Olimpiade/Atto secondo

Atto secondo

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Atto primo Atto terzo

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ATTO SECONDO

SCENA I

Aristea ed Argene.

Argene. Ed ancor della pugna

l’esito non si sa?
Aristea.   No, bella Argene.
È pur dura la legge, onde n’è tolto
d’esserne spettatrici!
Argene.   Ah! che sarebbe
forse pena maggior veder chi s’ama
in cimento sí grande, e non potergli
porger soccorso, esser presente...
Aristea.   Io sono
presente, ancor lontana; anzi mi fingo
forse quel che non è. Se tu vedessi
come sta questo cor! Qui dentro, amica,
qui dentro si combatte, e, piú che altrove,
qui la pugna è crudele. Ho innanzi agli occhi
Megacle, la palestra,
i giudici, i rivali. Io mi figuro
questi piú forti e quei men giusti. Io provo
doppiamente nell’alma
ciò che or soffre il mio ben, gli urti, le scosse,
gl’insulti, le minacce. Ah! che presente
solo il ver temerei; ma il mio pensiero
fa ch’io tema, lontana, il falso e il vero.

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Argene. Né ancor si vede alcun. (guardando per la scena)

Aristea. (turbata) Né alcuno... Oh Dio!
Argene. Che avvenne?
Aristea.   Oh, come io tremo!
come palpito adesso!
Argene.   E la cagione?
Aristea. È deciso il mio fato:
vedi Alcandro che arriva.
Argene. (verso la scena) Alcandro, ah! corri,
consolane; che rechi?

SCENA II

Alcandro e dette.

Alcandro. Fortunate novelle. Il re m’invia

nunzio felice, o principessa. Ed io...
Aristea. La pugna terminò?
Alcandro.   Sí: ascolta. Intorno,
giá impazienti...
Argene. (ad Meandro) Il vincitor si chiede.
Alcandro. Tutto dirò. Giá impazienti intorno
le turbe spettatrici...
Aristea. (con impazienza) Eh! ch’io non cerco
questo da te.
Alcandro.   Ma in ordine distinto...
Aristea. Chi vinse dimmi sol. (con isdegno)
Alcandro.   Licida ha vinto.
Aristea. Licida!
Alcandro.   Appunto.
Argene.   Il principe di Creta?
Alcandro. Sí, che giunse poc’anzi a queste arene.
Aristea. (Sventurata Aristea!)
Argene.   (Povera Argene!)

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Alcandro. Oh te felice! Oh quale

sposo ti die’ la sorte! (ad Aristea)
Aristea.   Alcandro, parti.
Alcandro. T’attende il re.
Aristea.   Parti: verrò.
Alcandro.   T’attende
nel gran tempio adunata...
Aristea. Né parti ancor? (con isdegno)
Alcandro.   (Che ricompensa ingrata!) (parte)

SCENA III

Aristea ed Argene.

Argene. Ah! dimmi, o principessa,

v’è sotto il ciel chi possa dirsi, oh Dio!
piú misera di me?
Aristea.   Sí, vi son io.
Argene. Ah! non ti faccia Amore
provar mai le mie pene. Ah! tu non sai
qual perdita è la mia! quanto mi costa
quel cor che tu m’involi!
Aristea.   E tu non senti,
non comprendi abbastanza i miei tormenti.
          Grandi, è ver, son le tue pene:
     perdi, è ver, l’amato bene;
     ma sei tua, ma piangi intanto,
     ma domandi almen pietá.
          Io dal fato, io sono oppressa:
     perdo altrui, perdo me stessa,
     né conservo almen del pianto
     l’infelice libertá. (parte)

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SCENA IV

Argene e poi Aminta.

