Memorie inutili/Parte prima/Capitolo IX

Capitolo IX

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CAPITOLO IX

Fatterelli, osservazioncelle, riflessetti, inette moralitá

e ciarle che annoieranno.

Poche faccende avevano le milizie in quelle provincie, e il mio sonetto in lode della pace andava a pennello. Alcuni casi, molti viaggi tennero occupati il mio cervello, gli occhi miei, la mia curiositá taciturna; e cinguetto alquanto sopra a questi fogli esaminando la mia memoria.

Erano state chiamate le truppe regolate in Italia che presidiavano le fortezze della Dalmazia, per la neutralitá che correva nel nostro serenissimo governo, nelle guerre accese in quel tempo tra le estere potenze.

L’augusto veneto senato aveva commesso al nostro provveditor generale di levare delle nuove milizie di que’ sudditi, per le necessarie guernigioni nella Dalmazia, non solo, ma per inviare in Italia un grosso numero di morlacchi.

L’arruolare per i presídi delle fortezze illiriche fu cosa facile; ma lo spedire il grosso numero di morlacchi in Italia non fu piccolo studio dell’E. S.

Quelle fiere facinorose senza la menoma educazione, intendono d’esser suddite e vorrebbero conciliare però la sudditanza col poter rubare e assassinare a lor senno, col ricusare d’obbedire in tutto ciò che lor non accomoda, e la ragione è per quelli un favellare sotto voce a de’ sordi. L’unirsi in un collettizio comandato, l’abbandonare le tane loro per passare in Italia, era cosa da coloro ricusata come se fosse ricusabile.

I loro capi, educati, bravi e fedeli al principe, sudarono assai e convenne richiamare i banditi, che per i frequenti misfatti di ruberie, omicidi, incendi ed altri simili eroismi, sono sempre innumerabili in que’ territori, e fu necessario in aggiunta [p. 69 modifica]promettere a que’ villici selvaggi ostinati delle paghe anticipate, per indurli al passaggio del mare e a lasciarsi condurre in Italia.

Fui presente alla rassegna di quella specie d’antropofaghi, che fu data alla marina della cittá di Zara innanzi al provveditore generale con de’ pronti navigli parati alla vela per l’imbarco di quelle belve.

Ad ogni paio di que’ lestrigoni rassegnati si dispensavano le paghe anticipate promesse, e quelli, per mostrare della contentezza, abbaiavano una non so quale loro canzone, facevano de’ strani balletti presi per mano dinanzi all’E. S. e passavano nel naviglio.

Venerai la creazione anche in que’ barbari, ma commiserai l’educazione, ed ebbi un passeggero desiderio di penetrare colla vista nel paradiso per vedere come campeggino in quel luogo di eterna beatitudine i morlacchi.

È certo che le piazze d’Italia possedute dal nostro clemente Governo, furono piú disturbate che presidiate da que’ brutali. Seguivano, specialmente in Verona, senza dar retta a’ comandi della disciplina e della subordinazione, i loro sistemi di ruberie, d’assassini, di violenze, di tumulti e di pertinace disobbedienza; e pochi mesi dopo furono rimandati alle loro caverne per liberare l’Italia veneta da una intollerabile vessazione.

Dovevano ripassare la rassegna nella capitale della Dalmazia per obbedienza e per essere congedati. Non vollero intendere ordini o precetti, e scoperte dal mare le prime terre illiriche, pretesero di sbarcare da’ navili. I nocchieri si opposero; ma, essendo vicini ad essere tagliati a pezzi per fedeltá, presero terra disperatamente e aprirono le stalle a quegl’indomiti montoni.

Questa narrazione non ha che fare colle memorie della mia vita, e potrebbe anche destare il sospetto ch’io abbia voluto porre in disegno di cattivo ritratto i popoli de’ villaggi della Dalmazia.

Convien sofferire qualche mia osservazione, e i valenti uomini onorati capi di que’ territori, sempre in susta con que’ bestiali irragionevoli, mi giustificheranno nel resto.

Ho vedute tutte le fortezze, molte terre e molti villaggi di quelle provincie. In parecchie cittá trovai delle persone educate, [p. 70 modifica]di buona fede, cordiali e liberali. Nelle piú lontane dalla corte del provveditor generale, de’ costumi rozzi e barbari. I villici sono tutti fiere crudeli, superstiziose, insensibili alla ragione. Conservano ne’ loro matrimoni, ne’ loro mortuori, ne’ loro giuochi, gli usi degli antichi gentili perfettamente. Chi legge Omero e Virgilio trova l’immagine de’ morlacchi.

