lupo di Friúl, che aspira
Al dominio d’Italia, e tutta prende
La Toscana e l’Emilia, e dove gira
L’Adige e ’l Menzo,12 e là dov’Adda scende;
Onde ’l figliuol di Grimoaldo tira
Il Bavaro in Friúl, che poi l’incende,
E Lupo uccide, e da quella tempesta

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Spianato il Fôro di Pompilio resta.
38 Si vede quando Romoaldo, e quando
Di Lupo e quando d’Ariperto il figlio,
Or Sisulfo, or Teodoro, or Liutprando,
Aistulfo, Desiderio e Rachisiglio,
Quando cacciati, quando altri cacciando,
L’afflitta Italia pôr tutta in scompiglio;
E da quest’arme il Pastor santo oppresso,
A Francia per favor ricorrer spesso.
39 Però si vede poi Carlo Martello,
Carlomano, Pipino e ’l maggior Carlo,
Quando reprimer questo, e quando a quello
Levar le forze, e all’ultimo cacciarlo;
E tutta via arrecar nuovo flagello
Al Bel Paese, e spesso in preda darlo;
Nè l’infelice, per mutar signore,
Fa sua condizïon però migliore.13
40 Dall’Alpi scende Lodovico, irato
Contr’al nipote che la regge e frena;
E poi che gli ha l’esercito spezzato,
Fra molte uccisïon preso lo mena:
Nel cui loco Lotario incoronato,
Di tanta gente ha la contrada piena,
Che vien di Francia, ch’a pena vi cape;
Per tutto uccide, arde, ruina e rape.
41 Poi prende il padre, benchè preso molto
Non lo ritenga: pur dà occasione
Che ’l saracino stuol d’Africa sciolto
Entra in Sicilia, e tutta a sacco pone
Civitavecchia; indi, all’Italia vôlto,
Getta per terra uccise le persone;
Assedia Roma, i borghi arde e ruina
Per tutta l’Appia e per la via Latina.
42 E di Pietro e di Paolo arde le chiese,
Il monte Cassinate e San Germano;
Indi per Ostia assalta il Calavrese;
Passa a Tarento, e lo fa eguale al piano.
Lotario il figlio a rinnovar l’offese
A tutta Italia manda capitano:
Tornano i Mori, e va il Piceno a sacco,

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Ed arsa è la città di San Ciriacco.14
43 Voglion due Carli d’Alemagna un Carlo
Cacciar d’Italia, e della vita insieme;
E lo fanno col tôsco, perchè farlo
Non pôn col ferro, in ch’esso lor più preme.
Dio manda Berengario a vendicarlo,
Che tôl l’imperio al tralignato seme
Di Carlo Magno; benchè sia punito
Il successor, non quel c’ha più fallito.
44 Di Carlo Magno è nel figliuol d’Arnulfo
Il bel lignaggio e ’l grande imperio estinto.
Vien Patrizio di Grecia, e da Landulfo
Di Benevento è superato e vinto.
Cacciato è Berengario da Rodulfo;
Poi quel da un altro è fuor d’Italia spinto:
Qui del sangue tedesco, italo e franco,
Si vede rosso ov’era verde e bianco.
45 Quei popoli pareano aspirar tutti
All’alto imperio; e mentre fan contesa,
I Mori, che già in Puglia eran ridutti,
Tutta Campagna aver rubata e accesa.
Par che Alberico alfin gli abbia distrutti;
Il qual si sdegni poi sì con la Chiesa,
Che faccia venir gli Ungheri crudeli,
Peggiori assai di tutti gl’infedeli.
46 E sì bene imparâr la via, che spesso,
Lor sempre dando il passo Berengaro,
Ch’al padre Berengario era successo,
A tormentare Italia ritornaro.
Alberico pigliâr per questo eccesso
Poscia i Romani, e ’l capo gli tagliaro.
Vien il re di Bergogna, e Italia strugge,
E Berengario agli Ungheri sen’ fugge.
47 E poi tornando con l’ajuto d’essi,
Pavia saccheggia e mette a ferro e foco.
Viene in soccorso agl’Italiani oppressi
Il duca d’Arli, e ’l Borgognon dà loco.
Ecco i banditi, per esser rimessi,
Lasciano in pace la sua Italia poco;
Chè v’hanno il duca bavaro condotto,

