Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XXXVIII

Seconda parte
Novella XXXVIII

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Temeraria presunzione d’uno innamorato, e la morte di quello,


perché strabocchevolmente e senza conseglio si governò.


Voi altri, signori miei, meritevolmente avete commendato il conte Gian Aloise Fiesco, perché nel vero era giovine che lo valeva; ma penso che la piú parte di voi l’abbia lodato, mossa da la chiara fama che di lui e de le sue vertú e singolarissime doti per le bocche delli uomini vola. Ma se voi l’aveste conosciuto com’io familiarmente in diversi affari l’ho praticato, penso che tutto questo giorno non vi sarebbe bastato ad esplicar le debite sue lodi. E se io vorrò entrare a dirle, facil cosa mi fia il cominciare, ma trovarne il fine non so io come agevol mi fosse. Tacerò adunque la creanza sua atta ad ogni grandissima impresa. Tacerò come ancora quasi fanciullo cominciò a meschiarsi negli animi de’ genovesi e imprimer nei cori di ciascuno una infinita espettazione di se stesso. Tacerò quella sua avanti il tempo matura prudenza, che generalmente usava in farsi il popolo di Genova amico ed agumentare la benevoglienza de la nobiltá, di modo che i popolari l’amavano e riverivano, e i nobili l’osservavano, e tutti l’avevano in osservazione. Tacerò il credito e riputazione che appo i paesani de la riviera di Levante e ne le montagne verso il Parmigiano e Piacentino aveva. Tacerò che dai sudditi suoi, ai quali di giustizia in un minimo punto mai non mancava e nei bisogni loro soccorreva, come un Dio era adorato e, da chi seco ne le giurisdizioni confinava, avuto in grandissimo rispetto. Tacerò che i fratelli suoi amava come se stesso, e voleva che a par di lui e vie piú fossero onorati. Tacerò come agli amici si mostrava benevolo, domestico, facile ed aiutore, e come acerbamente l’ingiurie vendicava. Era egli in questo da Cesare, perpetuo dittatore, molto dissimile, il quale nessuna cosa soleva obliarsi giá mai se non le ricevute offese. E perché circa questo l’istoria che io intendo narrare vi dimostrerá quale egli si fosse, io tacerò assai altre sue parti e passerò a dirvi de l’impresa che egli ultima in vita sua ha fatto. Né io per ora voglio disputar se sia bene o male occupar la libertá de la patria, non mi volendo opporre a chi biasima chi l’occupa, né a Giulio Cesare che occupando la republica partorí il romano imperio, e spesse fiate allegava il verso d’Euripide, che se la ragione deve esser violata, si deve violare per cagione d’acquistarsi un dominio. Ci sono perciò che dicono lui non aver occupata la patria, ma esser stato fatto da le leggi e dal popolo dittatore perpetuo, e che non levò i giudizii né sparse il sangue civile, anzi a molti suoi nemici perdonò. Ma tornando al conte Gian Aloise, dico che se si considera l’impresa che egli ha fatto ed in che tempo, che non si può giudicare se non che fosse giovine di grandissimo coraggio, e che deve esser lodato, perché ne le cose grandi aver voluto por mano è ben assai. Egli s’era messo a far questa impresa, essendo Carlo imperadore armato e nel corso de le sue vittorie in Alemagna e signore quasi di tutta Italia, levatone quell’angulo che i veneziani possedono. Egli ha i reami di Napoli e Sicilia e il ducato di Milano in suo potere. Mantova gli guarda in viso e ad ogni suo cenno ubidisce. Ferrara che può far altro che essergli aiutrice? E tanto piú gli sará, quanto che si dice che ha esso imperadore abbassato l’orgoglio di Sassonia, e troncate l’ali a la piú parte di quei prencipi tedeschi, e a sé tirato parte de le cittá franche e messo discordia tra’ svizzeri. Mi direte forse che il papa gli potrebbe far ostacolo: io non veggio che Sua Santitá s’armi, né so che confederati seco siano; e la Chiesa per sé non gli potrá far resistenza, essendo tempo adesso che l’armi spirituali, (a tale siamo venuti), non si temeno quasi piú. In questi adunque tempi, che un giovanetto abbia voluto prender il dominio de la patria dipendente da l’imperadore, arguisce veramente un animo cesareo. E se egli non cadeva in mare, era senza dubio, come si dice, fatto il becco a l’oca, essendosi giá insignorito