II - L’orgoglio della scienza

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II - L’orgoglio della scienza
I III
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II.


L’orgoglio della scienza.


La severità del mercante ginevrino nei negozi è divenuta proverbiale. Egli è d’una rigida probità e d’una eccessiva rettitudine. Pensate qual dovesse essere l’onta di mastro Zaccaria quando vide gli orologi che egli aveva montato con sì gran sollecitudine, ritornargli da tutte le parti.

Ora era certo che questi orologi si arrestavano d’improvviso e senza alcuna ragione apparente. Le ruote erano in buon stato e perfettamente in ordine, ma le molle avevan perduto ogni elasticità. Invano l’orologiaio tentò sostituirle, le ruote stavano immobili. Codesti guasti inesplicabili fecero gran torto a mastro Zaccaria. Le sue magnifiche invenzioni avevano più d’una volta svegliato sospetti di stregoneria che quindi innanzi ripigliarono consistenza. Ne giunse la voce fino a Geranda, la quale tremò spesso per il babbo, quando sguardi mal intenzionati si fissavano sopra di lui. Nondimeno al domani di quella notte d’angoscia, mastro Zaccaria parve rimettersi al [p. 78 modifica]lavoro con una certa confidenza. Il sole del mattino gli ridonava un po’ di coraggio, Aubert non tardò a raggiungerlo nell’officina e ne ricevette un buon giorno pieno di affabilità.

«Sto meglio, disse il vecchio orologiaio. Non so qual bizzarro mal di capo m’avessi ieri, ma il sole ha cacciato tutto, insieme coi nugoli della notte.

— In fede mia, padrone, a me non piace la notte, nè per voi nè per me.

— Ed hai ragione, Aubert; se mai tu diventerai un uomo superiore, comprenderai che la luce ti è necessaria come il pane! Uno scienziato di gran merito deve sè stesso agli omaggi del resto degli uomini.

— Maestro, ecco il peccato d’orgoglio che vi ripiglia.

— Orgoglio, Aubert! distruggi il mio passato, annulla il mio presente, dissipa il mio avvenire ed allora mi sarà concesso di vivere nell’oscurità. Povero giovane, che non comprendi le sublimi cose alle quali si connette tutta la mia arte. Non sei tu dunque altro che uno strumento in mie mani?

— Pure, mastro Zaccaria, rispose Aubert, io ho più d’una volta meritato i vostri complimenti per il modo con cui accomodavo i pezzi più delicati dei vostri orologi?

— Senza dubbio, Aubert, rispose mastro Zaccaria, tu sei un buon operaio a cui voglio bene; ma quando tu lavori non credi di aver fra le dita altro che ottone, oro ed argento, e non senti codesti metalli, che il mio genio anima, palpitare come carni vive! E perciò tu non morrai della morte delle tue opere.

Mastro Zaccaria stette silenzioso dopo queste parole, ma Aubert cercò di ripigliare la conversazione.

«In fede mia! padrone, disse egli, mi piace vedervi lavorare così senza riposo! Voi sarete pronto per la festa della nostra corporazione, giacchè vedo che il lavoro di questo orologio di cristallo procede spedito.

— Senza dubbio, Aubert, esclamò il vecchio orologiaio, e non sarà picciolo onore per me l’aver potuto tagliare e modellare questa materia che ha la durezza del diamante. Ah! [p. 79 modifica]Luigi Berghem m’ha fatto servigio perfezionando l’arte di lavorar le pietre dure; così ho potuto pulire e forare queste!

Mastro Zaccaria così dicendo teneva in mano pezzi d’orologeria di cristallo tagliato e di lavoro squisito. Le ruote, i perni, il tamburo erano della medesima materia, ed in quel lavoro di massima difficoltà aveva dato prova d’un talento da non dirsi.

— Non è vero, soggiunse egli facendosi di porpora in volto, non è vero che sarà bello veder palpitare questo orologio attraverso il suo invoglio trasparente, e poter contare i battiti del suo cuore?

— Scommetto, padrone, rispose il giovane operaio, che non varierà d’un secondo all’anno.