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Che da quel d’Arli al primo affronto è rotto.
48 Il terzo Berengario15 entra in l’antico
Imperio, e noma re d’Italia il figlio:
Con suoi Bavari in Austria fugge Enrico,
Che a mezza Italia avea dato di piglio.
Ardon Genova i Mori, e ’l lito aprico
Di cristian sangue per tutto vermiglio
Si vede; e altrove strage e uccisïone,
Tra ’l figliuol d’Ugo d’Arli e ’l primo Ottone.
49 Tante volte ritorna Otton, che spigne16
Il duca d’Arli, e Berengario caccia:
Nè la spada dal fianco si discigne,
Prima ch’a Roma imperador si faccia.
Quel ch’era re d’Italia, così strigne
Lo stato suo, che sol Ravenna abbraccia;
E mentre quindi i Viniziani infesta,
Fa che Comacchio arso e distrutto resta.
50 Il popolo roman spesso si vede
Levar contra i pontefici tumulto:
Altri di vita, altri cacciar di sede;
Far a questo uno, a quello un altro insulto.
La Chiesa ajuto ora alla Francia chiede,
Ora all’Italia, ora al Tedesco inculto;
E sempre Roma e le città vicine
Patir morti, arsïon, sacchi e rapine.
51 Spesso si vedon Greci, e spesso Mori,
E Greci alcuna volta e Mori uniti,
Far tra lor, come a gara, quai peggiori
Vengano d’essi alli satunii liti:
Poi Schiavoni, e nôvi Ungheri, e poi fuori
Altri Tedeschi con Ottone usciti,
Cacciano da Calabria e da’ confini
Di tutta Italia i Greci e i Saracini.
52 Otton secondo la seconda volta
Par che ritorni, e Benevento spiani;
Si vendichi de’ Greci, che con molta

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Strage cacciâr d’Italia i suoi Germani.
Si vede Ferrabraccia, che si volta
Contra Malocco, e par seco alle mani,
E con sessanta mila suoi Normandi
I Greci appresso a Melfi in rotta mandi.
53 Si vede presa Capua, e Bari cinto
Dall’assedio de’ Mori; e poco lunge
L’alato Leon d’ôr vedi dipinto,
Che per salvarli aguzza i denti e l’unge.17
Enrico v’è, ch’essendo Ottone estinto,
Piglia l’imperio; e v’è18 ch’a Capua giunge;
Ne caccia i Mori; e Sbarigano19 leva
Da Troja sua, ch’edificato aveva.
54 Si vede in Lombardia Corrado sceso,
Che saccheggia il paese e tutto incende:
Si vede altrove, da Sisulfo offeso,
Armarsi il papa, e far drizzar le tende,
E perder la sua gente, e restar preso.
V’è che Sisulfo il lascia, e che gli rende
Le torri tolte, e, fatto lega seco,
Caccia d’Italia ogni presidio greco.
55 Tornano i Greci e tornano i Mori anco,
Geme Calabria, e Puglia piange e stride.
Con esercito vien normando e franco
Il buon Guiscardo, e questo e quello uccide;
Tutt’occupa e fa suo, fin dove il fianco
Dell’Appennino il crudel mar divide;
Caccia il nipote, e purga questa offesa,
Domando ogni crudel20 poi della Chiesa.
56 Contra Alessandro vien Cadoli, e pone
Nel clero scisma e ’n tutta Italia guerra.
Nei campi si combatte di Nerone;
Molti di qua e di là cadono in terra:
La città si saccheggia di Leone;21
Or l’uno or l’altro nel Castel si serra:

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Quando l’un, quando l’altro fugge e torna,
Ed alza e china or questo or quel le corna,
57 Enrico terzo, che in favore aspira
Al falso papa, vince Azzo da Este;
Saccheggia Roma: il ver pastor si tira
Nel suo Castel con le mitrate teste.
Vien Roberto Guiscardo, acceso d’ira,
Contra le parti alla sua parte infeste;
Ed entra in Roma, e l’arde e la saccheggia,
Ed i Romani in Campidoglio asseggia.
58 La rôcca espugna e sì l’adegua al piano,
Ch’altro non vi riman che ’l nudo sasso;
E d’ogn’intorno fino al Laterano
Palazzi e chiese van tutti a fracasso.
Dar si vede Ruggier contr’al Germano
A venti mila Saracini il passo,
E per la Puglia il generoso seme
Del buon Roberto aver gran guerra insieme.
59 Si vede Enrico quarto in umil atto
Baciar al santo padre i piè beati,
E quindi allora allora averlo trâtto
Prigion coi vesco22 e coi maggior prelati;
Nè prima che non abbian tanto fatto,
Quanto esso lor dicea, mai gli ha lasciati:
Poi cinger fassi, lor mal grado, in Roma,
Della corona imperïal la chioma.
60 Con nova gente ritornar si vede
Ed aver Roma un’altra volta presa;
Cacciato il vero Papa della sede,
Porvi il falso, e far scisma nella Chiesa.
V’è come, poi che vien Guglielmo, cede,
Lasciando la città spogliata e accesa.
Par che Ruggier Puglia e Calabria prenda,
Nè Guglielmo vi sia che la difenda.
61 Dal figliuol di costui menar prigione
Si vede il padre santo e i cardinali,
Che poi lo lascia, e fa che gli perdone
Non questo pur, ma tutti gli altri mali.
Viene il falso Anacleto, e a sacco pone
Le sante chiese e tutti gli ospitali;

