Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella XXVI

Prima parte
Novella XXVI

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Il signor Antonio Bologna sposa la duchessa di Malfi


e tutti dui sono ammazzati.


Antonio Bologna napolitano, come molti di voi puotero conoscere, stette in casa del signor Silvio Savello mentre dimorò in Milano. Dopoi partito il signor Silvio, s’accostò con Francesco Acquaviva marchese di Bitonto, che, preso ne la rotta di Ravenna, restò in mano dei francesi prigione nel castello di Milano, e data sicura cauzione uscí di castello e lungo tempo ne la cittá dimorò. Avvenne che il detto marchese pagò grossa taglia e nel regno di Napoli se ne ritornò. Il perché esso Bologna rimase in casa del cavalier Alfonso Vesconte con tre servidori, e per Milano vestiva e cavalcava onoratamente. Egli era gentiluomo molto galante e vertuoso, ed oltra che aveva bella presenza ed era de la sua persona assai prode, fu gentilissimo cavalcatore. Fu anco di buone lettere non mezzanamente ornato e col liuto in mano cantava soavemente. Io so che alcuni qui ci sono che l’udirono un giorno cantare, anzi piú tosto pietosamente cantando pianger lo stato nel qual si trovava, essendo da la signora Ippolita Sforza e Bentivoglia a sonare e cantar astretto. Ora, essendo egli di Francia ritornato, ove continovamente aveva servito l’infelice Federico di Ragona, che cacciato del regno di Napoli s’era ridotto ne le braccia di Lodovico, di questo nome XII re di Francia, e da quello umanamente raccolto, se n’andò il Bologna a Napoli a casa sua ed ivi se ne stava. Egli aveva servito il re Federico per maggiordomo molti anni. Onde, non dopo molto, fu da la duchessa di Malfi, figliuola d’Enrico di Ragona e sorella del cardinal Ragonese, richiesto se voleva servirla per maggiordomo. Egli, che era avvezzo ne le corti e molto divoto a la fazione ragonese, accettò il partito e v’andò. Era la duchessa rimasa vedova molto giovane, e governava un figliuolo, che dal marito aveva generato, insieme con il ducato di Malfi. E ritrovandosi di poca etá, gagliarda e bella, e vivendo dilicatamente, né le parendo ben maritarsi e lasciar il figliuolo sotto altrui governo, si pensò di volersi trovare, s’esser poteva, qualche valoroso amante e con quello goder la sua gioventú. Ella vedeva molti cosí dei suoi sudditi come degli altri che le parevano costumati e gentili, e di tutti minutamente considerando le maniere e i modi non le parve veder nessuno che al suo maggiordomo si agguagliasse, perciò che nel vero egli era bellissimo uomo, grande e ben formato, con belli e leggiadri costumi e con la dote di molte parti vertuose. Onde di lui ardentemente s’innamorò, e di giorno in giorno piú lodandolo e le sue belle maniere commendando, di modo si sentí esser di lui accesa, che senza vederlo e starsi seco non le pareva di poter vivere. Il Bologna, che punto non era scempio né dormiglione, quantunque a tanta altezza non si conoscesse pari, essendosi de l’amor di lei accorto, l’aveva per sí fatto modo nei segreti del core ricevuta, che da ogni altra cura fuor che d’amarla aveva l’animo rimosso. In cotal guisa adunque amando l’un l’altro se ne stavano. Ella da nuovi pensieri sovrapresa, volendo meno offender Iddio che si potesse e ad ogni biasimo che indi devesse nascere chiuder la via, deliberò senza far altrui del suo amor avvisto, non amante del Bologna ma moglie divenire, e tacitamente seco godersi del lor amore fin a tanto ch’a manifestar le nozze fosse astretta. Fatta tra sé questa tal deliberazione, domandò un giorno in camera esso Bologna e seco messasi ad una finestra, come spesso faceva quando con lui de la cura de la casa divisava, a questo modo a dirgli cominciò: – Se io con altra persona che teco, Antonio, parlassi, assai dubiosa sarei di dir quanto di farti palese ho deliberato. Ma perciò che gentiluomo discreto ti conosco e d’alto ingegno da la natura dotato, e sei ne le corti regali d’Alfonso II, di