Argene. E trovar non poss’io

né pietá né soccorso?
Aminta. (a parte nell’uscire) (Eterni dèi!
parmi Argene colei.)
Argene.   Vendetta almeno,
vendetta si procuri. (vuol partire)
Aminta.   Argene, e come
tu in Elide! tu sola!
tu in sí ruvide spoglie!
Argene.   I neri inganni
a secondar del prence
dunque ancor tu venisti? A saggio invero
regolator commise il re di Creta
di Licida la cura. Ecco i bei frutti
di tue dottrine. Hai gran ragione, Aminta,
d’andarne altier. Chi vuol sapere appieno
se fu attento il cultor, guardi il terreno.
Aminta. (Tutto giá sa.) Non da’ consigli miei...
Argene. Basta... Chi sa? nel cielo
v’è giustizia per tutti, e si ritrova
talvolta anche nel mondo. Io chiederolla
agli uomini, agli dèi. S’ei non ha fede,
ritegni io non avrò. Vuo’ che Clistene,
vuo’ che la Grecia, il mondo
sappia ch’è un traditore, acciò per tutto
questa infamia lo siegua; acciò che ognuno
l’abborrisca, l’eviti,
e con orrore, a chi nol sa, l’addíti.
Aminta. Non son questi pensieri
degni d’Argene. Un consigliero infido,

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anche giusto, è lo sdegno. Io, nel tuo caso,

piú dolci mezzi adoprerei. Procura
ch’ei ti rivegga; a lui favella; a lui
le promesse rammenta. È sempre meglio
il racquistarlo amante
che opprimerlo nemico.
Argene.   E credi, Aminta,
ch’ei tornerebbe a me?
Aminta.   Lo spero. Alfine
fosti l’idolo suo. Per te languiva,
delirava per te. Non ti sovviene
che cento volte e cento...
Argene. Tutto, per pena mia, tutto rammento.
          Che non mi disse un dí!
     quai numi non giurò!
     E come, oh Dio! si può,
     come si può cosí
     mancar di fede?
          Tutto per lui perdei;
     oggi lui perdo ancor.
     Poveri affetti miei!
     Questa mi rendi, Amor,
     questa mercede? (parte)

SCENA V

Aminta solo.

Insana gioventú! Qualora esposta

ti veggo tanto agl’impeti d’amore,
di mia vecchiezza io mi consolo e rido.
Dolce è il mirar dal lido
chi sta per naufragar. Non che ne alletti
il danno altrui, ma sol perché l’aspetto
d’un mal che non si soffre è dolce oggetto.

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Ma che! l’etá canuta

non ha le sue tempeste? Ah! che purtroppo
ha le sue proprie, e dal timor dell’altre
sciolta non è. Son le follie diverse,
ma folle è ognuno; e a suo piacer ne aggira
l’odio o l’amor, la cupidigia o l’ira.
          Siam navi all’onde algenti
     lasciate in abbandono:
     impetuosi venti
     i nostri affetti sono:
     ogni diletto è scoglio:
     tutta la vita è mar.
          Ben, qual nocchiero, in noi
     veglia ragion; ma poi
     pur dall’ondoso orgoglio
     si lascia trasportar. (parte)

SCENA VI

Clistene, preceduto da Licida, Alcandro,
Megacle coronato d’ulivo, coro d’atleti, guardie e popolo.

Tutto il coro.   Del forte Licida

     nome maggiore
     d’Alfeo sul margine
     mai non sonò.
Parte del coro.   Sudor piú nobile
     del suo sudore
     l’arena olimpica
     mai non bagnò.
Altra parte.   L’arti ha di Pallade,
     l’ali ha d’Amore:
     d’Apollo e d’Ercole
     l’ardir mostrò.