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E di Sicilia quinci e quindi dona
Lo scettro a Ruggier terzo e la corona.
62 Vien d’Alemagna il re Lotario, e rende,
Cacciato ’l falso, al ver pastore il seggio:
Il titol dell’imperio a Roma prende
Spíntone quei che avean difeso il peggio.
Il figliuol di Ruggier, Guglielmo, scende
Da Palermo e Messina, e piglia Reggio,
Calabria, Puglia, Capua, nè s’astiene
Da quello ancor che al papa s’appartiene.
63 Con l’aiuto de’ Greci il santo padre
Ciò che perduto avea, tutto racquista.
Move Guglielmo le sicane squadre,
Caccia le greche, e fa la Puglia trista.
Vien Federico, che alla santa madre
Chiesa ed al clero par nemico in vista;
Chè ’l dì che la corona in Roma tolle,
L’empie di sangue ed arde il santo colle.
64 Move con l’arme e con lo scisma guerra
Al pontefice sommo, e spoglia Ancona;
Distrugge Asti, e Milan getta per terra;
Torna due volte a saccheggiar Tortona;
Susa ruina, indi Alessandria serra
Di lungo assedio, e fa tremar Cremona.
Enrico, il figlio di costui, poi vedi
Mosso da Celestin contra Tancredi.
65 Vedi Costanza che la sacra benda
Par che col regno di Sicilia mute;
E che ’l flgliuol pupillo si difenda
Centra Otton quinto, e ’l gran Pastor l’ajute.
Vi puoi veder ancor, che premio renda
Poi Federico a chi fu sua salute;
E ch’oltra il regno dell’avol Ruggiero,
Gli dia la corona anco dell’impero.
66 Manda da un lato ad occupar Foligno,
Dall’altro a saccheggiar tutto il Piceno:
Dà in pegno il Marso, l’Ernico e ’l Peligno
A’ Mori suoi, de’ quali ha il campo pieno:
Dalla città che pria Cesar maligno
Sentì alla patria, usurpa fino al Reno;23

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Nè Castel lascia, nè in Italia loco
Dove sedizïon non metta e foco.
67 Vedi in Toscana, vedi in ogni terra
La discordia civil per tutto accesa.
Move improvviso a’ Milanesi guerra;
Gli uccide e spoglia, che non han difesa:
Si vede, instando lui, che Salinguerra
Ferrara ha ribellata dalla Chiesa;
Dove l’assedia, e dove il caccia fuore
Azzo da Este, che n’è poi signore.
68 Spoglia Monte Cassino, e dà di piglio,
E mette taglia a’ monachi e agli abati:
I cardinali, ch’ivano a consiglio,
Piglia, e i vescovi e gli altri gran prelati:
Assedia Roma, e a poco più d’un miglio
Lontano a’ Parmigian, che avea assediati,
Fonda Vittoria; ove improvviso è côlto
Da quel da Este, e rotto e in fuga vôlto.
69 Con Benevento v’è Sora distrutta,
Le sacristie e le chiese a sacco vanno:
Par, col favor di lui, che presa tutta
La Traspadana abbia Ezzelin tiranno,
Che fa di sangue uman la terra brutta
Dovunque passa, e quei di Padoa il sanno!
Poi v’è chi uccide l’uno, Azzo gagliardo;
Dà morte all’altro il suo figliuol bastardo.
70 Manfredi uccide il padre, e uccide insieme
Il suo fratel Corrado, ambi di tôsco;24
Spoglia Napoli e Aquino; affligge e preme
Con gente saracina il Bruzio e l’Osco:
Spesso la Chiesa per lui piange e geme;
L’Arbia è rossa per lui di sangue tosco;
Per lui sembra che a ferro e a foco vada
D’Insubri e di Piceni ogni contrada.
71 Par che i Franceschi accorrano in aita
A’ Guelfi afflitti ed al pastore Urbano,
E che la parte di Gibel smarrita
In riva a Mella empia di sangue il piano;
E lasci al vincitor la via spedita
D’andar ove di là dal Garigliano

