Mastro Titta, il boia di Roma/Capitolo XCIX

Capitolo novantanovesimo - L'avventura di Angelo Isola

../Capitolo XCVIII ../annotazioni IncludiIntestazione 19 settembre 2008 75% romanzi

Capitolo XCVIII annotazioni

Timoteo Castroni era un giovane studente dell’università romana, molto stimato per il suo fervido ingegno e per la facilità con cui apriva la sua borsa, agli amici, sempre ben fornita, poiché apparteneva a ricca famiglia della provincia.

Frequentava la buona società ed era assai ben accolto, per la squisitezza delle sue maniere, per il brio della sua parola, colta, fluente, simpatica e per le sue doti fisiche non comuni. Alto e slanciato della persona, col bel viso ovale, di quel colore leggermente olivastro pallido, che esercita tanta influenza sull’animo del bel sesso, illuminato da due grandi occhi neri morati, pieni di sentimento, di passione e di dolcezze, con una bocca carnosa, sensuale, ombreggiata da due baffetti neri, lucidi, fini, come la ricca capigliatura ricciuta, era realmente un bel giovane, nel senso più assoluto della parola. Il suo istintivo riserbo aumentava il fascino che esercitava. Le signore lo attribuivano ad una punta di orgoglio suscitatogli da precoci fortune amorose, e si incapricciavano facilmente di lui, smaniose di vincere quel disdegno che credevano ostentasse e che realmente era ben lontano da lui.

C’era fra l’altre sue conoscenze, conoscenze da salotto, ben inteso, una leggiadra francese, romanizzata che godeva una fama un po’ piccante, la quale si era presa di Timoteo, perdutamente, e mal sapeva tollerare la indifferenza da lui dimostratale.

Invece di indifferenza era timore ch’ella gli ispirava. Innanzi a quella superba bellezza, il giovane studente si sentiva piccino, piccino, non osava innalzare gli sguardi fino a lei, gli pareva che fosse stata messa al mondo solo "per miracol mostrare." Il desiderio l’avrebbe attratto verso di lei, ma combatteva strenuamente, negli imi suoi penetrali, siffatto desiderio, giudicandolo, non solo temerario, ma insensato addirittura.

Quando l’immagine di quella donna gli appariva ne’ sogni, ne risentiva uno spossamento fisico inconcepibile, e cercava di cacciarla, come un succubo tentatore. I sorrisi che l’avvenente creatura gli prodigava li considerava come beffe, come scherni atroci e invece di sentirsene incoraggiato la fuggiva.

Una sera ad un gran ballo dato ad un’ambasciata, al quale Timoteo era stato invitato, vide entrare la formosissima signora, in un’ardita toilette, che metteva in evidenza tutte le grazie incomparabili della sua persona.

Vestiva in abito bianco, molto scollato, dalla breve vita del quale sorgevano le superbe spalle divinamente modellate, il seno torreggiante fra i finissimi merletti spumeggianti. Intorno al collo un vezzo di perle nere di rara bellezza, che aggiungevano splendore alla tinta calda della rasata epidermide.

La sua comparsa aveva suscitato d’ogni intorno mormorii d’ammirazione, i più cospicui personaggi e i giovanotti più eleganti della romana aristocrazia le si affollavano vicino, per contendersi un sorriso, un lieve cenno del capo, un saluto.

Blanche - tale il suo nome - trascorreva oltre con un incesso da dea, incurante quasi degli omaggi. D’un tratto scorse in fondo alla sala il giovane studente, che la guardava esterefatto e sembrava assorto in estasi. Ella volle godere del suo trionfo e si fermò a pochi passi da lui, conversando gaiamente con un brillante ufficiale del suo paese natio.

Timoteo si trovava, come assediato, da quella coppia, che attirava sopra di sé tutti gli sguardi. Non avrebbe potuto togliersi dal suo posto, senza dimandar loro licenza e gli pareva grottesco il farlo; più grottesco ancora rimanere, indiscreto testimonio.