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Tutto il coro.   No, tanto merito,

     tanto valore
     l’ombra de’ secoli
     coprir non può.
Clistene. Giovane valoroso,
che in mezzo a tanta gloria umil ti stai,
quell’onorata fronte
lascia ch’io baci e che ti stringa al seno.
Felice il re di Creta,
che un tal figlio sortí! Se avessi anch’io
serbato il mio Filinto,
chi sa, sarebbe tal. (ad Alcandro) Rammenti, Alcandro,
con qual dolor tel consegnai? Ma pure...
Alcandro. Tempo or non è di rammentar sventure. (a Clistene)
Clistene. (È ver.) (a Megacle) Premio Aristea
sará del tuo valor. S’altro donarti
Clistene può, chiedilo pur, ché mai
quanto dar ti vorrei non chiederai.
Megacle. (Coraggio, o mia virtú!) Signor, son figlio,
e di tenero padre. Ogni contento,
che con lui non divido,
è insipido per me. Di mie venture
pria d’ogni altro io vorrei
giungergli apportator: chieder l’assenso
per queste nozze, e, lui presente, in Creta
legarmi ad Aristea.
Clistene.   Giusta è la brama.
Megacle. Partirò, se il concedi,
senz’altro indugio. In vece mia rimanga
questi, della mia sposa (presentando Licida)
servo, compagno e condottier.
Clistene.   (Che volto
è questo mai! Nel rimirarlo, il sangue
mi si riscuote in ogni vena.) E questi
chi è? come s’appella?
Megacle.   Egisto ha nome,

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Creta è sua patria. Egli deriva ancora

dalla stirpe real: ma, piú che ’l sangue,
l’amicizia ne stringe; e son fra noi
sí concordi i voleri,
comuni a segno e l’allegrezza e ’l duolo,
che Licida ed Egisto è un nome solo.
Licida. (Ingegnosa amicizia!)
Clistene.   E ben, la cura
di condurti la sposa
Egisto avrá. Ma Licida non debbe
partir senza vederla.
Megacle.   Ah! no, sarebbe
pena maggior. Mi sentirei morire
nell’atto di lasciarla. Ancor da lunge
tanta pena io ne provo...
Clistene.   Ecco che giunge.
Megacle. (Oh me infelice!)

SCENA VII

Aristea e detti.

Aristea. (non vedendo Megacle) (All’odiose nozze

come vittima io vengo all’ara avanti!)
Licida. (Sará mio quel bel volto in pochi istanti.)
Clistene. Avvicinati, o figlia: ecco il tuo sposo.
(tenendo Megacle per mano)
Megacle. (Ah! non è ver.)
Aristea.   Lo sposo mio!
  (stupisce vedendo Megacle)
Clistene.   Sí: vedi
se giammai piú bel nodo in ciel si strinse.
Aristea. (Ma, se Licida vinse,
come il mio bene?... Il genitor m’inganna.)
Licida. (Crede Megacle sposo e se n’affanna.)

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Aristea. E questi, o padre, è il vincitor? (additando Megacle)

Clistene.   Mel chiedi?
Non lo ravvisi al volto
di polve asperso? all’onorate stille,
che gli rigan la fronte? a quelle foglie,
che son di chi trionfa
l’ornamento primiero?
Aristea. Ma che dicesti, Alcandro?
Alcandro.   Io dissi il vero.
Clistene. Non piú dubbiezza. Ecco il consorte a cui
il ciel t’accoppia: e nol potea piú degno
ottener dagli dèi l’amor paterno.
Aristea. (Che gioia!)
Megacle.   (Che martír!)
Licida.   (Che giorno eterno!)
Clistene. E voi tacete? Onde il silenzio? (a Megacle ed Aristea)
Megacle.   (Oh Dio!
come comincerò?)
Aristea.   Parlar vorrei,
ma...
Clistene.   Intendo. Intempestiva
è la presenza mia. Severo ciglio,
rigida maestá, paterno impero
incomodi compagni
sono agli amanti. Io mi sovvengo ancora
quanto increbbero a me. Restate. Io lodo
quel modesto rossor che vi trattiene.
Megacle. (Sempre lo stato mio peggior diviene.)
Clistene.   So ch’è fanciullo Amore,
     né conversar gli piace
     con la caduta etá.
          Di scherzi ei si compiace;
     si stanca del rigore:
     e stan di rado in pace
     rispetto e libertá. (parte)

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SCENA VIII

Aristea, Megacle e Licida.

