Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella LXVII

Novella LXVII - Il soldano dell’Egitto uso gran gratitudine verso Enrico, duca de’ Vandali, suo prigioniero
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[p. 202 modifica]ragione sarò debitore. – Il giudice, veggendo il buon aspetto del giovane e cosí ben vestito, gli disse: – Gentiluomo, io ho data la commessione ad instanzia del tal mercadante. – Fu fatto venir il zoppo in palazzo, che vi venne come la biscia a l’incanto. Alora Gian Battista, rivolto al giudice, disse: – A ciò che voi conosciate la malignitá e ribalderia di costui, eccovi la cedula di sua mano, sottoscritta dal notaro e testimonii, come egli è debitore al mio maestro di mille ducati. Eccovi la mia procura di riscuotergli. E perché conosciate che io non son fuggitivo e confesso essergli debitore di dieci ducati, leggete questo mio scritto, ove da una parte del foglio scritto è il suo debito, ed a l’incontro al credito suo ho posto i dieci ducati avuti da lui in prestito, – ché queste scritture portava seco in petto il giovane. Il povero vecchio nulla seppe negare, e stava mutolo né sapeva che dire. Ad instanzia poi del giovine fu il vecchio imprigionato, non avendo chi li facesse securtá. Protestò poi Gian Battista dei danni ed interessi e de l’onore, per esser accusato fuggitivo. Ed in somma la cosa andò di modo che il misero vecchio fatto fu prigionero e fu astretto, se volle uscire, a pagar tutto il debito con danni ed interessi, e publicamente disdirsi di aver appellato il giovane «fuggitivo», di maniera che l’inganno tornò sovra l’ingannatore. E cosí si vide verificato il proverbio che dice: «Chi ha a far con tósco, non vuol esser losco».


Il Bandello al vertuoso ed illustre signore
il signor Cesare Fregoso salute


Tra tutte le vertú che ogni uomo rendono commendabile, o sia privato o sia in degnitá di magistrati costituto o padrone e signore di popoli, io porto ferma openione che la gratitudine sia una di quelle che di modo informi ed ammaestri le menti nostre, che di leggero faccia la via a tutte l’altre vertú morali; perché impossibile mi pare d’esser grato dei beneficii ricevuti, se l’uomo anco non ha quell’altre parti che ad esser da bene se gli convengono. E secondo che l’esser grato è cosa onorata e lodevole, cosí per lo contrario l’esser ingrato è vizio abominevole e grandemente vituperoso. Onde santamente lasciò scritto un dotto e santo dottore, dicendo che il peccato de l’ingratitudine [p. 203 modifica]è un vento che abbrucia e secca il fonte de la divina pietá. Colui che è grato riconosce tanti beneficii quanti la divina bontá ci ha fatti e tutto il dí fa, e non potendo egli equivalente beneficio renderle, perché dal finito a l’infinito non è proporzione alcuna, almeno si sforza con animo grato e ricordevole degli avuti e non meritati beni renderle tutte le grazie che può le maggiori, ed ogni dí se le confessa debitore. Il medesimo fa verso i parenti e verso gli amici, e insomma verso tutti quelli a cui si sente ubligato. Né solamente rende loro le debite grazie di parole, ma con gli effetti ed opere de l’animo grato si mostra loro, e gli fa conoscere che di se stesso prima sará possibile obliarsi, che porre in oblio gli avuti piaceri e beneficii da l’amico. Di questa vertú ragionandosi, giá molti anni sono, in Milano a la presenza del signor Prospero Colonna, messer Francesco Peto, uomo dottissimo, narrò una bella istoria a questo proposito, la quale io alora scrissi. Ora, facendo la scelta de le mie novelle, questa narrata dal Peto m’è venuta a le mani, onde al nome vostro l’ho intitolata, sí per esservi io quello che vi sono, che dal sacro fonte v’ho levato, ed altresí per la buona creanza che in tutte l’azioni vostre mostrate, e massimamente negli studi de le lettere, nei quali, non avendo ancora compíto l’undecimo anno, fate tutto ’l dí mirabil profitto. Io vi ricordo che avete il nome del vostro padre, che fu segnalato cavaliero e ne la milizia a’ tempi suoi ebbe pochi pari e nessuno superiore. Egli per proprio valor suo, ché da fanciullo si nudrí ne l’arme, e non per istraordinarii favori, con la spada e lancia, con la sagacitá, prudenza, fortezza e scienza militare s’acquistò il nome di valente soldato e di sapientissimo capitano, come l’imprese da lui per l’Italia fatte ne rendono testimonio. Sforzatevi adunque d’imitar il padre, che ne l’opere de la magnificenza, liberalitá e de la gratitudine fu singolarissimo. State sano.