La signora, mentre discorreva coll’ufficiale lo guardava di sottecchi e sembrava compiacersi del suo imbarazzo. Ma quando lo vide impallidire, a segno da parer prossimo a svenire, licenziò l’ufficiale con un piglio da regina, e mentre questi le si inchinava innanzi, si volse rapidamente e passò il suo braccio, meraviglioso, sotto quello di Timoteo, dicendogli:

- Portatemi a fare un giro per le sale. Qui fa troppo caldo; si soffoca.

E lo trascinò seco in un gabinetto, lontano, dove appena giungevano le note della musica, che metteva in effervescenza le coppie danzanti della sala da ballo; dove la luce di una grande carcel, soavemente moderata da rosei paralumi, dava all’ambiente un carattere dolcemente misterioso; dove pareva che le dichiarazioni di amore e i baci aliassero nella tepida atmosfera.

Blanche si abbandonò sopra un piccolo divano di raso rosso, i cui riflessi rendevano fiammeggianti le sue rotonde spalle ignude e le sue braccia anelanti d’amplessi, come il suo bel viso, acceso dalla passione intensa e dalla brama irrefrenata di voluttà, e trasse seco il giovane trasognato, chiedendogli, con un accento riboccante di promesse.

- M’ami?

Timoteo volle inginocchiarsele innanzi. Non aveva fibra che tenesse ferma: aveva un tremito nelle labbra, nella voce, nella persona.

- Vi adoro, come una santa sull’altare.

- Fanciullo! - esclamò l’inebbriata signora e gli chiuse la bocca colla sua.

Da quella sera lo studente diventò il suo amante e non ebbe più vita che per lei. Era venuta la state e dopo la bagnatura Blanche era stata condotta dal marito ad un suo castello, che s’ergeva sull’Appennino abruzzese. Timoteo la seguì ed ogni notte, per una segreta porticina, della quale aveva la chiave, penetrava nella sua camera da letto. Il marito non tardò ad accorgersene. Conosceva le abitudini di Bianca. Prima di sposarla era stato suo amante ed aveva ingannato il marito di lei, come ora Timoteo ingannava lui. Non erano scorsi che tre anni, e il primo consorte della leggiadra signora era morto, dicevasi in un accidente di caccia. Ma la sorte era stata aiutata dalla mano dell’uomo. E quest’uomo era il bandito Angelo Isola. Risoluto a liberarsi dell’amante, come si era liberato del primo marito, andò in traccia dell’antico suo complice e lo rinvenne in una bettola di Rocca Secca, dove soleva riparare fra l’una e l’altra delle sue brigantesche imprese.

Era una stanzuccia scavata si può dire nella montagna e che s’internava sotto, come una grotta nella medesima, divisa in due da un semplice assito. Nella parte prospiciente sulla strada stavano gli avventori che capitavano a bere; nella parte posteriore facevano la cucina, tenevano il vino, e si ricoveravano i più intimi amici del padrone, il quale non è escluso che cooperasse alle frequenti grassazioni segnalate ad ogni tratto in quei dintorni. Non appena il marito ingannato entrò, il bettoliere si levò il berretto, ed ossequiandolo umilmente, gli domandò:

- In che posso servirla, signor Conte?

- C’è Angelo? - mormorò a voce sommessa l’interpellato.

Il bettoliere, per tutta risposta, lo accompagnò nel secondo scompartimento dell’osteria, dove il conte vide e riconobbe tosto il suo uomo.

- Angelo, gli disse sedendogli famigliarmente accanto, su di un barile capovolto, c’è da guadagnare un centinaio di scudi. Ti servono?

- Pofferbacco, signor Conte, a questi lumi di luna, per cento scudi darei la scalata al cielo.

- Si tratta di più agevole impresa.

- Tanto meglio.

- Invece di salire, bisogna far discendere qualcuno pel burrone del diavolo.