Megacle. (Fra l’amico e l’amante

che farò, sventurato!)
Licida.   All’idol mio
è tempo ch’io mi scopra. (piano a Megacle)
Megacle.   Aspetta. (Oh Dio!)
Aristea. Sposo, alla tua consorte
non celar che t’affligge.
Megacle.   (Oh pena! oh morte!)
Licida. L’amor, mio caro amico, (a Megacle come sopra)
non soffre indugio.
Aristea.   Il tuo silenzio, o caro,
mi cruccia, mi dispera.
Megacle.   (Ardir, mio core!
finiamo di morir.) Per pochi istanti
allontanati, o prence. (a parte a Licida)
Licida. E qual ragione?...
Megacle. Va’! fidati di me. Tutto conviene
ch’io spieghi ad Aristea. (a parte a Licida)
Licida.   Ma non poss’io
esser presente?
Megacle.   No: piú che non credi
delicato è l’impegno. (come sopra)
Licida.   E ben, tu ’l vuoi,
io lo farò. Poco mi scosto: un cenno
basterá perch’io torni. Ah! pensa, amico,
di che parli e per chi. Se nulla mai
feci per te, se mi sei grato e m’ami,
mostralo adesso. Alla tua fida aita
la mia pace io commetto e la mia vita. (parte)

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SCENA IX

Megacle ed Aristea.

Megacle. (Oh ricordi crudeli!)

Aristea.   Alfin siam soli:
potrò senza ritegni
il mio contento esagerar; chiamarti
mia speme, mio diletto,
luce degli occhi miei...
Megacle.   No, principessa,
questi soavi nomi
non son per me: serbali pure ad altro
piú fortunato amante.
Aristea.   E il tempo è questo
di parlarmi cosí? Giunto è quel giorno...
Ma semplice ch’io son: tu scherzi, o caro,
ed io stolta m’affanno.
Megacle.   Ah! non t’affanni
senza ragion.
Aristea.   Spiegati dunque.
Megacle.   Ascolta:
ma coraggio! Aristea, L’alma prepara
a dar di tua virtú la prova estrema.
Aristea. Parla. Aimè! che vuoi dirmi? Il cor mi trema.
Megacle. Odi. In me non dicesti
mille volte d’amar, piú che ’l sembiante,
il grato cor, l’alma sincera, e quella,
che m’ardea nel pensier, fiamma d’onore?
Aristea. Lo dissi, è ver. Tal mi sembrasti, e tale
ti conosco, t’adoro.
Megacle.   E, se diverso
fosse Megacle un dí da quel che dici;
se infedele agli amici,

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se spergiuro agli dèi, se, fatto ingrato

al suo benefattor, morte rendesse
per la vita che n’ebbe, avresti ancora
amor per lui? lo soffriresti amante?
l’accetteresti sposo?
Aristea.   E come vuoi
ch’io figurar mi possa
Megacle mio sí scellerato?
Megacle.   Or sappi
che per legge fatale,
se tuo sposo divien, Megacle è tale.
Aristea. Come!
Megacle.   Tutto l’arcano,
ecco, ti svelo. Il principe di Creta
langue per te d’amor. Pietá mi chiede
e la vita mi diede. Ah! principessa,
se negarla poss’io, dillo tu stessa.
Aristea. E pugnasti...
Megacle.   Per lui.
Aristea.   Perder mi vuoi...
Megacle. Sí, per serbarmi sempre
degno di te.
Aristea.   Dunque io dovrò...
Megacle.   Tu dèi
coronar l’opra mia. Sí, generosa,
adorata Aristea, seconda i moti
d’un grato cor. Sia, qual io fui finora,
Licida in avvenire. Amalo. È degno
di sí gran sorte il caro amico. Anch’io
vivo di lui nel seno;
e, s’ei t’acquista, io non ti perdo appieno.
Aristea. Ah, qual passaggio è questo! Io dalle stelle
precipito agli abissi. Eh! no: si cerchi
miglior compenso. Ah! senza te la vita
per me vita non è.
Megacle.   Bella Aristea,