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Cacci li Saracini, ai quai Lucera
Ad abitar co’ liti lor25 dat’era.
72 Per vendicar poi tanti e sì gran falli,
Priva il pastor Manfredi, e fa che viene
Carlo di Francia, e la corona dàlli
Di quanto alla Sicilia s’appartiene.
Poi d’uomini, di navi e di cavalli
Tu vedi i mari e le contrade piene;
Vedi la pugna, e i Gibellini vedi
Rotti e dispersi, e preso il re Manfredi.
73 Là Guelfi ripigliar vedi il domino,
Che a Monte Aperto avean prima perduto.
Vien di Corrado il figlio Corradino,
Là dove è vinto dal consiglio astuto
Del vecchio Alardo,26 e ’l campo gibellino
E l’aleman ch’era con lui venuto;
E resta il giovinetto a Tagliacozzo
Prigion di Carlo, e poi col capo mozzo.
74 Si vede altrove che Bologna ha guerra
Col Vinizian, che usurpa27 i mari e i porti:
Si vede altrove che d’intorno serra
I Forlivesi, e fa lor mille torti;
E che quel popol salta dalla terra,
Ed otto mila Bolognesi ha morti:
Altrove par che quel medesmo uccida
Ottocento guerrier, ch’un Guido guida.
75 Ancora rompe al Vinizian la fronte,
Che ’l campo intorno gli è venuto a porre:
Si vede altrove che Luchin Visconte
Cacciato ha da Milan quel dalla Torre;
E di Lucca e Fiorenza il piano e ’l monte
Con ferro e fôco e con rapina scorre:
Altrove par ch’abbia Perugia fatto
Spianar le mura intorno al Folignatto.
76 Pier d’Aragona, intanto, ha i legni sciolti,

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E che in Africa ir vuol, sparge le grida;
E va aspettando che Sicilia vôlti
L’arme contr’a’ Franceschi, e che gli uccida.
Di qua si veggon poi tutti esser côlti,
E par ch’al ciel tu senta andar le strida;
E qua e là per la città divisi
Li vegga a un suon di vespro tutti uccisi.
77 E mentre Carlo vendicar vuol l’onta,
E per Provenza uomini e navi accozza,
Con gl’inimici il figlio in mar s’affronta,
E ne va vinto e preso a Saragozza.
L’armata vedi poi di Genoa pronta,
Che del sangue pisan fa l’acqua sozza.
Par che intanto il pontefice smantelli
Forlì, perchè mai più non si ribelli.
78 La pugna seguía poi di Campo Aldino,
A’ Guelfi nel principio acra ed acerba,
Che Guido Feltri e ’l vescovo aretino
Co’ capi lor vi fan vermiglia l’erba;
Poi, vôlta contra il campo gibellino,
Fortuna se gli mostra sì superba,
Che da tre mila della vita privi,
Ed altrettanti fa restar captivi.
79 Si vede Diego d’Aragon, che batte
Con macchine Gaeta, e con ogni arte.
Si vede il re Roberto che combatte
Di là dal Faro, e n’ha vinto una parte;
Ma poi che le sue genti ode disfatte
E che il fratello è preso, se ne parte.
Fa Bonifacio a’ Colonnesi guerra,
Gitta Preneste e i nidi loro in terra.28
80 Vien Federico terzo, e la Siciglia
Tutta racquista, e la Calabria appresso.
Fiorenza un’altra volta si scompiglia;
Il popol Guelfo in Bianchi e Neri è fesso.
Si vede Sciarra, che di sua famiglia,
Di sè e d’ogni altro Gibellino oppresso,
Si vendica in Anagna, e che l’antiquo
Debito sconta a Bonifazio iniquo.
81 Poi si veggono i Bianchi, che in Fiorenza