Essi pagano una truppa di femmine perché piangano sui cadaveri de’ morti loro, le quali femmine si danno il cambio per dar riposo alle trachee spossate e rese fioche da certi lugubri ululati d’una musica che mette spavento.

Uno de’ loro giuochi è il levare alto, appoggiato alla palma della destra mano, un pezzo di marmo d’un peso enorme, e lo scagliarlo dopo tre o quattro salti. Colui che lo scaglia a dritta linea e piú lontano, ha vinto il giuoco. Ciò ricorda i pezzi di massi pesantissimi che scagliavano a’ loro nimici Diomede e Turno.

Ne’ nidi loro i morlacchi sono valenti e utili al principato in occasione di guerra co’ turchi confinanti, verso a’ quali conservano una cordiale antipatia. Ne’ territori litorali, gli abitanti sono atti ad essere marinai, temerari abbastanza e risoluti combattitori sull’onde. Verso al Montenegro, sono ancora piú barbari i popoli. Quelle famiglie, i cui ascendenti e discendenti morirono pacificamente sui loro letti o canili e non vantano qualche buon numero d’ammazzati in esse, sono guardate con occhio di disprezzo dalle altre.

Sulla spiaggia fuori della citta di Budua, dove un drappello di que’ nostri simili calano spesso la state dalle montagne per godere l’aere che spira dal mare, vidi fare le archibugiate e rimanere tre cadaveri sulla sabbia.

Uno di quelli delle famiglie d’una lunga serie morta pacificamente, rimproverato da un altro di quella vergogna, volle troncare il rossore a’ suoi posteri e incominciare i loro trofei dal farsi ammazzare ammazzando.

Le zuffe e le archibugiate tra villaggio e villaggio in que’ contorni sono frequenti. Quelli d’un villaggio che uccidono un uomo d’altro villaggio, non hanno mai la pace che al prezzo di cento zecchini o a quello d’una testa d’un uomo del villaggio loro; [p. 71 modifica]tariffa stabilita senza intervento di principe tra quelle genti dalla bestialitá considerata equitá. Ebbi molte di queste erudizioni di tratti umani da un ecclesiastico d’un villaggio del Montenero, che mi teneva conversazione quasi ogni giorno sulla spiaggia di Budua. Egli parlava un gergone italiano, narrava gli omicidi de’ suoi villici con occhio di compiacenza, e lasciava intendere che il fucile stava meglio nelle sue mani de’ sacri arredi.

La sete della vendetta non è ivi estinguibile, e passa di erede in erede come un legale fideicommisso.

Tra i morlacchi, meno fieri de’ montenegrini, vidi una femmina di circa cinquant’anni prostrarsi dinanzi al provveditore generale, trarre da un carniere un teschio arsiccio, deporlo a’ di lui piedi, piagnere dirottamente e chiedere altamente misericordia e giustizia.

Erano scorsi trent’anni ch’ella conservava quel teschio di sua madre, ch’era stata uccisa. Gli uccisori erano giá stati puniti; ma perché la punizione non aveva appagato il genio truce di quella affettuosa figlia, istancabilmente, per il corso di trent’anni era comparsa alle piante di tutti i provveditori generali eletti pro tempore in quelle provincie, col medesimo teschio materno, colle medesime strida e lagrime caldissime, a chieder giustizia.

Mi piacque vedere le femmine dette montenegrine. Esse vestono di lana nera in un modo certamente non suggerito dalla lussuria. Hanno le chiome divise e cadenti giú per le guancie e per le spalle, impastricciate di butirro per modo che formano una specie di berrettone lucido.

Tutte le maggiori fatiche delle campagne e dell’abitazione sono lor debito. Sono mogli e vere schiave degli uomini. S’inginocchiano e baciano loro la mano ogni volta che gli incontrano, e tuttavia mostrano contentezza del loro stato.

Sarebbe necessario che alcuni montenegrini venissero a temperare alquanto il costume tra noi un po’ troppo differente.

Il clima di quelle provincie fa gli uomini e le femmine libidinosissimi, e i legislatori che conobbero essere impossibile in que’ paesi il frenare la furia della libidine, hanno stabilita una tariffa sulla deflorazione d’una vergine morlacca poco [p. 72 modifica]maggiore della paga che vien data da un vizioso liberale a Venezia ad una mercantessa da peccati di pian terreno.