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non congiurar tu ancora

contro la mia virtú. Mi costa assai
il prepararmi a sí gran passo. Un solo
di quei teneri sensi
quant’opera distrugge!
Aristea.   E di lasciarmi...
Megacle. Ho risoluto.
Aristea.   Hai risoluto? e quando?
Megacle. Questo (morir mi sento!)
questo è l’ultimo addio.
Aristea.   L’ultimo! Ingrato!...
Soccorretemi, o numi! Il piè vacilla;
freddo sudor mi bagna il volto; e parmi
ch’una gelida man m’opprima il core!
  (s’appoggia ad un tronco)
Megacle. Sento che il mio valore
mancando va. Piú che a partir dimoro,
meno ne son capace.
Ardir! Vado, Aristea: rimanti in pace.
Aristea. Come! giá m’abbandoni?
Megacle.   È forza, o cara,
separarsi una volta.
Aristea.   E parti?...
Megacle.   E parto
per non tornar piú mai. (in atto di partire)
Aristea. Senti. Ah! no... Dove vai?
Megacle. A spirar, mio tesoro,
lungi dagli occhi tuoi.
  (Megacle parte risoluto, poi si ferma)
Aristea.   Soccorso!... Io... moro!
  (sviene sopra un sasso)
Megacle. Misero me! che veggo! (rivolgendosi indietro)
Ah! l’oppresse il dolor. (tornando) Cara mia speme,
bella Aristea, non avvilirti; ascolta:
Megacle è qui. Non partirò. Sarai...
Che parlo? Ella non m’ode. Avete, o stelle,

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piú sventure per me? No, questa sola

mi restava a provar. Chi mi consiglia?
che risolvo? che fo? Partir? sarebbe
crudeltá, tirannia. Restar? che giova?
forse ad esserle sposo? E ’l re ingannato,
e l’amico tradito, e la mia fede,
e l’onor mio lo soffrirebbe? Almeno
partiam piú tardi. Ah! che sarem di nuovo
a quest’orrido passo. Ora è pietade
l'esser crudele. Addio, mia vita: addio,
  (le prende la mano e la bacia)
mia perduta speranza. Il ciel ti renda
piú felice di me. Deh! conservate
questa bell’opra vostra, eterni dèi;
e i dí, ch’io perderò, donate a lei.
Licida!... Dov’è mai? Licida! (verso la scena)

SCENA X

Licida e detti.

Licida.   Intese

tutto Aristea?
Megacle.   Tutto. T’affretta, o prence:
soccorri la tua sposa. (in atto di partire)
Licida.   Aimè! che miro!
Che fu? (a Megacle)
Megacle.   Doglia improvvisa
le oppresse i sensi. (partendo come sopra)
Licida.   E tu mi lasci?
Megacle.   Io vado...
  (tornando indietro)
Deh! pensa ad Aristea. (partendo) (Che dirá mai
quando in sé tornerá? (si ferma) Tutte ho presenti,
tutte le smanie sue.) Licida, ah! senti.

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               Se cerca, se dice:

          — L’amico dov’è?
          — L’amico infelice, —
          rispondi, — morí. —
               Ah! no, sí gran duolo
          non darle per me:
          rispondi, ma solo:
          — Piangendo partí. —
               Che abisso di pene
          lasciare il suo bene,
          lasciarlo per sempre,
          lasciarlo cosí! (parte)

SCENA XI

Licida ed Aristea.

Licida. Che laberinto è questo! Io non l’intendo.