de le galee e fornito due porte de la cittá. Considerate un poco la capacitá de l’animo suo, che tanta e sí difficile impresa, senza communicarla a nessuno che si sappia, ha molto tempo da sé masticata e a l’ultimo digesta. Non si sa che la sera de la notte che fece l’effetto, che egli agli invitati scoperse in parte l’animo suo, e che dicendogli il da bene e dotto messer Paolo Pansa, che lui e il padre come figliuoli allevati aveva, che cosa voleva fare e che pur assai si meravigliava che non gli scoprisse il fatto, che gli rispose: «Se io credessi che la camiscia sapesse i concetti del mio core, io l’arderei»?. Il che molto innanzi era stato da Catone detto. Non si sa anco che ordinò che a messer Andrea Doria ne la vita non si desse nocumento, dicendo che da lui, come da tutore suo testamentario, aveva ricevuti di molti piaceri? Si sa poi che al conte Girolamo suo fratello non palesò di voler insignorirsi di Genova, ma solamente di volersi vendicare d’un suo nemico, e gli comandò che andasse a la volta di Banchi e quivi aspettasse, ché poi gli manderia a dire ciò che voleva che facesse. Ma è gran cosa che in questa nostra vita umana l’uomo di rado, (o non voglia o non sappia o non possa), sia o in tutto buono o in tutto tristo: ché se pure egli voleva impadronirsi de la patria, deveva levar via tutti gli ostacoli che a farsi signore impedir il potevano o rendergli l’impresa difficile. Ma egli non si può interamente esser perfetto. Tuttavia quanto ha fatto mostra il valore e la magnanimitá del suo core. E se tante parti e doti che in lui erano fossero in un vecchio, sarebbero lodate; molto piú deveno esser in uno giovinetto ammirate e celebrate. Una cosa sola al mio giudicio gli è mancata: che non è stato indovino, e provisto, se moriva, che l’impresa rimanesse ne le mani dei fratelli con la vittoria. Ma egli era uomo e non Dio, e un uomo ne vale mille, e mille non vagliono uno. Ora io mi son lasciato trasportare, non so come, a parlar di questo singolar giovine, e quasi m’era uscito di mente quello che narrarvi aveva promesso. Vi dico adunque che il conte Sinibaldo Fiesco, oltra il conte Gian Aloise e fratelli legitimi, ebbe in una bella gentildonna genovese, sua innamorata, un figliuolo chiamato Cornelio ed una figliuola che si noma Claudia, giovane bella ed aggraziata e di bei costumi ed avvenevole molto. Questa fu assai giovanetta data per moglie a Simone Ravaschiero, figliuolo di messer Manfredi, uomo ricco e dei primi di Chiavari. Fece questo messer Manfredi per due ragioni volentieri questo parentado, sí per aver il favore del conte contra il conte Agostino Lando, col quale piativa la giurisdizione d’un castello a le confini del Piacentino. Fu condotta la sposa a Chiavari, ove le nozze furono fatte convenienti a lo sposo e a lei. Ella, avvezza a quella onesta libertá e leggiadro praticare che in Genova usano le donne maritate e le giovani da marito, viveva molto lietamente, ed usava con tutti una domestichezza affabile e piacevole. Di lei e de le sue belle maniere ed onesti costumi, veggendola bella ed allegra, s’innamorò fieramente Giovan Battista da la Torre, uomo di stima ed assai ricco in Chiavari, e cominciò in ogni luogo ov’ella andava a seguitarla. E perché la vedeva ogni giorno e seco spesso ragionava, ingegnavasi con belle parole il suo amore farle manifesto. Ella che punto melensa non era ma avveduta molto e scaltrita, come egli le ragionava d’amore, burlava con lui e scherzava, ma mai non gli rispondeva a proposito, e di quel ragionamento travarcava in un altro, e gli dava sovente il giambo. Ma il giovine, che altro cercava che chiacchiare e motti, e che averia voluto giocar a le braccia con lei in un letto, attendeva pure a dirle il fatto suo ed apertamente discoprirle in quanta pena viveva, usando di quelle parole che i giovini innamorati a le lor donne costumano di dire. Il che indarno il povero amante faceva, perciò che ella non era disposta a far cosa che egli si volesse, che fosse meno che onesta. Onde egli si trovava molto di mala voglia, e stando le cose in questi termini, e di giorno in giorno quanto piú mancava in lui la speranza di venire a capo di questo suo amore e posseder