Ferdinando e di Federico miei propinqui nodrito e cresciuto, porto ferma openione e giovami credere che, quando le mie oneste ragioni averai inteso, che meco d’un medesimo parer ti troverai. Ché altrimenti trovandoti, sarei sforzata di pensare che in te non fosse quella perspicacitá d’ingegno che da tutti è giudicato. Io, come tu sai, per la morte de la felice memoria del signor duca mio marito sono assai giovane rimasa vedova e fin qui di tal maniera vivuta che nessuno, quantunque giudicioso ed austero critico, di quanto appartiene a l’onestá mi può, in tanto quanto sia la punta d’un ago, in modo alcuno riprendere. Medesimamente il governo del ducato è da me in modo stato retto, che quando verrá il tempo che il signor mio figliuolo sia in etá di governare, io spero che egli troverá le cose in meglior assetto di quello che il signor duca le lasciò. Che oltra che ho pagati piú di quindici mila ducati di debiti, che quella buona memoria ne le passate guerre aveva fatti, io ho dapoi comprata una baronia in Calavria di buona rendita, e mi ritruovo senza debito d’un tornese, e la casa è ottimamente di quanto bisogna proveduta. Ora, ben che io pensato avessi starmene di continovo in vita vedovile e, come fin qui ho fatto, andarmene di giorno in giorno ora in questa terra, ora in quel castello, ed ora a Napoli passando il tempo, e al governo del ducato attendere, adesso mi pare di dever cangiar proposito e far un’altra vita. Ed in vero giudico esser assai meglio provedermi di marito che far come fanno alcune donne, le quali con offesa di Dio e con eterno biasimo del mondo agli amanti in preda si danno. Io so bene ciò che si dice d’una duchessa di questo regno, ancora che ella ami e sia amata da uno dei primi baroni, e so che m’intendi. Ora ai casi miei tornando, tu vedi che io son giovane e non sono né guercia né sciancata, né ho il viso dei baronzi, ché fra l’altre non possa comparire. Vivo poi ne la dilicatezza che tu ogni giorno vedi, in modo che a mal mio grado mi bisogna agli amorosi pensieri dar luogo. A prender marito ugual di stato al primo, non saprei come farmi, se non volessi prender qualche fanciullo, che come fosse di me fastidito mi cacciasse di letto e vi menasse de le puttane. Ché d’etá a me convenevole non ci è al presente baron nessuno che sia da prender moglie. Il perché, dopo molti discorsi sovra ciò fatti, m’è caduto ne l’animo trovarmi un gentiluomo ben qualificato e quello prendermi per marito. Ma per schifar le mormorazioni del volgo ed altresí per non cader in disgrazia dei signori miei parenti e massimamente di monsignor cardinale mio fratello, vorrei tener la cosa celata fin che venisse occasione che si potesse con men mio pericolo manifestare. Colui che io intenderei pigliar per marito tien di rendita circa mille ducati, ed io de la mia dote, con l’accrescimento che mi fece a la sua morte il signor duca, passo dui mila, oltra i mobili di casa che sono miei. E s’io non potrò tener grado di duchessa, mi contenterò viver da gentildonna. Vorrei mò da te intender ciò che tu me ne consegli. – Antonio, udito questo lungo discorso de la duchessa, non sapeva che si dire, perciò che tenendo per fermo esser da lei amato ed egli amandola non mediocremente, non averebbe voluto che si fosse maritata con speranza di venir a capo di questo suo amore. Stavasi adunque mutolo, tutto in viso cangiato, e invece di rispondere fieramente sospirava. Ella, che i pensieri de l’amante indovinò e non le spiacque conoscere a questo segno che era ferventemente da lui amata, per non tenerlo piú in dispiacere né con l’animo sospeso, in questo modo gli disse: – Antonio, sta di buona voglia e non ti sgomentare, ché, se tu vorrai, io ho deliberato che tu per ogni modo sia mio marito. – A questa voce l’amante rivenne da morte a vita, e con molte parole accomodate lodata l’openion de la duchessa, non per marito, ma per fedelissimo ed umil servidore s’offerse. Assicurati l’uno de l’altro, parlarono