Semiviva Aristea... Megacle afflitto...
Aristea. Oh Dio!
Licida.   Ma giá quell’alma
torna agli usati uffizi. Apri i bei lumi,
principessa, ben mio.
Aristea. (senza vederlo) Sposo infedele!
Licida. Ah! non dirmi cosí. Di mia costanza,
ecco, impegno la destra. (la prende per mano)
Aristea.   Almeno... Oh stelle!
  (s’avvede non esser Megacle, e ritira la mano)
Megacle ov’è?
Licida.   Partí.
Arjstea.   Parti l’ingrato?
ebbe cor di lasciarmi in questo stato?
Licida. Il tuo sposo restò.
Aristea. (s’alza con impeto) Dunque è perduta
l’umanitá, la fede,

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l’amore, la pietá? Se questi iniqui

incenerir non sanno,
numi, i fulmini vostri in ciel che fanno?
Licida. Son fuor di me. Di’: che t’offese, o cara?
Parla: brami vendetta? Ecco il tuo sposo:
ecco Licida...
Aristea.   Oh dèi!
Tu quel Licida sei... Fuggi, t’invola,
nasconditi da me. Per tua cagione,
perfido! mi ritrovo a questo passo.
Licida. E qual colpa ho commessa? Io son di sasso!
Aristea.   Tu me da me dividi:
     barbaro! tu m’uccidi:
     tutto il dolor ch’io sento,
     tutto mi vien da te.
          No, non sperar mai pace:
     odio quel cor fallace:
     oggetto di spavento
     sempre sarai per me. (parte)

SCENA XII

Licida e poi Argene.

Licida. A me «barbaro»! Oh numi!

«perfido» a me! Voglio seguirla, e voglio
sapere almen che strano enigma è questo.
Argene. Férmati, traditor!
Licida. (riconosce Argene) Sogno o son desto?
Argene. Non sogni, no: son io
l’abbandonata Argene. Anima ingrata!
riconosci quel volto
che fu gran tempo il tuo piacer, se pure,
in sorte sí funesta,
delle antiche sembianze orma vi resta.

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Licida. (Donde viene, in qual punto

mi sorprende costei! Se piú mi fermo.
Aristea non raggiungo.) Io non intendo,
bella ninfa, i tuoi detti. Un’altra volta
potrai meglio spiegarti. (vuol partire)
Argene. (trattenendolo) Indegno! ascolta.
Licida. (Misero me!)
Argene.   Tu non m’intendi? Intendo
ben io la tua perfidia. I nuovi amori,
le frodi tue tutte riseppi; e tutto
saprá da me Clistene
per tua vergogna. (vuol partire)
Licida. (trattenendola) Ah! no. Sentimi, Argene.
Non sdegnarti: perdona,
se tardi ti ravviso. Io mi rammento
gli antichi affetti; e, se tacer saprai,
forse... chi sa?
Argene.   Si può soffrir di questa
ingiuria piú crudel! «Chi sa» mi dici?
Invero io son la rea. Picciole prove
di tua bontá non sono
le vie, che m’offri a meritar perdono.
Licida. Ascolta. Io volli dir... (vuol prenderla per mano)
Argene. (lo rigetta) Lasciami, ingrato!
non ti voglio ascoltar.
Licida.   (Son disperato!)
Argene.   No, la speranza
          piú non m’alletta:
          voglio vendetta,
          non chiedo amor.
               Pur che non goda
          quel cor spergiuro,
          nulla mi curo
          del mio dolor. (parte)

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SCENA XIII

Licida e poi Aminta.

Licida. In angustia piú fiera

io non mi vidi mai. Tutto è in ruina,
se parla Argene. È forza
raggiungerla, placarla... E chi trattiene
la principessa intanto? Il solo amico
potria... Ma dove andò? Si cerchi. Almeno
e consiglio e conforto
Megacle mi dará. (vuol partire)
Aminta.   Megacle è morto!
Licida. Che dici, Aminta?
Aminta.   Io dico
purtroppo il ver.
Licida.   Come! Perché? Qual empio
sí bei giorni troncò? Trovisi: io voglio
ch’esempio di vendetta altrui ne resti.
Aminta. Principe, nol cercar: tu l’uccidesti.
Licida. Io! Deliri.
Aminta.   Volesse
il ciel ch’io delirassi. Odimi. In traccia
mentre or di te venia, fra quelle piante
un gemito improvviso
sento. Mi fermo, al suon mi volgo, e miro
uom che sul nudo acciaro
prono giá s’abbandona. Accorro. Al petto
fo d’una man sostegno;
con l’altra il ferro svio. Ma, quando al volto
Megacle ravvisai,
pensa com’ei restò, com’io restai.
Dopo un breve stupore: — Ah! qual follia
bramar ti fa la morte? —