la cosa amata, piú crescendo il disio, non cessava corteggiarla, e quando in destro gli veniva, si sforzava renderla capace de le pene che diceva sofferire, ancor che ella sempre gli rispondesse d’una maniera: che ella non era per attendere a queste ciance. L’appassionato ed acceso amante, veggendosi andare di male in peggio, ed a le sue fierissime passioni non ritrovando conforto alcuno, viveva in una pessima contentezza e non sapeva che si fare. Ritirarsi da l’impresa e piú non amar colei che fervidissimamente amava, gli era impossibile, ancora che piú e piú volte vi si mettesse, e si sforzasse d’ammorzar le cocenti fiamme che miseramente di continovo lo consumavano. Talvolta nondimeno deliberava tra sé non andare ove ella fosse, piú non le parlare e fuggir quanto piú poteva di vederla. Ma come poi la vedeva, subito le sopite fiamme si riaccendevano, e vie piú che mai de le bellezze de la leggiadra donna invaghiva, e gli pareva pure che la morta speranza s’avvivasse. Ed alterando piú e piú fiate in lui di cotal maniera questo suo amore, e sempre andando di mal in peggio, avvenne che un giorno il marito de la donna per alcuni affari che gli sopravennero, salito suso una barca, se n’andò verso Genova. Il che intendendo Gian Battista, da se stesso consegliatosi, deliberò, avvenissene ciò che si volesse, di veder con inganno ottener quello che per altra via aver non gli era possibile. La deliberazione che si fece fu d’entrar di nascoso in casa de la donna e nascondersi sotto il letto di quella. Né diede indugio al suo inconsiderato pensiero; ma sapendo come stava la casa, entrò in quella, e senza esser da persona veduto, si nascose sotto il letto ove sapeva che la donna dormiva. Venuta la sera e l’ora di corcarsi, madonna Claudia con la sua fante in compagnia entrò in camera e cominciò a dispogliarsi. Essendo ascesa sul letto e volendosi cavare di dosso la camiscia, o che fosse sua usanza di far veder se nessuno era in camera, o che pure alora le ne venisse voglia come presaga di quello che era, comandò a la fante che guardasse che persona in camera non fosse. La fante, veduto per la camera nessuno essere, s’inchinò a mirar sotto il letto e vedutovi uno appiattato, diede un grandissimo grido, e tutta tremante disse: – Oimè, madonna, oimè, che un uomo è sotto il vostro letto ascoso! – Ella che giá spogliata la camiscia s’era, senza altrimenti vestirsela, se la viluppò dinanzi e, saltata fuori del letto, gridando, se ne corse giú ne la camera del mezzano, ne la quale messer Manfredi suo suocero dormiva, e quivi tutta spaventata e tremante si ricoverò. Il romore per la casa si levò grande, e stette ella buona pezza, ed altresí la sua fante, prima che potessero prender lena di parlare, tanto erano sbigottite. Lo sciagurato amante, che scioccamente s’era persuaso di poter senza disturbo giacersi con la donna, come sentí quella fuggire, tutto smarrito, aperta una finestra che guardava in un cortile, da quella che assai alta era saltò in terra e tutto miseramente si contorse e sciancò, e di maniera restò rotto e sciancato che muover non si poteva. Ma un vicino, corso al romore, lo fece portar via, ché altrimenti era ammazzato. Il caso la seguente matina si divolgò per tutto, e messer Manfredi subito per sue lettere e messo a posta ne avvisò il figliuolo che a Genova era. Simone, avuta questa brutta nuova, al conte Gian Aloise a la presenza di molti le lettere del padre lesse. Di questa nuova il conte, fieramente sdegnato, non si poteva dar pace che a sua sorella fosse fatto simil scorno; ma come savio celando l’ira, cominciò a sogghignare e per modo di gabbo a dire: – Questi sono gli trascurati effetti che fanno questi pazzi giovini innamorati, che non pensano al fine de le cose. Gian Battista deveva accordarsi con mia sorella e non andarvi cosí temerariamente. Ma egli ha fatto il peccato e la penitenzia insieme, perché messer Manfredi scrive che se vive resterá tutto de la persona perduto ed attratto, ma che crede che morirá. – Celando adunque il conte lo sdegno contra Gian Battista concetto, fece credere a quelli che presenti erano che del fatto non si curava; ma egli era di dentro d’altra guisa di quella