assai lungamente, e fatti molti discorsi, diedero ordine d’esser insieme con quel meglior e piú segreto modo che si potesse. Aveva la duchessa una figliuola di colei che l’aveva fin da la culla nodrita, la quale ella giá aveva dei suoi pensieri fatta consapevole. Onde la chiamò, e non v’essendo altri che lor tre, volle a la presenza de la sua cameriera esser dal Bologna per moglie sposata. Il matrimonio loro stette molti anni segreto, nei quali quasi ogni notte insieme dormivano. E durando questa pratica con grandissimo piacer de le parti, la duchessa restò gravida e al tempo partorí un figliuol maschio, e sí bene si seppe governare che nessuno de la corte se n’accorse. Il Bologna fece il bambino con buona cura nodrire e al battesimo lo nomò Federico. Dopo questo, continuando la pratica loro amorosa, ella restò gravida la seconda volta e partorí una bellissima figliuolina. A questo secondo parto non si seppero sí celatamente far le cose che appo molti non fosse noto la duchessa esser stata gravida ed aver partorito. E mormorandosi di questa cosa variamente, il fatto pervenne a l’orecchie dei dui fratelli, cioè del cardinale di Ragona e d’un altro, i quali, avendo inteso la sorella aver partorito, ma non sapendo chi fosse il padre, deliberarono non portar questa vergogna sugli occhi, e con gran diligenza cominciarono con molti mezzi a spiar ogn’atto ed ogni movimento che la duchessa faceva. Essendo ne la corte questo bisbiglio e tutto il dí venendo genti dei fratelli de la duchessa che ad altro non attendevano che a spiar questo fatto, dubitando il Bologna che talvolta la cameriera non manifestasse la cosa com’era, un dí parlando con la duchessa le disse: – Voi sapete, signora mia, il sospetto che i signori vostri fratelli hanno di questo vostro secondo parto e l’estrema diligenza che usano per venirne a cognizion perfetta. Io dubito assai che non abbiano qualche indizio di me e che un giorno non mi facciano uccidere. Voi meglio di me conoscete la natura loro e sapete com’un di loro sa menar le mani. E perché penso che contra voi mai non incrudelirebbero, tengo per fermo che, come mi avessero fatto ammazzare, che altro non saria. Però io ho deliberato andarmene a Napoli, e dato ivi ordine a le cose mie ridurmi in Ancona, ove averò il modo che le mie entrate mi saranno mandate. Io ci starò fin che si veggia che questo sospetto esca di capo ai signori vostri fratelli. Il tempo sará poi quello che ci consiglierá. – Le parole tra lor dui furono assai. A la fine egli con grandissimo dolor de la moglie partí e, come aveva determinato, ordinate le cose sue, e la cura di quelle data un suo cugino germano, in Ancona si ridusse, ove condotta una onorevol casa con onesta famiglia se ne viveva. Egli aveva seco condotti il figliuolo e la figliuola e quelli faceva con gran diligenza nodrire. La duchessa, che era la terza volta rimasta gravida e non poteva soffrire di viver senza il suo caro marito, se ne stava tanto di mala voglia che ella ne era per impazzire. E poi che piú e piú volte ebbe pensato ai casi suoi, dubitando che se questo terzo parto fosse venuto a luce, che i fratelli non l’avessero fatto un male scherzo, deliberò piú tosto, andando a ritrovar il marito, con lui viver privata gentildonna, che senza quello rimaner con titolo di duchessa. Ci saranno poi di quelli che diranno che amore non sia potentissimo. Che amore non sia di estrema possanza, chi sará che voglia dire? Veramente le sue forze sono assai piú maggiori di quello che noi possiamo imaginarci. Non si vede egli che tutto il dí amore fa certi effetti i piú rari e mirabili del mondo e che vince il tutto? Però si suol dire che non si può amar a misura. Ché quando amor vuole, egli fa i regi, i prencipi e gli uomini nobilissimi di vilissime femine divenir non amatori, ma schiavi. Or torniamo a l’istoria nostra e non stiamo a disputare. Poi che la duchessa deliberò d’andar in Ancona a ritrovar il marito, ella l’avvisò segretamente del