- Non sarà il primo! - osservò sogghignando il bandito. Si tratta ancora di un marito?

- No, si tratta d’un amante.

- Allora si sono invertite le parti.

- Precisamente. Verso la mezzanotte, un giovinotto sui venti anni, abbigliato da touriste, passa da quella parte, colla sua brava borsetta ad armacollo e l’alpenstock fra’ mani.

- Glie lo faremo deporre, perché non l’aiuti a risalire. L’ora del resto è buona.

- No. È meglio aspettarlo al ritorno, verso l’alba. Chi lo attende la notte, non vedendolo comparire, potrebbe concepire qualche sospetto.

- Precauzione utilissima l’evitarlo.

- Eccoti dieci napoleoni in acconto: il resto ad affare compiuto.

Così dicendo il conte porse al bandito un pizzico di monete d’oro, che egli fece saltare nel cavo della mano.

- Conchiuso! - esclamò il bandito - e il marito oltraggiato se ne andò.

All’indomani, al primo luccicar del giorno Angelo Isola era appostato al burrone del diavolo, per dove Timoteo doveva passare. Il tempo imperversava; spessi lampi rosseggiavano nel cielo coperto di nubi, pioveva a diluvio. Il povero studente, inconscio dell’agguato che lo attendeva, e tuttora ebbro di baci e di carezze, affrettava il passo, di ritorno al villaggio, dove aveva preso stanza, per trovarsi vicino al castello di Blanche, quando due robuste braccia lo afferrano a tergo, e sollevatolo di peso, lo lanciano di piombo nel burrone. Il terreno ove andò a cadere, a metà del dirupo, era molle della pioggia e Timoteo poté rialzarsi ed aggrappandosi alle sporgenze della rupe, tentare la salita. Ma mentre stava afferrando uno sterpo, uscì un terribile avvoltoio da uno speco, che il medesimo occultava, e temendo un assalto al suo nido, si fece sopra di lui.

Un terribile colpo di rostro, accompagnato da un non meno formidabile colpo d’ala, fece cadere in fondo al dirupo, sfracellato contro i massi sporgenti, il disgraziato giovane.

Angelo Isola, che aveva assistito alla scena, levò un sospiro di soddisfazione ed esclamò:

- Il diavolo protegge i suoi.

Il cadavere dello studente venne trovato e raccolto all’indomani. Blanche indovinò il truce dramma, che si era svolto in quella tempestosa mattinata, ma non pensò a vendicare il suo amante. Angelo Isola continuò il suo mestiere di sicario e di bandito, e quando Dio volle la giustizia umana potè colpirlo. Arrestato, processato e condannato, gli fu da me reciso il capo, a Subiaco l’11 giugno 1864.


Con quest’ultima esecuzione Giovanni Battista Bugatti fu collocato a riposo, su proposta di Monsignor Fiscale il quale nella sua relazione lo qualifica per l’illustre Bugatti. Il Consiglio de’ Ministri avanzò la proposta a Sua Santità.

Pio IX l’approvò il 28 febbraio dello stesso anno concedendogli la pensione mensile di scudi 30 "in vista della di lui senile età e dei lunghissimi servigi" con decorrenza dal primo novembre, nel qual giorno gli succede Vincenzo Balducci, suo aiutante fin dal 1850. Le esecuzioni di Balducci furono poche (la più famosa quella avvenuta il 24 novembre 1868 nella quale furono giustiziati i patrioti Monti e Tognetti alla presenza anche di Mastro Titta) perché sopraggiunse la Breccia di Porta Pia ad interrompere la sua carriera.

A Giovanni Battista Bugatti non fu dato di assistere a quell’avvenimento in quanto quindici mesi e due giorni prima, ed esattamente il 18 giugno 1869, egli moriva. Il suo decesso è registrato a pagina 89 del libro IX della Parrocchia di S. Maria Traspontina.