Novellette e racconti/LXXXV. Trappola tesa ad un Oste

LXXXV. Trappola tesa ad un Oste

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LXXXV.


Trappola tesa ad un Oste.


Per quanto si cerchi d’illuminare gli uomini, s’incontra tuttavia anche a’ tempi nostri, come nell’età più goffe e dalle tenebre dell’ignoranza coperte, certuni i quali si lasciano condurre alla trappola e agl’inganni con grandissima facilità. E sempre ci sono astutacci e tristi che si vanno aggirando giorno e notte per trovare genti di buona pasta che prestino fede alle loro ciance e cadano nella rete che hanno loro apparecchiata. Noi abbiamo qui in Padova un buon uomo di oste, a cui a questi dì è avvenuto con suo gran danno di prestar fede a tre barattieri, i quali gli diedero ad intendere che nella cantina della sua casa vi avea un certo tesoro sotterrato, e custodito non so se da’ diavoli o da altro. Il buon uomo, preso dall’amo di un interesse in aria, e parendogli già di noverare, anzi pur di misurare gli zecchini a staja, non potea vivere se non si ritrovava co’ tre compagni a ragionare della sua fortuna; e non gli parea di poter tanto durare, che vedesse a risplendere quell’oro, di cui con le parole gli aveano riempiuta l’immaginazione. Ma essi, che sapeano tutti i punti dell’arte, ora gli davano ad intendere che le costellazioni non erano ancora a segno, e talvolta gli faceano udire certi romori per casa da far ispiritare le genti; e oggi con un artificio, domani con un altro, gli ravviluppavano sempre più la fantasia; tanto ch’egli avrebbe creduto che non risplendesse il sole, piuttosto che dire: Nella cantina mia non è il tesoro ch’essi compagni affermano. Essi, per confermargli e conficcargli sempre più nella testa questa opinione, una notte segretamente, [p. 190 modifica]dopo diversi apparecchiamenti, lo fecero scendere nella cantina, dove in una pentola ardeva un certo fuoco verdastro chiaro con loro artifizj composto; e tanto fecero visacci e l’intrattennero con parole e baje, che finalmente la materia posta nella pentola si consumò, e andativi sopra con mille ciurmerie, fecero trovare all’oste in fondo a quella due doble. Pareva già all’oste di essere Mida o Creso, e ardeva d’impazienza di scoprire il tesoro intero, ma vi mancava molto tempo ancora; imperciocchè non erano venuti i punti favorevoli delle stelle, nè si avea tutto fatto acciocchè gli spiriti fossero ubbidienti. L’oro chiama oro, dicevano essi. Quivi si vuole mettere insieme una somma di quattrocento zecchini. Oimè, diceva l’oste, io non gli ho; e rispondevano i ciurmadori: Noi per nostra porzione del tesoro ve ne porremo cento, e ci darai la quarta porzione del tesoro, e ci farai quel vantaggio più, che a te parrà che meritino i nostri pensieri e le fatiche. Bene, dice l’oste, e così sarà fatto. Escono tutti lieti, l’oste pel tesoro, gli altri pel deposito che avea a farsi. Buona notte di qua, buona notte di là. L’oste incomincia a fantasticare in qual forma abbia a premere da tutte le facoltà sue trecento zecchini. In pochi giorni vende quanto ha di argento, di grani, di vino e di ogni cosa, tutto a buon mercato. Egli sel vedea: Ma che? diceva fra sè, io non ho mai venduto sì caro. Questa è la più grassa investita che uomo possa fare. L’argento mio fra poco sarà cambiato in oro, ogni granello di biada e ogni gocciola di vino sarà una dobla; e io avrò in breve terminato di esser oste. Così dicendo e facendo, ecco ch’egli ha accumulate le monete richieste dagli spiriti; e va a’ truffatori dicendo: Quando voi volete, ogni cosa è in pronto. Tu hai fatto da valentuomo, rispondono essi; noi abbiamo il restante. Quel che si ha a fare, si faccia, perchè le stelle vanno avanti, e noi già siamo presso che a’ punti stabiliti. Ma vedi bene sopra tutto, che mai di tal cosa non ne uscisse sentore nel volgo; sarebbe