Novelle (Bandello)/Quarta parte/Novella XVI

Quarta parte
Novella XVI

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Castigo dato a Isabella Luna meretrice per la inobedenzia


a li commandamenti del governatore di Roma.


Chi sia l’Isabella de la Luna spagnuola, credo che la piú parte di voi lo sappia, avendo ella lungo tempo seguitato per l’Italia e fora l’essercito de l’imperadore, nel quale altre volte molti di noi che qui siamo avemo militato. Ella, tra molte sue taccherelle puttanesche, ha che in ogni azione sua è la piú soperba che trovare si possa. Dopo il discorso suo fatto a’ servigi de li soldati besognosi che volontieri cavalcano per lo piovoso, si ridusse in Roma, ove per l’ordinario attendeva prestare il corpo suo a vettura a chi meglio la pagava. Avenne che, devendo dare a uno mercatante certa somma di danari per robe che da lui prese aveva, andava menandolo in lungo e con parole d’oggi in dimane differendo il pagamento, che volontieri averia scontato con tante vetture del corpo suo. Ma il mercatante, che voleva denari e non la pace di Marcone, non le prestava orecchie, ma la sollicitava che sodisfacesse al debito. Al fatto del pagamento ella faceva sempre il sordo. Il che veggendo il mercatante, e conoscendo che se non usava altri mezzi non era per essere forse mai pagato, andò a trovare il governatore de la cittá di Roma, che era monsignor de’ Rossi vescovo di Pavia; e narratogli il caso suo, ottenne da lui una citazione a l’Isabella, che devesse il tale dí a tale ora comparire personalmente innanzi al tribunale di esso governatore. Andò il sergente de la corte a trovare l’Isabella al di lei alloggiamento, e ritrovò quella su la strada publica, che si interteneva a parlamento con alcuni compagnoni. Diedele il sergente il commandamento, e a bocca ancora, a la presenza di tutti quelli che con lei erano, le commandò che comparisse al determinato tempo, come è la costuma di fare. Ella, che tra l’altre sue notabili parti bestemmia crudelissimamente Iddio e tutti li santi e sante del paradiso, come ebbe in mano la cedula de la citazione, con disdegnoso viso al sergente, tutta piena di còlera e di stizza, disse: – Pesa a Dios, que quiere esto borrachio vigliaco? – Dopoi le parole, vinta da la soverchia còlera, straziò in piú pezzi il papéro de la citazione, e con irreverenza e scherno, a la presenza di tutti gli astanti, cosí sopra le vestimenta, su le parti deretane, come se il corpo purgato avesse, se ne forbí il mal pertugio; e poi la carta cosí lacerata sdegnosamente al sergente restituí, dicendoli che andasse al chiasso. Egli, preso lo straziato papéro, quello presentò al luogotenente del signor governatore, e minutamente li narrò la risposta de l’Isabella e tutti gli atti che quella fatti avea, gabbandosi di lui. Il luogotenente, sentendo tanta enorme temeritá e presonzione di una sfacciata meretrice, riferí il tutto al signore governatore, dimostrandogli essere la presonzione de quella femina uno atto molto importante e di pessimo esempio, in gravissimo dispregio de l’officio, e meritevole di acerbo gastigo, acciò che imparassero gli altri a non incorrere cosí presontuosammente in desprezzare gli officiali del magistrato, e non si fare sí poco conto de li commandamenti di quello. Parve al signor governatore che cotale eccesso non si devesse cosí di liggiero passare, ma che fosse necessario farne alcuna dimostrazione. Tuttavia, pensando la delinquente essere femina e meretrice publica, non volle in tutto usare quella rigidezza e severitá che il caso ricercava. Nondimeno, acciò che impunita la temeraria presonzione de l’Isabella non andasse, la fece dal bargello publicamente pigliare e condurre a le prigioni de la torre di Nona. Esaminata dal giudice, che prima prese il constituto di quella, al tutto rispondeva di modo che pareva che si burlasse e che il fatto non pertenesse a lei. Confessò poi il debito di quei danari che al mercatante era debitrice, e dimandava termine di parecchi mesi a pagarlo. Ma perché l’anno era giá passato che aveva prese le robe, fu condannata a pagarlo intieramente prima che uscisse fore di pregione. E considerando ella che dimorando dentro la prigione la sua bottega grandemente perdeva, non possendo in quello luogo il suo molino macinare ebbe, non so come, modo di pagare il mercatante. Pensando poi essere libera e andarsene a casa senza altra pena, il giudice prononziò contra quella una sentenzia: che dal boia su la publica strada le fossero date su il culo ignudo cinquanta buone stafilate. Publicata la sentenzia, il giorno che si eseguí concorse mezza Roma a cosí nobile spettacolo. Fu da uno gagliardo sergente levata sovra le spalle, e ne la via publica il boia le alzò li panni in capo e le fece mostrare il colliseo a l’aria, e con uno duro stafile cominciò fieramente a percuoterla su le natiche, di modo che il colliseo, che prima monstrava una candidezza assai viva, in poco di ora tutto si tinse in color sanguigno. Ella, avute sí fiere e vergognose battiture, come le furono calate a basso le vestimenta e dal sergente lasciata in libertá, fece come il cane mastino, che, uscendo fora del covile, de la paglia tutto si scuote e se ne va via. Fece ella il medesimo, e ancora che le natiche le dolessero, nondimeno se ne andava verso casa senza monstrare in viso uno minimo segno di vergogna, come se da uno paio de nozze se ne ritornasse.


Il Bandello al valoroso e gentile signore


il signore Gieronimo da la Penna perugino salute


Devete, signor mio, ricordarvi che, essendo voi in letto infermo de febre quartana, io venni a visitarvi; e confortandovi, come si suole fare quando uno visita il suo amico amalato, vi dissi che il male vostro non era mortale, usandosi communemente in vece di proverbio dire: – Quartana non fa sonare campana. – Vi dissi anco che altre volte avea inteso da non so chi, come a l’improviso una subita e grandissima paura fatta a uno quartanario, che senza dubbio quello liberava da essa quartana. Voi mi rispondeste che molto volentieri aveste voluto che una grande e spaventevole paura vi fosse stata fatta, affine che voi rimanessi libero da quello fastidioso male, che ogni quarto giorno sí fieramente con quello cosí freddo tremore e battere di denti vi assaliva e vi tormentava. Ora, essendo io tre o quattro giorni sono nel giardino del nostro gientilissimo signore Lucio Scipione Attellano, vi era anco messer Galasso Ariosto, fratello de l’ingenioso e divino poeta messer Lodovico Ariosto. Esso messer Galasso è continovo ospite del signor Lucio Scipione. Io dissi loro de la vostra molto fastidiosa quartana e quanto insieme avevamo ragionato, Onde a questo proposito esso messer Galasso, a proposito di cacciar via la quartana, ci narrò una istoria. Io subito la descrissi, e descrivendola conchiusi ne l’animo mio che, devendosi mandare fori con l’altre mie, ella arditamente si dimostrasse col vostro nome in fronte. E cosí ve la mando e dono. Attendete a guarire e vivete di me ricordevole. Bene vi prego che al nostro signor Cesare Fieramosca e a messer Giovanni de la Fratta facciate vedere essa istoria, che per essere da me scritta, so che volontieri la leggeranno. Vi dico di novo che attendiate a guarire e vivere allegramente.