tutto. Da l’altro canto attese a mandar danari e robe in Ancona il piú che puoté. Divolgò poi che aveva voto d’andar a Loreto. Onde, dato ordine al tutto e lasciata buona cura al governo del figliuolo che deveva restar duca, si mise in camino con onorata e molta compagnia, e con gran salmaria di muli pervenne a Loreto, e fatto cantar una solenne messa ed offerti ricchi doni in quel venerabile e riverendo tempio, pensando tutti di ritornar nel Regno, ella disse ai suoi: – Noi siamo quindici miglia vicini ad Ancona ed intendiamo che ella è antica e bella cittá. Onde sará ben fatto che noi ci andiamo a star un giorno. – Tutti s’accordarono al voler de la duchessa. Il perché, inviata innanzi la salmaria, tutti di brigata presero il camino verso Ancona. Il Bologna, che del tutto era avvisato, aveva onoratissimamente la casa fatto apparare e fatto l’apparecchio per la compagnia, onorevole, lauto e abondante. Egli aveva il palagio in su la strada maestra, di modo che era necessario passargli innanzi la porta. Lo scalco, che era di buon matino venuto per far ordinar il desinare, fu dal Bologna menato in casa e dettogli che egli aveva preparato l’ostello a la signora duchessa. Di che lo scalco si contentò, perciò che, se bene era il Bologna partito di corte, non si sapeva dagli altri la cagione, ed egli era da tutti ben veduto. Il Bologna, quando gli parve tempo, montò a cavallo con una bella brigata di gentiluomini anconitani e andò fuor de la cittá quasi tre miglia ad incontrar la duchessa. Come quei de la duchessa il videro, cominciarono lietamente a dire: – Ecco, signora duchessa, il nostro signor Antonio Bologna; – e tutti gli fecero meravigliosa festa. Egli, smontato e basciate le mani a la sua consorte, l’invitò con la compagnia a casa sua. Ella accettò l’invito ed egli, non giá come moglie ma come sua padrona, a casa la condusse. Quivi, dopo che da tutti si fu desinato, avendo voglia la duchessa di cavarsi la maschera, sapendo che a questo bisognava venire, fatti chiamar tutti i suoi in sala, in questo modo parlò loro: – Tempo è oggimai che io, gentiluomini miei e voi altri servidori, faccia a tutto il mondo manifesto quello che dinanzi a Dio è stato una volta fatto. A me essendo vedova parve di maritarmi e tal marito prendermi quale il mio giudicio s’aveva eletto. Il perché vi dico che sono giá alcuni anni passati che io sposai, a la presenza di questa mia cameriera che è qui, il signor Antonio Bologna che voi vedete, ed egli è mio legitimo marito, e seco, perciò che sua sono, intendo di rimanere. Fin qui io vi sono stata duchessa e padrona e voi mi sète stati fedeli vassalli e servidori. Per l’avvenire attenderete aver buona cura del signor duca mio figliuolo, e a quello come è conveniente sarete fedeli e leali. Queste mie donzelle accompagnarete a Malfi, le cui doti, prima che io partissi del Regno, feci depositare sul banco di Paolo Tolosa, e gli scritti del tutto sono nel monastero di Santo Sebastiano appresso a la madre de le monache. Ché de le donne io altra per adesso meco non voglio che questa mia cameriera. La signora Beatrice, che fin qui è stata mia donna d’onore, come ella sa è del tutto sodisfatta. Nondimeno negli scritti che vi ho detto ella troverá buona provigione per maritar una de le sue figliuole che a casa ha. Se dei servidori ce n’è nessuno che meco voglia restare, egli sará da me ben trattato. Al rimanente, quando sarete a Malfi, il maggiordomo, come è l’ordine consueto, provederá. E per conchiudere, a me piú piace viver privatamente col signor Antonio mio marito che restar duchessa. – Rimase tutta la brigata attonita e smarrita e quasi fuor di sé udendo sí fatti ragionamenti. Ma dopo che ciascuno pur vide che la cosa andava da dovero e che il Bologna aveva fatto venire il figliuolo e la figliuola che ne la duchessa aveva ingenerati, ed ella come suoi e del Bologna figliuoli abbracciati e basciati, tutti s’accordarono ritornar a Malfi, eccetto la cameriera e dui