rovinata ogni faccenda, e [p. 191 modifica]chi sa che non ne andasse in fine a fuoco e fiamme la casa. Così detto, vanno insieme in una stanza, la richiudono, e cominciano a noverare. Uno de’ ciurmadori cava fuori una borsa di pelle, e in essa vengono seppelliti subito i quattrocenti zecchini che doveano essere pastura de’ diavoli. Chiudesi la borsa, vi si mette sopra un suggello. Ora che se ne ha a fare? dice l’oste. Tu l’hai, ripigliò uno, a richiudere a chiave in una cassettina di quell’armadio colà; io vado a Venezia, e di qua a otto giorni sarai avvisato da me per lettera di quello che tu debba fare dei danari. Ma vedi bene che tu non errassi; non aprir mai prima che tu abbi da me l’avviso; e fa come io ti dico, perchè, se tu apri l’armadio e la borsa senza l’avviso mio, io ti prometto che tu avrai a piangere. Fu riposta la borsa con gran solennità nell’armadio, e fatti certi brevi convenevoli, i tre ciurmatori se ne andarono a’ fatti loro, e l’oste rimase colla fantasia, secondo l’usato, ripiena di zecchini. Intanto i giorni parevano all’ uomo dabbene secoli interi, la notte non chiudeva mai occhi, e guardava nelle finestre se appariva il lume: il giorno ascoltava tutti gli oriuoli, parendogli che non suonassero mai, o guardava il sole quando calava verso il ponente; e tanto stette in questi pensieri, che passarono gli otto dì, ne’ quali non ebbe mai lettere, nè avviso veruno dall’amico. I punti delle stelle, dicea egli, non saranno a segno ancora. Che mai sarà? non andranno mai queste stelle dove le debbono andare? Oh come sono io sventurato! ho il tesoro in casa, gli cammino sopra co’ piedi, e non lo posso adoperare. Quando mi scriverà l’amico? ma faccia egli. A lui son note le cose de’ diavoli, io non le so, e mi conviene aver pazienza. In tali pensieri passarono altri otto dì, e poi altri otto ancora, e finalmente si chiuse un mese che non vide mai lettera dall’amico. Comincia a temere, e non sa di che. Sentesi tanto di andare ad aprire l’armadio, ma teme del fatto suo. Dall’una parte la speranza del tesoro e la paura degli spiriti lo ritiene, dall’altra lo [p. 192 modifica]stimola il non avere più danari, nè roba. Non sa che farà. Passano i giorni, e sempre più il bisogno lo stringe. Va fino all’armadio risoluto, poi torna indietro, e lascia passare un altro dì; ma finalmente, costretto dalle faccende sue, che andavano male, delibera al tutto di cavar fuori la borsa dicendo: Se io non avrò più il tesoro, pazienza; dirò che tanta fortuna non era fatta per me, ma così non posso più durare. Va avanti, che parea adombrato. Guardava ad ogni passo se appariva fuoco in alcuna parte della stanza, gli pareva che le travi si crollassero, avrebbe giurato che il palco gli cadesse sotto. Mette le chiavi nella toppa, non ardisce di voltarle. Se non che vedendo in fine ogni cosa quieta intorno a sè, fa cuore, volta e apre, vede la borsa; chiude gli occhi e l’abbranca con fretta, quasi che avesse a trarnela di mano agli spiriti, e gli cadevano i sudori dalla fronte come gocciole di pioggia. Mettesi tutto trambasciato a sedere, rompe tremando il suggello, scioglie la bocca alla borsa; ed oh! maraviglia e dolore, erano gli zecchini riposti divenuti pezzetti di piombo. Poco mancò che non si tramutasse in piombo anch’egli, così mutolo e freddo rimase: di là a poco parve che gli si aprissero gli occhi dell’intelletto; e vedendo che non fuoco, non rovine di casa e non altro male gli avveniva, conghietturò fra sè di subito, che la borsa buona fosse stata cambiata, nel riporla, in una trista, e che i tre fossero, come in effetto erano, truffatori. Ricorse incontanente all’ajuto e alla tutela delle santissime leggi, e tanto fece che uno degl’incantatori fu messo in prigione, e confermò i nomi degli altri due, a’ quali avverrà quel bene che si hanno meritato.