Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XXXIII

Terza parte
Novella XXXIII

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Un vecchio innamorato è cagione de la morte sua


e del proprio figliuolo per gelosia d’una femina.


Essendo voi, signori, tutto ’l dí su le mortali scaramucce con gli spagnuoli, e qui non si sentendo ognora altro che «A l’arme! a l’arme!» e tamburi e trombe ed il romore tremendo de l’artegliarie, credo io che a poco altro s’attenda che a guerreggiare e spiare ciò che fa il nemico, ché cosí vuole il devere. Nondimeno egli non si disdirá talora, quando le debite provigioni si sono fatte, darsi qualche trastullo e dar un poco d’alleggiamento a l’affaticate membra. E perché l’eccellentissimo signor Giano Maria Fregoso vostro governator generale ora m’ha domandato se io ho niente di nuovo, m’è caduto ne l’animo di narrarvi un pietoso accidente, che non son ancora quindici giorni a Monza è accaduto. Era in Monza un gentiluomo nostro milanese, che per le presenti guerre uscito di Milano, come molti fanno, avendo gran parte de le sue possessioni vicine a Monza, quivi abitava. Egli era vedovo e de la moglie aveva dui figliuoli, uno di sette anni e il maggiore di circa dicenove. E trovandosi senza moglie, ancor che passasse sessanta anni, non avendo rispetto a la vecchiaia, molto piú propinqua a la morte che a la vita, s’innamorò d’una assai appariscente contadinella, figliuola d’un suo massaro, e per danari dal padre l’ebbe e in casa la teneva, prendendo di lei, quando gli piaceva, amoroso piacere. Il figliuol maggiore di leggero s’accorse del fatto, ed ancora che il disonesto vivere del padre gli dispiacesse, tuttavia non ardiva in cosa alcuna contristarlo. Era la contadinella piú baldanzosa che non se le conveniva, ed avendo giá provato con che corno gli uomini vadano a caccia, e sentendo che il vecchio a la lena non reggeva e che di rado poteva cacciare, cosa che a lei punto non piaceva perché averebbe voluto di continuo stare in essercizio, pose gli occhi a dosso al giovine, a ciò che dove il padre mancava, il figliuolo supplisse. Era il giovine assai bello, e a lei pareva pure che fosse di miglior lena che il padre non era, il quale piú tosto la invitava al piacer de la caccia che non le sodisfaceva. Il perché piú di giorno in giorno sovra di lui facendo disegno, di lui senza misura s’accese. Avvenne un dí che, essendo il vecchio fuor di casa, la contadinella, impaziente de l’amore che al giovine portava, il quale alora si vedeva innanzi, parendole d’aver commoditá per far quanto ne l’animo le cadeva, a lui s’accostò e in presenza d’una fantesca sua parente, che in casa aveva fatto venire e a cui ella teneva molta credenza, aperse tutto il suo core, pregandolo molto affettuosamente che di lei volesse aver compassione. La fantesca medesimamente a compiacerle lo essortava. Egli, udendo cosí scelerata domanda, con un mal viso a lei rivolto, le disse la maggior villania che a ribalda femina dir si potesse, minacciandole poi tutte due che, se mai piú di tal poltroneria gli parlavano, egli il tutto direbbe al padre. E con questo si partí di casa, lasciando le due triste femine poco consolate. Ma per questa repulsa non cessò la libidinosa e malvagia femina di stimolarlo: ogni volta che agio n’aveva, con lacrime e focosi sospiri lo pregava e ripregava che di lei volesse aver compassione. Il giovine, che era da bene e costumato, mai non le volle prestar udienza, ed ancor che la minacciasse d’accusarla al padre, non però lo faceva, per non dargli affanno, ma sforzavasi quanto gli era possibile di non lasciarsi trovar solo. Ella, poi che tante e tante volte si vide sprezzata, cangiò l’amore in odio crudelissimo, e con la ribalda fante consegliatasi ed ordinato seco quanto voleva che al vecchio si dicesse, attese un dí che il vecchio a casa se ne veniva, e con gli occhi di lacrime pregni, mostrandosi tutta di mala voglia, in camera in compagnia de la fante se ne stava. Venuto il messere a casa e di lungo in camera entrato, trovò la sua femina tutta di mala voglia e la fante che pareva che volesse piangere. Egli, che piú che se stesso amava la giovane veggendola cosí malinconica, amorevolmente le domandò che cosa ella avesse. La malvagia e traditora giovane, ordita una sua lunga favola, gli diede ad intendere che piú e piú fiate il giovine di lui figliuolo l’aveva richiesta d’amore, ma che ella mai non aveva voluto consentirgli, ma sempre l’aveva sgridato, e che non era mezz’ora che avendola trovata sola in camera l’aveva voluta sforzare, ma che sovragiungendo la fante egli s’era partito. La scelerata fante il tutto con lagrime confermò. Udendo il vecchio questa favola cosí ben ordita, si trovò il piú disperato uomo del mondo, e montò in tanta còlera che quasi non vedeva punto di lume; e da estrema gelosia assalito, si sentiva morire e, farneticando, diceva le maggior pappolate del mondo. Mentre che queste cose in camera si tramavano, avvenne che il figliuolo, del quale si parlava, a casa ritornò e, salita la scala, si pose con un’altra donna di casa sovra un «pontile», come noi chiamiamo, a ragionare. Il che sentendo il padre, che ne la camera al pontile, o sia loggia, vicina era, tutto di mal talento contra il figliuolo inanimato e da la còlera e gelosia messo fuori di sé, udendo tuttavia quelle due streghe che mille ciance gli davano ad intendere, dato di mano ad una spada che al capo del letto teneva, con quella in mano ignuda, bravando e mugghiando come un toro, se n’uscí dicendo: – Ove sei tu, ribaldo? al corpo di Dio, che tu non me ne farai mai piú nessuna! Questa sará pur l’ultima, traditore che tu sei! – Il povero figliuolo, non sapendo che cosa fosse questa, rivolto inverso il padre disse: – Oimè, messer, che vuol dir questo? che romore ci è? – A cui l’insensato vecchio furibondamente rispose: – Ahi ribaldo, tu lo saperai bene sí, traditore, disleale che tu sei! – Il dir le parole e il menargli un gran colpo al diritto de la testa fu tutto uno. Il misero e sfortunato giovine, veggendo la tagliente spada che sibilando sovra il capo gli scendeva, volle, per ischifare il mortal colpo, ritirarsi indietro, e non ricordandosi d’esser sovra la loggia, che parapetto non aveva ed era assai alta, cadde a l’indietro riversone col capo avanti e percosso suso un selce, che in terra grossissimo era, e di modo fu grande la percossa che il capo tutto se gli aperse e il cerebro n’uscí fuori. Onde il misero giovine incontinente morí. Il crudelissimo non padre ma nemico tuttavia con la spada in mano gridando: – Ribaldo, tu non fuggirai oggi da le mie mani! – con molta fretta, pensando il figliuolo esser saltato giú, si pose a smontar le scale. Ma come egli vide il disgraziato suo figliuolo col capo tutto fracassato e lo sparso cerebro che ancora palpitava, fu da sí veemente dolore sovrapreso, che subito l’ira s’ammorzò e la gelosia se ne fuggí via, entrandogli in petto la tenerezza de l’amor paterno, che gli occhi accecati gli allumò e gli fece vedere di quanta ferina sceleraggine egli era stato cagione. Onde, tardi pentito d’aver prestato l’orecchie a la malvagia e sceleratissima femina, da nuovo furore arrabbiato e d’estrema disperazione colmo, ruggendo come un fiero lione e ad alta voce chiamando il nemico de l’umana natura, rivolse in sé la fulminea spada e, con quella passandosi per mezzo il core, sovra il morto ed ancora caldo figliuolo, miseramente esalando l’anima e nel suo e del figliuolo sangue ravvolgendosi, subito morí. La ribalda femina che al basso dietro al vecchio era scesa, veggendo sí crudele ed inaudito spettacolo e da la propria scelerata conscienza stimolata, dubitando de la giustizia, come si può presumere, levatosi da cintola alcune chiavi che v’aveva, e quelle ad una donna di casa, che quivi amaramente piangeva, gettate, andò di fatto, e in un profondissimo pozzo che nel cortile era, con il capo innanzi si gittò e lá dentro si soffocò. Tal fine ebbe la malvagia e rea femina, degna di morte piú crudele e d’essere da’ cani a brano a brano lacerata. Il podestá poi, fatta del caso diligentissima inquisizione e severo essamine, trovando che la ribalda fantesca era complice del tutto, quella vituperosamente fece morire, facendola in quattro quarti, tagliatole prima la testa, squartare, le cui membra fuor di Monza a le forche appese, le quali chi quindi passa manifestamente vede.