— E scommetteresti a colpo sicuro! Non ho io forse messo là dentro il meglio di me medesimo? E forse che il mio cuore varia?

Aubert non osò levare gli occhi in volto al maestro.

«Parlami schietto, soggiunse melanconicamente il vecchio, non m’hai tu preso mai per un pazzo? Non mi credi tu talvolta in balia delle più disastrose mattezze? Sì, non è vero? Negli occhi di mia figlia e ne’ tuoi io ho letto spesso la mia condanna! Oh! esclamò dolorosamente, non essere nemmeno compreso dagli esseri che più si amano al mondo! ma a te Aubert, proverò vittoriosamente che ho ragione. Non crollare il capo, perchè sarai stupefatto. Il giorno in cui tu saprai ascoltarmi e comprendermi, vedrai che ho scoperto i segreti dell’esistenza, i segreti dell’unione misteriosa dell’anima e del corpo.

Così parlando, mastro Zaccaria si mostrava superbamente fiero. Gli brillavano gli occhi d’un fuoco soprannaturale e l’orgoglio gli scorreva abbondante nelle vene. In vero se mai vanità avesse potuto essere legittima, sarebbe stata quella di mastro Zaccaria. In fatti l’orologeria, infino a lui, era rimasta quasi nell’infanzia dell’arte. Dal giorno in cui Platone (400 anni prima dell’èra cristiana) inventò l’orologio notturno, specie di clepsidra che indicava le ore della notte col suono d’un flauto, [p. 80 modifica]la scienza rimase quasi stazionaria. I maestri lavorarono meglio negli ornamenti che nella meccanica, e fu il tempo dei begli orologi di ferro, di ottone, di legno, d’argento, scolpiti finamente come un vasoio di Benvenuto Cellini. Si aveva un capolavoro di cesello che misurava il tempo molto imperfettamente, ma si era paghi di aver un capolavoro.

Quando l’immaginazione dell’artista non si volse più alla perfezione plastica, s’ingegnò a creare quegli orologi a personaggi mobili, a sonerie melodiche regolate in molte piacevoli maniere; ma chi allora si dava pensiero di regolare il movimento del tempo? I termini di dritto non erano inventati, le scienze fisiche ed astronomiche non stabilivano i loro calcoli sopra misure scrupolosamente esatte; non vi erano nè stabilimenti che chiudessero ad ora fissa, nè convogli che partissero al minuto preciso; alla sera si suonava il coprifoco e nella notte si gridavan le ore nel silenzio. Certo si viveva meno, se l’esistenza si misura dalla quantità dei negozi fatti, ma si viveva meglio. Lo spirito si arricchiva di quei nobili sentimenti nati dalla contemplazione dei capilavori e l’arte non andava di corsa. Si costruiva una chiesa in due secoli; un pittore non faceva che pochi quadri in tutta la vita; un poeta non componeva che un’opera eminente, ma erano altrettanti capilavori destinati alla stima dei secoli.

Quando le scienze esatte fecero finalmente dei progressi, l’orologeria seguì il loro movimento, benchè fosse sempre arrestata da una insuperabile difficoltà, la misura regolare e continua del tempo.

Ora fu in mezzo a quello stagnamento che mastro Zaccaria inventò lo scappamento il quale permise di ottenere una regolarità matematica, assoggettando il movimento del pendolo ad una forza costante. Quest’invenzione aveva fatto girar la testa al vecchio orologiaio. L’orgoglio, salendogli al cuore come il mercurio nel termometro, aveva raggiunto la temperatura delle follie trascendenti. Per analogia, egli si era lasciato andare a conseguenze materialistiche, e fabbricando i suoi orologi, immaginava di aver colto il segreto dell’unione dell’anima col corpo. [p. 81 modifica]

E però in quel giorno, vedendo che Aubert lo ascoltava attento, gli disse con accento d’uomo convinto:

«Sai tu che cosa è la vita, fanciullo mio? Hai tu compreso l’azione delle molle che producono l’esistenza? Hai tu guardato entro di te medesimo? No, eppure cogli occhi della scienza avresti visto il rapporto intimo che esiste tra l’opera di Dio e la mia, poichè è dalla sua creatura che io ho copiato la combinazione delle ruote de’ miei orologi.