NOVELLA LXVII
Il soldano de l’Egitto usò gran gratitudine
verso Enrico duca de gli vandali suo prigionero.


Fu giá la cittá di Magnopoli capo di molti dominii ne le parti settentrionali, di modo che negli anni di nostra salute mille cento settanta e nove fu re di quella Pribislao, sepolto in un monastero d’essa cittá detto Dobran, su la cui sepoltura è intagliato questo epitafio: «Pribislaus, Dei gratia erulorum, vagriorum, circipoenorurn, polamborum, obotritarum, kissinorum vandalorumque [p. 204 modifica]rex». Fu costui l’ultimo re di quei popoli settentrionali, i quali di giá nel trecento quaranta, insieme con i goti, in Austria, Croazia, Dalmazia e ne l’Italia fecero grandissime battaglie, e nel quattrocento dodici espugnarono Roma e dopoi, passati in Affrica, presero Cartagine ed occuparono la Spagna. Ora, morto che fu Pribislao, si cangiò il nome del re in duca, e i suoi figliuoli divisero le provincie tra loro, di cui gli eredi sino al giorno d’oggi regnano e sono signori a’ nostri tempi dui fratelli, cioè Enrico ed Alberto. Negli avi di questi dui, del mille dugento sessanta, poco piú e poco meno, fu il duca di Magnopoli un Enrico, uomo molto catolico, il quale, nel general passaggio che i cristiani fecero in Soria, andò col re Lodovico di Francia che poi fu santo. E volendo esso duca Enrico passare in Gierusalem, fu preso dai soldati de la Cilicia infedeli e mandato a Damasco e poi al Cairo del soldano, ove stette schiavo presso a trenta anni, di modo che nel tempo de la sua prigionia morirono dui soldani e fu eletto il terzo. La moglie d’Enrico, figliuola del re di Svecia, insieme con il picciolo figliuolo, che pure anco egli aveva nome Enrico, veggendo tanti altri signori ritornare di Soria ed il marito non rivenire, non sapendo ciò che di lui fosse, se ne stava con grandissimo dolore. Tuttavia governava essa duchessa i suoi popoli con tanta moderazione che da tutti generalmente era amata e riverita. Faceva poi allevare il figliuolo con grandissima cura, a ciò che apparasse ottimi costumi e col tempo potesse moderatamente il suo ducato governare. Né solo a le lettere e buoni costumi lo fece attendere, ma volle anco che a la essercitazione d’ogni sorte d’arme ed al cavalcare desse opera; il che faceva molto diligentemente il giovinetto. Ora devete sapere che, avendo il padre del duca Enrico, che era in Soria, grandissima guerra con i signori de la Livonia, andò a trovarlo un tartaro, il quale era eccellentissimo maestro di macchine per ispugnare una fortezza ed anco per difenderla con i ripari che sapeva maestrevolmente fare. Fu costui molto accarezzato dal padre d’Enrico, sí per l’eccellenza del magisterio suo, come anco perché era de la persona sua molto prode e ottimo soldato. Gli statuí adunque buon salario, ed al figliuolo, che in campo era, molto lo raccomandò, ché lo accarezzasse e seco lo tenesse; il che il giovine diligentemente fece, di modo che il tartaro gli mise grandissimo amore. Questo tartaro, di cui ora v’ho parlato, era colui che poco innanzi v’ho detto che fu eletto soldano. Essendo adunque il duca Enrico [p. 205 modifica]suo schiavo e tutto il dí veggendolo, non perciò lo conosceva, e medesimamente il soldano non riconosceva lui. Ora avvenne che un dí, ridendo, il duca Enrico fece con le labbra un certo movimento il quale altre volte il soldano, quando militava con lui, aveva molte fiate notato; il perché tenne per fermo che quello fosse il duca Enrico giá suo padrone. Ed ancor che fosse stato circa trenta anni schiavo e sopportati mille disagi e divenuto forte vecchio, nondimeno non era mica tanto disfatto che a le native fattezze il soldano non lo riconoscesse. Onde, ringraziato Dio che gli dava occasione di potersi mostrar grato dei piaceri da Enrico ricevuti, lo domandò di che paese egli fosse. Al quale rispose che era di Ponente; né ardiva apertamente dirli chi fosse. Del che accortosi il soldano, gli disse: – A ciò tu conosca che io so piú di te e de lo stato tuo che tu forse non credi, mirami per minuto e guarda se mi conosci. – Il duca, poi che buona pezza ebbe considerato, gli rispose dicendo che non per altro lo conosceva che per lo soldano suo signore. Alora soggiunse il soldano e disse: – Sovvienti, cristiano, quando tuo padre guerreggiava in Livonia, che ci capitò un tartaro fabricatore di macchine, e ti fu raccomandato e tu gli facesti tanti piaceri? Non ti sovviene come per sua industria si diede grandissimo danno ai nemici? Io sono quello, o duca Enrico a me carissimo, il quale, partito da te, me ne tornai in Tartaria, ove feci molte prove. Poi, che sarebbe troppo lungo dire, preso da’ corsari e in questo paese tre volte per ischiavo venduto, sono asceso a la grandezza che tu vedi. E sia lodato Iddio che ti potrò mostrare di non esser ingrato dei beneficii da te ricevuti. – Fattogli adunque carezze grandissime, molto bene messolo in ordine e donatogli grandissimi e preziosi doni, dopo gli abbracciari amorevoli fatti insieme, il soldano lo licenziò, e, datogli una galea ottimamente corredata, lo mandò in Cipri a la reina de l’isola, che era sorella del padre d’Enrico, da la quale egli fu lietissimamente visto e per alcuni dí accarezzato. Poi con buon vento navigò a Marsiglia, ove un’altra sua zia era contessa di Provenza. Quivi medesimamente con gran piacere veduto e festeggiato, del mille ducento novantotto a casa ritornò, dove con inaudito piacere fu da la moglie, figliuolo e piccioli nipoti ricevuto, i quali lungo tempo l’avevano per morto pianto. E cosí il buon duca Enrico quel poco tempo che gli restava de la vita in grandissima quiete visse, non cessando mai di far cortesia e piacer a tutti. Morto poi, fu nel monistero di Dobren sepellito. Onde, signori miei, io vi conchiudo [p. 206 modifica]che ciascuno secondo la possibilitá sua deve sforzarsi di far piacere ad ogni persona, perché si vede, per l’istoria che io v’ho narrata e per infiniti altri essempi, che la liberalitá e la cortesia a molti usata, se ben da tutti non è riconosciuta, non è possibile che a la fine non si ritrovi alcuno che d’animo grato e generoso non si dimostri. E quando mai non ci fosse chi grato si dimostrasse, l’uomo almeno, che magnifica e liberalmente opera, fa officio di vero gentiluomo e vertuoso e fa ciò che deve.