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io volea dirgli. Ei mi prevenne. — Aminta,

ho vissuto abbastanza —
sospirando mi disse
dal profondo del cor. — Senz’Aristea
non so viver, né voglio. Ah! son due lustri
che non vivo che in lei. Licida, oh Dio!
m’uccide e non lo sa. Ma non m’offende:
suo dono è questa vita; ei la riprende.—
Licida. Oh amico! E poi?
Aminta.   Fugge da me, ciò detto,
come partico stral. Vedi quel sasso,
signor, colá, che il sottoposto Alfeo
signoreggia ed adombra? Egli v’ascende
in men che non balena. In mezzo al fiume
si scaglia: io grido invan. L’onda percossa
balzò, s’aperse: in frettolosi giri
si riuní, l’ascose. Il colpo, i gridi
replicaron le sponde; e piú nol vidi.
Licida. Ah, qual orrida scena,
or si scopre al mio sguardo! (rimane stupido)
Aminta.   Almen la spoglia,
che albergò sí bell’alma,
vadasi a ricercar. Da’ mesti amici
questi a lui son dovuti ultimi uffici. (parte)

SCENA XIV

Licida e poi Alcandro.

Licida. Dove son! Che m’avvenne! Ah! dunque il cielo

tutte sopra il mio capo
rovesciò l’ire sue. Megacle, oh Dio!
Megacle, dove sei? Che fo nel mondo
senza di te? Rendetemi l’amico,
ingiustissimi dèi! Voi mel toglieste:

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lo rivoglio da voi. Se lo negate,

barbari, a’ voti miei, dovunque ei sia
a viva forza il rapirò. Non temo
tutti i fulmini vostri: ho cor che basta
a ricalcar su l’orme
d’Ercole e di Teseo le vie di morte.
Alcandro. Olá! (Licida non l’ode)
Licida.   Del guado estremo...
Alcandro.   Olá!
Licida.   Chi sei
tu, che audace interrompi
le smanie mie?
Alcandro.   Regio ministro io sono.
Licida. Che vuole il re?
Alcandro.   Che in vergognoso esiglio
quindi lungi tu vada. Il sol cadente
se in Elide ti lascia,
sei reo di morte.
Licida.   A me tal cenno?
Alcandro.   Impara
a mentir nome, a violar la fede,
a deludere i re.
Licida.   Come! ed ardisci,
temerario...
Alcandro.   Non piú. Principe, è questo
mio dover; l’ho adempito: adempi il resto. (parte)

SCENA XV

Licida solo.

Con questo ferro, indegno! (snuda la spada)

il sen ti passerò... Folle! che dico?
che fo? con chi mi sdegno? Il reo son io:
io son lo scellerato. In queste vene

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con piú ragion l’immergerò. Sí, mori,

Licida sventurato!... Ah! perché tremi,
timida man? Chi ti ritiene? Ah! questa
è ben miseria estrema! Odio la vita,
m’atterrisce la morte; e sento intanto
stracciarmi a brano a brano
in mille parti il cor. Rabbia, vendetta,
tenerezza, amicizia,
pentimento, pietá, vergogna, amore
mi trafiggono a gara. Ah! chi mai vide
anima lacerata
da tanti affetti e sí contrari! Io stesso
non so come si possa
minacciando tremare, arder gelando,
piangere in mezzo all’ire,
bramar la morte e non saper morire.
          Gemo in un punto e fremo;
     fosco mi sembra il giorno:
     ho cento larve intorno;
     ho mille furie in sen.
          Con la sanguigna face
     m’arde Megera il petto;
     m’empie ogni vena Aletto
     del freddo suo velen. (parte)