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Entran di notte, e prima ch’esca il giorno
Spinti da’ Neri se ne vanno, senza
Mai volger fronte, non che far ritorno:
Indi in Pistoja fan tal resistenza,
Che chi cacciati gli ha fugge con scorno;
E ’l duca di Calabria, che condotto
Aveano i Neri, è vôlto in fuga e rotto.
82 Si vede l’avarizia e la viltade
Di Rodolfo tedesco, che a contanti
Vende a’ Lucchesi la lor libertade,
A’ Fiorentini e agli altri circostanti:
E poco dopo, poi ch’Alberto cade
Per man del suo nipote, vedi alquanti
Vendicarsi le terre che già fôro
Da Cesar date alla custodia loro.
83 Mantoa per suo signor Passerin prende;
La terra d’Antenor prende il Carrara;
Quel dalla Scala la città che fende
L’acqua che per Fosson29 poi si fa amara:
Modena al marchese Obizo s’arrende,
Che con la vita poi perde Ferrara
Per man del suo figliuol, che in sua difesa
Move il Leon del mar contra la Chiesa.
84 Manda Clemente il Pelangura in fretta.
Par che Flisco crudel espugni intanto
Castel Tedaldo, e che la patria metta
A ferro e foco tutta da quel canto;
Di che poi fanno i cittadin vendetta:
Ma tosto lor fa rinnovare il pianto
Un Catalan, che taglia quante teste
Trova in favor de’ principi da Este.




Note

  1. Queste stanze, le quali formano un compendio della storia d’Italia dalla traslazione della sede imperiale a Costantinopoli sino all’impero di Alberto Tedesco, vennero abbozzate dal poeta nel c. XXXIII del Furioso; ma poi, o come soverchiamente lunghe o per altra cagione, furono da lui lasciate imperfette e rifiutate. — (Barotti e Molini.)
  2. Ulania, messaggiera del re d’Islanda. Vedi Furioso, c. XXXII.
  3. Notabile opinione come uno dei criteri sulla storia d’Italia vigenti fin dai tempi dell’Ariosto.
  4. Per licenza poetica, in vece di Lama, nel senso di Piastra metallica.
  5. Strana confusione come ognun vede, del romanzo coll’istoria: ond’è difficile indovinare di quali popoli abbia l’autore voluto intendere nominando gli Stenoi.
  6. Accenna la fondazione di Venezia. — (Molini.)
  7. Sembra allusione alla imperatrice Teodora.
  8. Per la rima, invece di Assedia; come i più antichi avevano, in prosa, usato Asseggio. Vedi anche la st. 57.
  9. Rosmunda.
  10. A Messina.
  11. Latinismo non imitabile, benchè usato in prosa, come i Veronesi notarono, da Fra’ Guittone.
  12. Secondo la pronuncia antica e lombarda, invece di Mincio. Mencio scrive Leandro Alberti nella Descrizione dell’Italia: Menzo, gli editori nell’indice di quest’opera.
  13. Versi degni di memoria.
  14. Ancona. Ciriacco, per la rima, invece di Ciríaco; che però il volgo anconetano pronunzia Ciriáco.
  15. In questo errore cadde lo stesso Machiavelli (Stor. fior., lib. I), giacchè due soli furono i Berengari che portarono il titolo di re d’Italia. Molti sono oggi i libri che ajutar possono il lettore a correggere le frequenti inesattezze e gli abbagli che s’incontrano in questo breviario istorico; e in ispecie il notissimo Sommario della storia d’Italia di C. Balbo.
  16. Il Barotti: «pigne.»
  17. Per unghie, o ugne. Licenza, per ciò che a noi pare, senz’altro esempio.
  18. V’è scolpito o rappresentato; come più volte tra le st. 22 e 25, e ancora più innanzi.
  19. Il Barotti legge: «Bubagano.»
  20. Così tutte le stampe; e sembra che voglia dire: domando ognuno che erasi mostrato crudele verso la Chiesa.
  21. La città leonina; parte della città di Roma (rione di Borgo) assai nota.
  22. Pronunzia volgare è Vesco, in vece di Vescovo: piacque all’Ariosto adoperarla al plurale, quasi nome indeclinabile.
  23. Da Rimini sino a Bologna, cioè tutta la Romagna.
  24. Calunnie, com’oggi credesi dai più, della nemica fazione.
  25. Cioè colle terre da essi ancora possedute in Sicilia.
  26. Reminecenza dantesca (Inf., XXVIII.): «Ove senz’arme vinse il vecchio Alardo;» come nel sesto della st. 70 avea mostrato di ricordarsi l’altro verso: «Che fece l’Arbia colorata in rosso.»
  27. Così l’edizione del Pitteri, ch’è pur fatta in Venezia nel 1783. Fu certo una prudente correzione, non sappiamo da chi fatta nè quando, la seguita dal Molini: «che prende.»
  28. Dante (Inf., XXVII): «Sì come Penestrino in terra getti.»
  29. Nome dato alla foce principale dell’Adige, per cui quel fiume sbocca nell’Adriatico.