Nelle cittá, in quel tempo, esisteva ancora dell’antica rigidezza e austeritá negli uomini verso il loro bel sesso; ma questo bel sesso, che non era esente dalle inclinazioni della natura né dagli effetti del clima, conciliava i riguardi co’ stimoli, e il velo della notte aiutava un’infinitá di garbugli felici alla barba della severitá.

Gl’italiani eruditi e filosofi, che seguono la corte de’ nuovi eletti provveditori generali di tre in tre anni, e gli uffiziali della erudita e illuminata nazione medesima che vengono cambiati e sostituiti nelle guarnigioni, avranno forse sin ora, colla loro scienza attiva, scemati i perigli e fugata la nebbia de’ pregiudizi.

Nella Dalmazia ci sono delle belle femmine, che pendono, la maggior parte, alla robustezza maschile, e tra le morlacche de’ villaggi que’ Pigmaleoni che volessero consumare qualche staio di sabbia nel ripulirle, averebbero de’ bei simulacri animati.

Le donne illiriche sono meno fedeli in amore delle donne italiane; ma nella infedeltá hanno minor colpa quelle di queste.

Quelle sono accecate e sforzate dal loro temperamento ardente, dall’effetto del clima, dalla lor povertá, e sedotte facilmente dalla loro credulitá a mancare di fede; queste mancano di fedeltá per ambizione, per avarizia e per capriccio, agli amanti.

Siccome gli amori miei essenziali cominciarono nella Dalmazia ne’ diciott’anni circa dell’etá mia, e terminarono nell’Italia in su’ venticinqu’anni circa di cotesta mia etá, cosí mi considero in grado di poter dare francamente il sopra accennato parere. Riservo ad un capitolo separato le memorie de’ miei affetti e di ciò che appresi amando degl’idoletti adorati.

I terreni di quelle provincie sono in gran parte montuosi, sassosi e sterili. Vi sono però delle vaste campagne che potrebbero essere fertilissime. Non sono coltivati e lavorati, né i sterili né i fertili, e restano quasi tutti maggesi e infruttuosi.

I cibi prediletti e piú delicati de’ morlacchi sono gli agli e le cipolle. Fanno un indicibile consumo annualmente di que’ due generi. Potrebbero introdurre ne’ loro terreni una ricolta ubertosa di tali due prodotti; ma essi attendono dalla Romagna gli [p. 73 modifica]agli e le cipolle per comperarli. Rimproverati e corretti di questa dannosa inerzia, rispondono che i loro antenati non piantarono agli e cipolle, e che non alterano la direzione degli avi loro.

Chiesi ragione a delle persone piú colte di que’ paesi della generale indolenza poltrona rurale della Dalmazia. Mi si rispose essere impossibile, senza pericolo della vita, obbligare i morlacchi a far piú di quello che fanno, o a introdurre la piú picciola novitá per riformare i loro campestri lavori. Dissi che i padroni delle terre potevano chiamare degli agricoltori italiani e far divenire una Puglia quelle campagne. Vidi ridere sgangheratamente i confabulatori sul mio progetto, e chiedendo il perché di quelle risa, mi risposero che molti signori dalmatini s’erano provati a far venire de’ villani industri dall’Italia, e che pochi giorni dopo il loro arrivo furono trovati uccisi per la campagna, senza poter rinvenire i colpevoli della lor morte. Mi persuasi tosto d’essere un cattivo progettante, e mi maravigliai che que’ signori ridessero e non piangessero a darmi quelle notizie.

Amo troppo i due fratelli Arduini e gli altri nostri bravi studenti d’agricoltura per consigliarli ad andare tra i morlacchi a rendere ubertose ed utili le campagne di quelle due provincie; le quali per esser frontiere ad un possente comune nimico e confinanti, costano all’erario del nostro principe molto piú di quello che rendono.

Non ebbi giammai la temeritá di voler penetrare, e specialmente di discorrere sulle viste e sulle ragioni politiche, ed è forse bene che quelle provincie rimangano nella loro sterilitá.