Il Bandello al molto magnifico e gentile messer
Giovanni Bianchetto salute


Mirabile certamente è la instabil varietá del corso de la nostra vita, e da esser da l’uomo con intento animo e fermo giudicio, minutissimamente considerata, tutto il dí veggendosi tante e tali mutazioni, quante e quali ogni ora per l’ordinario accadono, ora d’avversa ed ora di propizia fortuna. Vederai oggi uno nel colmo innalzato d’ogni buona ventura, che dimane troverai caduto con rovina ne l’abisso de l’estreme miserie. E tanto piú degna mi pare di saggio pensiero cotesta considerazione, quanto che la volubile varietá de la fortuna non dura in tutti lungamente in un tenore. Onde l’uomo, che si vede rovinato dal felice grado de l’altezza a l’infimo de la vile e bassa condizione, deve usare e porsi per iscorta e guida innanzi agli occhi il chiaro lume de la diritta ragione, di cui da la maestra natura è dottato. E cosí governandosi, non si precipiterá rovinosamente nel profondo e misero baratro de la disperazione, dal quale poi non possa cosí di leggero rilevarsi; ma penserá che, mentre qui si vive, anzi pure a la morte con veloci passi si corre, molti indegnamente soffreno piú di lui acerbe e dure percosse e strazii molto maggiori, i quali con lo scudo de la pazienza sí bene si sono saputi schermire, che, a mal grado dí rea fortuna, sono virilmente risorti ed ascesi al pristino stato e talora a megliore. Medesimamente quando avviene che uno si vede, senza veruno merito suo e senza alcuna vertú, da un soffiamento di prospera fortuna e sorte avventurosa esser levato fuor de la sporca feccia del fango e divenuto