staffieri, che restarono con la lor consueta padrona. Le parole vi furono assai e ciascuno diceva la sua. Si levarono adunque di casa del Bologna e andarono a l’osteria, perciò che nessuno ebbe ardire, per tema del cardinale e del fratello, di restar seco come ebbero intesa la cosa; anzi s’accordarono tra loro che la matina seguente uno dei gentiluomini andasse a Roma per le poste a trovar il cardinale ed avvisarlo del tutto, ove anco era l’altro fratello. E cosí si fece. Gli altri tutti verso il Regno s’inviarono. Rimase adunque la duchessa col suo nuovo marito e seco in grandissima contentezza viveva. Quivi partorí ella, non dopo molti mesi, un altro figliuol maschio, al quale posero nome Alfonso. Mentre che costoro dimoravano in Ancona amandosi piú di giorno in giorno, il cardinal di Ragona con il giá detto suo fratello, che a modo nessuno non volevano sofferire che la sorella loro a simil modo maritata si fosse, fecero tanto col mezzo del cardinal di Mantova, il signor Gismondo Gonzaga che era sotto Giulio II pontefice massimo legato d’Ancona, che il Bologna con la moglie furono dagli anconitani licenziati. Eglino erano stati in Ancona circa sei o sette mesi, ed ancora che il legato instasse per fargli mandar via, erano tante le pratiche che il Bologna faceva che la cosa andò in lungo. Ma conoscendo il Bologna che al fine saria licenziato, per non esser colto a l’improviso, avendo un suo amico a Siena, procurò aver salvocondotto da quella Signoria e l’ebbe di potervi con tutta la famiglia stare. In questo mezzo egli mandò via i figliuoli ed ordinò le cose sue di modo che il dí medesimo che ebbe il comandamento dagli anconitani di partirsi fra quindici giorni, egli con la moglie ed altri suoi montato a cavallo se n’andò a Siena. Il che i dui fratelli Ragonesi intendendo e veggendosi ingannati, ché pensavano a l’improviso còrgli per la via, fecero tanto con Alfonso Petrucci cardinal di Siena, che il signor Borghese fratello del cardinale e capo de la Signoria senese operò che medesimamente da Siena il Bologna fu mandato via. Il perché assai pensando dove si devesse riparare, deliberò con tutta la famiglia andar a Vinegia. Si misero adunque in viaggio caminando per quello dei fiorentini verso Romagna per mettersi in mare e navigar a Vinegia. E giá essendo arrivati su quello di Forlí, s’avvidero di molti cavalli che gli seguitavano, dei quali ne avevano avuto qualche spia. Onde, pieni di paura e poveri di conseglio, non veggendo a la vita loro scampo, piú morti che vivi restarono. Nondimeno spinti dal timore si misero a caminar piú forte che potevano per giungere in una villetta non molto lungi, con speranza lá dentro salvarsi. Era il Bologna suso un caval turco di gran lena e volante corridore, ed aveva messo il primo figliuolo suso un altro buonissimo turco. L’altro figliuolino e la figliuolina erano tutti dui in una lettica. La moglie era suso una buona chinea. Egli col figliuolo si saria di leggero salvato, perciò che erano su buon cavalli, ma l’amore che portava a la moglie non lo lasciava partire. Ella, che credeva fermamente che quelli che venivano non devessero nuocere se non al marito, l’essortava tuttavia piangendo che si salvasse, dicendogli: – Signor mio, andate via, ché i signori miei fratelli a me non faranno male né ai nostri figliuoli; ma se voi ponno avere, incrudeliranno contra voi e vi faranno morire. – E dandoli subito una gran borsa piena di ducati, non faceva altro che pregarlo che fuggisse, ché poi col tempo forse Iddio permetterebbe che i signori suoi fratelli s’acquetassero. Il povero marito, veggendo che quei che lo cacciavano erano tanto propinqui che ordine non v’era che la moglie si potesse salvare, dolente oltra modo, con infinite lagrime da lei prese licenza, e dando degli sproni al turco disse ai suoi che ciascuno attendesse a salvarsi. Il figliuolo, veggendo fuggir il padre a sciolta briglia gagliardamente lo seguiva, di modo che il Bologna con il figliuolo