Il Bandello a l’illustre signora Ippolita,


marchesa di Scaldasole salute


Accadono spesso certi casi impensati, che inducono molti in grandissimi perigli, e massimamente se l’uomo talora si ritruova tra gli stranieri e non intenda la lingua loro né si sappia far intendere. E ragionandosi di questi accidenti in Milano in casa de la molto illustre e vertuosa signora Ginevra Bentivoglia, moglie de l’illustrissimo signor Galeazzo Sforza signor di Pesaro, ove fu detto d’un soldato italiano che in Bertagna, per non esser inteso né sapendo parlar bertone, fu ferito e in gran periglio de la vita, messer Federico Crivello, giovine nobilissimo e discreto, narrò uno strano accidente avvenuto al signor Girolamo de la Penna, essendo esso Federico in Polonia con l’illustrissimo signor Prospero Colonna. Onde avendolo io scritto, il nostro messer Vincenzo Attellano m’ha pregato per parte vostra ch’io ve ne volessi far copia. Onde essendovi di molto maggior cosa tenuto, non solo di questa novella vi faccio copia, ma quella al vertuoso vostro nome dono e consacro, la quale degnarete umanamente accettare. Ma che prego io? Se voi sète la umanitá istessa e la cortesissima de le piú cortesi, non m’accade dubitare che voi queste mie ciance non riceviate umanissimamente. State sana.