Il mio predicare, scrivere, stampare e provare che la prima indispensabile agricoltura dovrebb’essere sulle teste e sui cuori de’ popoli, per avere di conseguenza de’ buoni effetti nella sommissione, nella subordinazione, nella coltivazione, nelle arti e nella fedeltá, ha fatti molti progettanti collerici contro di me. Questi interpretano per mordaci satire tutte le veritá evangeliche, se sospettano in esse un’ombra avversa alle mire di particolare interesse o di particolare ambizione o passione particolare che hanno. [p. 74 modifica]

Le veraci sciagure da me contemplate e riferite della Dalmazia, non tralasciando quella che i padroni delle tenute e de’ poderi devono contentarsi di piccolissima porzione de’ prodotti anche avanzati da’ furti de’ villici coltivatori, dovrebbero provare per incontrastabili le mie proposizioni sull’educazione morale e calmare la ingiusta bile sul mio carattere de’ falsi interpreti. A questi, senza abbassarsi al cruccio, dovrebbe bastare il dire con aria di grandezza e di disprezzo, in linguaggio francese per avere maggior credito: Ce soni dès bagateles morales.

Ho mangiato nel mio triennio dalmatino a vilissimo prezzo del gran salvaggiume e degli ottimi grandissimi pesci, spesso contro voglia e per cogliere una congiuntura propizia presentata dall’accidente.

Rade volte la necessitá trova di che provvedersi. Gli abitanti de’ scogli, che sono i pescatori, pescano quando vien loro la brama di pescare. Non badano a vigilie e portano quasi sempre molto pesce in vendita nei giorni che si mangia la carne; e ciò che non vidi altrove è che recano il pesce a vendere calcato entro a delle sacca.

Potrei narrare una lunga serie d’altre mie osservazioni fatte da me in que’ paesi, ma temo d’allontanarmi di troppo dalle memorie della mia vita, e sono piú contento della noia che ho data, di quelli che l’hanno avuta.

Molti avranno giá scritte e stampate relazioni di maggior conseguenza, e l’abate Alberto Fortis, uomo di vasto intelletto, d’ardire eguale ed istancabile nelle osservazioni e scoperte dette solide ed utili, ha fatte negli abitanti, ne’ mari, ne’ monti, ne’ laghi, ne’ fiumi e nelle campagne di quelle provincie delle scoperte utilissime e considerabilissime. Sono stampate e ognuno può leggerle e crederle, come l’hanno lette e credute degli altri.

Mi fu detto ch’egli abbia inventariate delle gran maraviglie e progettate delle maniere di prodotti e di barili di merci, che si possono trarre da quel pezzo di mondo, ch’egli giudica abbandonato in una stomachevole trascuratezza.

Tali progetti hanno un’effigie vezzosa, che piace a parecchi innamorati della novitá delle scoperte, e non importa che sieno [p. 75 modifica]in gran parte falsi e in gran parte non eseguibili, perocché in ogni etá v’è una scienza dettata da un fantasma detto «moda», il quale si è sempre divertito sull’umana volubilitá, sull’umana aviditá, sull’umano capriccio.

I viventi dell’etá nostra si persuadono e s’allegrano facilmente, ad un semplice fantastico disegno dell’opulenza, del lucro e degli agi de’ nostri corpi, passando sopravia a tutto ciò che giova agli spiriti e a’ cuori per fermarli ne’ limiti della temperanza, della moderazione, della veritá e del dovere.

È una favoletta il dire che, senza il balsamo della educazione morale, l’opulenza e gli agi sono soltanto veduti da chi non li possiede in chi li possiede e guardati con occhio d’invidia, di rancore e coll’animo di pirata; e che chi gli ha in possesso non vede e non crede giammai di possederli, facendo un vergognoso abuso di quelli.

Non credo che l’abate Fortis, del di cui intelletto si deve avere molta stima, si sia degnato di ricordare, che per ridurre la Dalmazia e l’Albania veneta a tutto quel bene che potrebbero dare coll’industria, sarebbe necessario incominciare dallo spargere poco a poco con insistenza sul costume e sul pensare un’efficace buona morale, che apparecchiasse i cervelli, gli animi e i cuori alla ragione e all’obbedienza.

Con questo studio preliminare e indefesso, dopo il corso d’un secolo e mezzo, si potrebbe forse verificare la decima parte de’ lusinghieri progetti.

I miei riflessi sull’educazione, sul costume e sulla morale, saranno sempre minuzie ridicole allo sguardo de’ progettanti sorgenti di corporali dovizie, i quali, piuttosto di trovare ostacoli in una guasta morale alle loro mire, che per lo piú non oltrepassano i loro individui, s’ingegnano a provare che la cattiva morale è l’ottima. Le lor prove non sono che sofismi, ma sono comode, e per ciò persuadono facilmente; e gli ostacoli miei non sono che frivolezze indegne d’occupare la mente de’ grand’uomini: ond’io ripiglio le memorie della mia vita piú frivole e piú indifferenti.