maggiore e quattro servidori che erano ben a cavallo si salvarono, e cambiato il pensiero d’andar verso Vinegia tutti sei a Milano se n’andarono. Quelli che erano venuti per ammazzarlo presero la donna col picciolo figliuolino, con la figliuola e con tutti gli altri. Il primo de la cavalcata, o che cosí avesse commissione dai signori fratelli de la donna, o che pur da se stesso si movesse per far men romore e a ciò che la donna senza gridi caminasse, le disse: – Signora duchessa, i signori vostri fratelli ci hanno mandati per condurvi nel Regno a casa vostra, a ciò che voi ripigliate un’altra volta il governo del signor duca vostro figliuolo e non andiate piú oggi qua, diman lá; ché il signor Antonio Bologna era uomo, poi che di voi fosse restato sazio, per lasciarvi priva d’ogni cosa e andarsene con Dio. State di buon animo e non vi pigliate fastidio di nulla. – Parve che la donna a queste parole assai si acquetasse, e le pareva esser vero ciò che ella diceva che i fratelli contra lei e i figliuoli non incrudelirebono. E con questa credenza andò alcuni dí, fin che pervenne ad uno dei castelli del duca suo figliuolo, ove come furono, ella con i piccioli suoi figliuolini e la cameriera furono sostenute e poste nel maschio de la ròcca. Quivi ciò che di lor quattro avvenisse non si seppe sí tosto. Tutti gli altri furono messi in libertá. Ma la donna con la cameriera e i dui figliuoli, come poi chiaramente si seppe, furono in quel torrione miseramente morti. Lo sfortunato marito ed amante col figliuolo e servidori se ne venne a Milano, ove stette alcuni dí sotto l’ombra del signor Silvio Savello, in quei dí ch’esso signor Silvio assediava i francesi nel castello di Milano per pigliarlo a nome di Massimigliano Sforza, come dapoi per accordio fece. Indi il Savello andò a por l’oste a Crema, ove stette qualche dí. Ed in quel mezzo il Bologna si ridusse col marchese di Bitonto, e partito il marchese restò in casa del signor cavalier Vesconte. Avevano i fratelli di Ragona tanto a Napoli fatto che il fisco entrò nei beni del Bologna. Esso Bologna ad altro non attendeva se non a pacificar essi fratelli, non volendo a modo veruno credere che la moglie e i figliuoli fossero morti. Fu alcuna volta da certi gentiluomini avvertito che egli avvertisse bene ai casi suoi e che in Milano egli non era sicuro. Ma egli a nessuno dava orecchie, ed io credo, per qualche indizio che ne ebbi, che sotto mano, per assicurarlo che non si partisse, gli era data intenzione che riaverebbe la moglie. Di questa vana speranza adunque pieno e d’oggi in dimane essendo divenuto sazio, stette in Milano piú d’un anno. In questo tempo avvenne che un signore di quei del Regno, che aveva genti d’arme nel ducato di Milano, narrò tutta questa istoria al nostro Delio, e di piú gli affermò che aveva commessione di far ammazzar esso Bologna, ma che non voleva diventar beccaio a posta d’altri, e che con buon modo l’aveva fatto avvertire che non gli andasse innanzi, e che di certo la moglie con i figliuoli e la cameriera erano state strangolate. Un giorno essendo Delio con la signora Ippolita Bentivoglia, il Bologna, sonò di liuto e cantò un pietoso capitolo, che egli dei casi suoi aveva composto ed intonato. Quando Delio, che prima non l’aveva conosciuto, seppe colui esser il marito de la duchessa di Malfi, mosso a pietá, lo chiamò in disparte e l’assicurò de la morte de la moglie e che sapeva certo che in Milano erano genti per ammazzarlo. Egli ringraziò Delio e gli disse: – Delio vo sète ingannato, perciò che io ho lettere da Napoli dai miei che il fisco in breve rilascerá il mio, e da Roma anco ho buona speranza che monsignor illustrissimo e reverendissimo mio signore non è piú in tanta còlera, e meno il signor suo fratello, e che io senza fallo riaverò la signora mia consorte. – Delio, conoscendo l’inganno che fatto gli era, disse ciò che a proposito gli parve e lo lasciò. Quelli che cercavano di farlo uccidere, veggendo che