Novellette e racconti/XLVII. Il finto Ammalato

XLVII.
Il finto Ammalato

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XLVII.


Il finto Ammalato.


Un giovanetto, d’anni diciotto in circa, vedendo che il padre suo fra pochi giorni stabiliva d’andar a villeggiare, e spiacendogli di dover essere seco, perchè egli avea ad allontanarsi da una certa giovane da lui amata, finse di essere aggravato da acuto dolore di capo e di avere la febbre. Il padre che grandemente l’amava, sbigottitosi per affezione, gli pose le mani al polso, e in effetto ritrovò al figliuolo quella febbre che non avea; onde fattolo di subito coricare a letto, mandò pel medico, il quale [p. 79 modifica]era un certo giovinastro che fa l’arte sua come le viene, e con le belle e buone parole, allegando Ippocrate e Galeno, s’acquista l’animo degli ascoltanti. Giunto dunque il novellino Esculapio al letto del malizioso infermo, gli fece prima diverse richieste, alle quali rispose il giovane quel che volle con una vocina impacciata e debole; onde l’interrogante fece le sue conghietture, e stabilì fra sè la natura del male, toccandogli frattanto il polso, e trovandogli una febbretta, a suo giudicio, di pessimo carattere. Disse tuttavia ch’egli sarebbe stato ad indugiare fino al vegnente dì, per vedere se la febbre fosse proseguita o no, lodando infinitamente chi in tali materie va col calzare del piombo, e commentando varj passaggi d’Ippocrate, i quali sempre più consolarono il padre, che il figliuol suo infermo fosse nelle sue mani. Venuto l’altro dì, e lagnandosi il putto che il dolore del capo gli crescea, come quello il quale vedea giovargli la finzione, ecco di nuovo il medico, il quale toccandogli il polso, sente la febbretta accresciuta; onde fattosi innanzi arrecare calamajo e fogli, scrisse una ricetta, ordinandogli una gagliardissima medicina purgativa, e dicendo che la mattina vegnente la prendesse assai per tempo, di là si partì. Cominciò il putto a pensare a’ casi suoi, e giurava fra sè che siffatta medicina non gli sarebbe mai entrata nel corpo, temendo che alfine la finzione lo facesse ammalare daddovero. La mattina per tempo entrano uno staffiere e una donna in camera di lui con le ampolle; la donna va per alzargli il capo e mettergli sotto più cuscini, e lo staffiere coll’ampolla e colla tazza in mano sta per versare: il putto comincia a dir che non vuole; essi pregano, fanno istanze; ammoniscono: egli perde la pazienza e stride di rabbia, dà un pugno alla femmina e caccia via lo staffiere con le ciabatte. Essi corrono al padre, dicendogli che il figliuolo è in delirio: il padre manda subito pel medico, e intanto entra vestito così a casaccio nella stanza del putto; lo trova fuori di sè per la collera; con le buone cerca di [p. 80 modifica]acquetarlo. Dice il figliuolo: Io sto bene. Dice il padre: Al nome sia di Dio, io l’ho caro; ma se tu prenderai la pozione, starai meglio; e gli tocca il polso: in effetto gli parea che non avesse febbre. Giunge il medico; va anch’egli al polso, avvisato dal padre che febbre non avea, e lo trova libero; ma avendo udito dallo staffiere la passata furia, e postosi in capo che quello fosse stato vaneggiamento, prova con molte ragioni che ci sono alcune febbrette sorde e mutole che non appariscono di fuori, ma lavorando di dentro, fanno tali effetti: onde stabilisce che la pozione debba essere risolutamente bevuta. Il povero giovane vedendo che lo stare a letto era per lui finalmente lo stesso che andare alla campagna, disse che voleva dire due parole da sè a sè al padre; onde il medico, fatti i suoi convenevoli, si partì, e il giovane singhiozzando, e non senza lagrime, narrò la sua invenzione al padre, il quale si rise, e fatta venire la barca alla riva, vi entrarono insieme; e il giovine ebbe per allora più caro di fuggire le pozioni, che di vedere la fanciulla.