— Maestro, rispose vivamente Aubert, potete voi paragonare una macchina d’ottone o d’acciaio a quel soffio di Dio, chiamato anima, che avviva i corpi, come la brezza comunica il moto ai fiori? Possono forse esistere ruote impercettibili che facciano muovere le nostre gambe e le nostre braccia? E qual meccanismo potrebbe generare in noi il pensiero?

— Non è questa la quistione, rispose dolcemente mastra Zaccaria, coll’ostinazione del cieco che cammina verso il precipizio; per comprendermi ricordati lo scopo dello scappamento da me inventato. Quando ho visto l’irregolarità degli orologi, ho compreso che il movimento chiuso in essi non bastava e che bisognava sottommetterlo alla regolarità d’un’altra forza indipendente. E pensai che il bilanciere potesse rendermi questo servigio, dove riuscissi a regolarne le oscillazioni. Ora non la fu forse un’idea sublime questa di fargli restituire la forza perduta, col movimento medesimo dell’orologio che era incaricato di regolare?

Aubert fece cenno di sì.

«Ora, Aubert, proseguì il vecchio orologiaio accalorandosi, volgi uno sguardo sopra te stesso, non comprendi tu che vi hanno due forze distinte in noi, quella dell’anima e quella del corpo, vale a dire un movimento ed un regolatore? L’anima è il principio della vita: dunque è il movimento. Sia prodotto da un peso, da una molla o dalla influenza immateriale, risiede sempre nel cuore. Ma senza il corpo, questo movimento sarebbe disuguale, irregolare, impossibile! Onde il corpo viene a regolare l’anima, e, come il bilanciere, è soggetto ad oscillazioni regolari. E ciò è tanto vero, che si sta male [p. 82 modifica]quando il bere, il mangiare, il sonno, in una parola le funzioni del corpo non sono convenientemente regolate. Allo stesso modo che ne’ miei orologi, l’anima rende al corpo la forza perduta dalle sue oscillazioni. Ebbene, chi produce adunque quest’unione intima del corpo e dell’anima se non uno scappamento meraviglioso, per il quale le ruote dell’uno vengono ad ingranarsi nelle ruote dell’altro? Or ecco ciò che io ho indovinato, applicato, e per me non v’hanno più segreti in questa vita, che dopo tutto non è se non un’ingegnosa meccanica.

Mastro Zaccaria era sublime in questa allucinazione, che lo trasportava fino agli ultimi misteri dell’infinito. Ma la sua figliola Geranda, ferma sul limitare della porta, intese ogni cosa e si precipitò nelle braccia del babbo, il quale se la strinse convulsivamente al seno.

«Che hai tu, figlia mia? le domandò mastro Zaccaria.

— Se io non avessi altro che una molla qua dentro, disse la fanciulla mettendosi una mano sul cuore, non ti amerei tanto.

Mastro Zaccaria guardò fisso la figliuola e non rispose.

D’un tratto mandò un grido, si portò vivamente la mano al cuore e cadde svenuto sul vecchio seggiolone di cuoio.

— Babbo, che hai?

— Aiuto! gridò Aubert; Scolastica! Scolastica!

Ma Scolastica non accorse subito.

Si era picchiato all’uscio d’ingresso, ed ella era andata ad aprire; quando tornò all’officina, prima ancora che avesse aperto bocca, il vecchio orologiaio, tornato in sè, le disse:

— Indovino, mia vecchia Scolastica, che tu mi porti ancora uno di quei maledetti orologi che si è fermato.

— Gesù! È proprio vero, rispose Scolastica consegnando un orologio ad Aubert.

— Il mio cuore non può ingannarsi, disse il vecchio con un sospiro.

In questo mentre, Aubert aveva rimontato l’orologio con gran cura, ma esso più non camminava.