l’effetto non succedeva, e che quel signore che aveva le genti d’arme si mostrava freddo in questa impresa, diedero la commissione a un signor di quei di Lombardia, pregandolo caldamente a far ogni cosa per farlo ammazzare. Aveva Delio detto al signor Lucio Scipione Attellano tutta l’istoria fin qui seguita e che voleva metterla in una de le sue novelle, sapendo di certo che il povero Bologna sarebbe ammazzato. Ed essendo in Milano un dí Lucio Scipione e Delio, per iscontro al Monastero maggiore eccoti il Bologna sovra un bellissimo giannetto, che andava a San Francesco a messa, e aveva dui servidori innanzi, dei quali uno aveva un’arme astata in mano e l’altro l’ore de la nostra Donna. Delio alora disse a l’Attellano: – Ecco il Bologna. – Parve a l’Attellano che il Bologna fosse tutto smarrito in viso e disse: – Per Dio egli farebbe meglio a far portar una altra arme d’asta che quello officiolo, essendo in sospetto come è. – Non erano l’Attellano e Delio giunti a San Giacomo che sentirono un gran romore, perciò che, non essendo anco il Bologna arrivato a San Francesco, fu dal capitano Daniele da Bozolo con tre altri compagni ben armati assalito e passato di banda in banda e miserabilmente morto, senza che nessuno gli potesse porger aita. E quelli che l’uccisero a lor bell’agio andarono ove piú loro parve a proposito, non ci essendo chi volesse prendersi cura per via di giusticia di cacciargli.


Il Bandello al molto cortese signore


il signor Ermes Vesconte salute


Infinite volte s’è veduto, letto e udito che amore, quando è in petto giovenile acceso, se non è col freno de la ragione moderato, induce spesso l’uomo a mille disordini e bene spesso a morte. Ed ancor che tutto ’l dí accadino e si sappiano simili essempi, non resta perciò che la gioventú dietro ai sensi sviata, col fuggir la ragione, non segua quasi di continovo a volanti passi il cieco appetito. Tuttavia, perciò che non può se non giovar la frequente dimostrazione dei mali e scandali che fa questo fallacissimo e lusinghiero amore quando è mal regolato, ho voluto un notabile accidente, che non è molto in Ispagna è avvenuto, scrivere, il quale questi dí fu narrato dal signor Girolamo de la Penna perugino a la presenza del molto valoroso signore il signor Prospero Colonna, alora che dopo la rotta de la Bicocca egli era tornato a Milano. Ed in questa novella non solamente si vedrá ciò che io ve n’ho detto, ma ancora apparirá chiaro quante fiate le donne nei lor sospetti ed imaginarie openioni s’ingannino; le quali il piú de le volte, come si ficcano una fantasia nel capo, sono ostinatissime e ritrose, e a patto nessuno depor non la vogliono, e ben che conoscano il lor manifesto errore, non cessano di perseverare ne le cattive impressioni; il che spesso è cagione di grandissime rovine. Ora, perciò che voi non eravate al principio de la narrazione di detta novella, ma veniste che giá piú di mezza era stata detta, m’avete, mercé de la cortesia ed umanitá vostra, potendomi comandare, pregato che io ve ne volessi far copia per poterla leggere e poi ritornarmela. Eccovela adunque, signor mio, qual fu recitata, ch’io ve la dono tale, e vi supplico che non vi sdegnate ancor che il dono sia picciolo di accettarlo. Vi piacerá poi farla leggere al vostro da me riverito e da tutta Lombardia amato ed onorato, il signor Francesco vostro maggior fratello, a ciò che egli veggia che tutte le donne non sono d’un temperamento, ma sono come ha fatto la natura nei suoi parti, che sempre non gli fa tutti buoni. Né perché ci sia talora una malvagia femina si vogliono l’altre sprezzare; anzi per una buona, ché molte ce ne sono, deveno tutte l’altre esser dagli uomini sempre onorate e riverite, perciò ch’io porto ferma openione che mai non sia lecito contra le donne incrudelire. Ma io non voglio adesso entrar in questo profondo abisso. Solo dico che quanto piú un uomo onora una donna, tanto piú mostra egli esser nobile e degno d’ogni onore. State sano.