che in viso mostrava. Onde, tutto pieno d’ira e di mal talento, tra sé deliberò che tanta presunzione non restasse impunita. Grandissimi e meravigliosi effetti si veggiono assai sovente nascere da un generoso spirito, quando egli si conosce ingiustamente esser offeso, perché l’irascibile appetito in tal modo lo stimola ed a vendicarsi l’infiamma, che egli non cessa mai, né a modo alcuno s’acqueta fin che non si senta vendicato, ancora che la manifesta rovina sua innanzi gli occhi vedesse. E di questi accidenti tutto il dí se ne veggiono manifesti essempi. Ora come il conte ebbe tra sé la vendetta conchiusa, si fece chiamar Cornelio suo fratello e Simone suo cognato, e disse loro: – Tu hai, Cornelio, inteso lo scorno che quel temerario di Gian Battista da la Torre ha fatto a Claudia nostra sorella, e penso che se averai l’animo che, essendo nato di padre e madre nobilissimi, vuole la ragione che tu debbia avere, che con Simone t’accorderai, e tutti insieme ne farete tal vendetta quale il caso ricerca. Io vi darò due fregate bene ad ordine, con venticinque uomini ben armati e valenti. Voi vi salirete su, e questa notte che viene arrivarete di due o tre ore innanzi l’alba a Chiavari. Entrarete dentro, e non dando indugio a la cosa, anderete a la casa di quello sciagurato e lo taglierete in mille pezzi, come egli s’ha meritato. Fatto questo, vi ritirarete a le nostre castella, ed io al tutto poi provederò. Se ciò che vi commetto non farete, tu, Cornelio, mai piú non mi verrai davanti né ti chiamerai mio fratello, perciò che la prima volta che averai ardire approssimarti a me, vivi sicuro che con le mie mani ti anciderò. E tu, Simone, nol facendo, non ti averò mai per cognato né parente, e meno per amico. – Promisero i dui cognati quanto egli loro comandava. Indi proveduti di quanto bisognava, essendo buon tempo, navigarono verso Chiavari, ed a l’ora assegnata v’aggiunsero. Smontati in terra, andarono a la porta de la terra, e tre di loro, fattisi innanzi, chiamarono le guardie, da le quali fu loro aperto il portello. E in un tratto, calato il picciolo ponte, tutti gli altri vi saltarono su, e minacciando le guardie di morte se gridavano, quelle lasciarono sotto cura d’alcuni loro compagni, che anco guardassero il portello. Poi Cornelio, Simone e il resto subito se n’andarono di lungo a la casa del nemico loro, e con lor ingegni gittata la porta de la casa in terra, in quella entrarono, e trovata la camera, ove il misero Gian Battista tutto rotto e conquassato si giaceva, quello senza pietá ammazzarono ed a brano a brano in mille pezzi divisero. Poi senza esser offesi da nessuno, tutti a man salva di Chiavari uscirono, e secondo l’ordine del conte a le castella di quello, per téma de la Signoria di Genova, si ritirarono. Cotal fine ebbe la trascurata e temeraria presunzione de l’infelice amante, che, senza accordo de la donna né de la fante, volle la sua ventura tentare, e tal la ritrovò quale udito avete. E in effetto, chi fa il conto senza l’oste lo fa due volte.


Il Bandello al reverendo


monsignore Stefano Coniolio


Da che voi andaste in Monferrato a casa vostra, e che madama Fregosa nostra commune padrona andò a la corte del re cristianissimo, io sempre dimorato sono a la solita stanza di Bassens. Qui intesi questi dí come prete Antonio Bartolomeo, chiamato Cascabella, fu imprigionato al vescovado, perché avendo, giá cerca trenta anni sono, presa moglie, e da lei avuti figliuoli, si fece poi ordinar prete, e tuttavia stando con lei, teneva anco una concubina. Vive la moglie, vive il figliuolo legitimo, e vive la concubina con alcuni figliuoli generati dal Cascabella. Mi parve il caso molto strano, né da me piú ne la Chiesa occidentale udito. Ora il misero renderá conto dei casi suoi. Si ritrovarono qui alcuni dei nostri ufficiali, e, varie cose ragionandosi del Cascabella e di molti suoi vizi e maligna natura, messer Bernardo Casanuova disse una novelletta d’un altro prete, avvenuta non è lungo tempo. Onde avendola io scritta, ho voluto mandarvela e farvene un dono, a ciò che sotto il nome vostro si legga in testimonio de la nostra mutua benevoglienza e di tanti piaceri ricevuti da voi. State sano.