siciliano

Giovanni Meli XVIII secolo 1868 Giacomo Zanella Indice:Versi di Giacomo Zanella.djvu Poesie letteratura Martino Intestazione 28 dicembre 2011 100% Poesie

Traduzione dal siciliano di Giacomo Zanella (1868)
XVIII secolo
Questo testo fa parte della raccolta Versi di Giacomo Zanella


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MARTINO.

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dal siciliano di Giovanni Meli.





    L’uomo che vaneggiando esce di via,
Scosso dal collo l’amoroso freno
Della saggia natura,
Perde il polo di vista e va smarrito;
5E quanto più da quella si dilunga
Tanto perduto più si trova e sente,
Quando i folli pensieri
Gli dan tregua per poco e il van desio.
Richiamarsi colà donde partío.

    10Per qualche tempo illusïon gioconde
A lui saran gli splendidi palagi
Della città, le pompe, il lusso e gli agi;
Ma poi cresciuti in core
Sente gli affetti nequitosi e questi
15Crescer sente col crescere degli anni,
Della sua mente già fatti tiranni.

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D’acute punte allor trafitto invoca
La natura, ma indarno;
Gli abiti rei l’han stretto di catene
20Che invan s’affanna a sciogliere; e frattanto
Per illuder sè stesso
Di libero e giulivo si dà vanto.

    Pure di tempo in tempo: o quando ride
La bella primavera pe’ fioriti
25Lussureggianti prati: o quando autunno
Leva in sui campi il capo incoronato
Di poma e d’uva che contrasta all’oro
Il biondo colorito,
L’uomo della città con sua gran pena
30Si move e si trascina
Seco recando a’ campi la catena.

Son io, son io (così dicea Martino
Negl’istanti d’un lucido intervallo)
Lo snaturato figlio,
35Che un istinto segreto, ultimo avanzo
Della materna eredità, sospinge
Alla tenera madre, al piè träendo
La servile catena
Del vanitoso fasto
40E dell’ambizïon non mai satolla
Che di spine m’ingombrano il cammino.
Madre, quanto a’ tuoi sguardi io son meschino!

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              «Trovo fra questi aratri,
          Fra questi di verzura
          45Immensi anfitëatri
          La madre mia natura,

              Che con aperte braccia
          A sè mi alletta e chiama,
          E pinta sulla faccia
          50Mi mostra la sua brama:

              Che con benigno piglio
          A me si accosta e dice:
          Tutto ti diedi, o figlio,
          Per renderti felice;

              55Un cor pe’ godimenti;
          Ove virtù verace
          Agli onorati stenti
          Sposa diletto e pace.

              Legge ci trovi impressa
          60Che d’ogni legge è fiore,
          Scolpita da me stessa:
          Ama e raccogli amore.

              Legge che il core accresce,
          Allarga il tuo pensiero,
          65Che ti confonde e mesce
          All’universo intero.

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              Senza essa sulla terra
          Stranier tu vivi e solo,
          Sempre cogli altri in guerra,
          70O abbandonato o in duolo.

              La mente e l’intelletto
          T’ho dato, onde comprenda
          Quello esser giusto e retto
          Che al comun bene intenda.

              75I sensi fu mia cura
          Largirti, che gradita
          Che vegeta e sicura
          Ti rendano la vita.

              L’occhio, perchè ti sveli
          80Meravigliosa scena,
          L’ordin che terre e cieli
          Costantemente affrena.

              L’orecchio novo incanto
          Ti schiude all’alma ancora:
          85Dell’usignuolo il pianto
          Di voluttà la irrora.

              Fra quegli alpestri orrori
          Il passer solitario
          Intenerisce i cori
          90Col dolce accento e vario.

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              I flauti armonïosi
          De’ vispi pastorelli
          Fan eco a’ grazïosi
          Gorgheggi degli augelli.

              95Le nari pur consola
          Tributo peregrino
          D’odor che l’aura invola
          Ai fiori del giardino.

              Di frutti in abbondanza
          100La mensa ti copersi,
          Di tinte, di fragranza
          E di sapor diversi.

              Vieni, diletto, vieni,
          Ascolta i miei richiami;
          105Vien tra’ boschetti ameni,
          Siedi fra’ verdi rami.

              Meco in questo ermo lido
          Regna la pace, e regna
          Amor che farsi il nido
          110Alle colombe insegna.

              La fedeltà d’attorno
          Qui trovomi ne’ cani
          Vigili notte e giorno,
          Amici e guardïani.

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              115Son mia superba reggia
          Questi sublimi monti:
          La mäestà passeggia
          Sulle petrose fronti.

              Quale beltà s’aduna,
          120Quanta grandezza in essi!
          Umana possa alcuna
          Non è che vi si appressi.

              Osserva come sorgono
          Di sopra le foreste,
          125E tra le nubi sporgono
          Le trarupate creste!

              Quante in que’ gran burrati
          In que’ cespugli e grotte
          Di rettili e d’alati
          130Erran viventi frotte!

              L’aquile in ciel sospese
          Tesson con ala immota
          Intorno alle scoscese
          Rocce l’aerea rota.

              135Felci e vitalbe intorno,
          Ellere a gran festoni
          Sono i tappeti, onde orno
          Le altere mie magioni.

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              Mira da quella cima
          140Come un perenne fiume
          Mäestoso si adima
          L’onde mutando in schiume!

              Giù per occulte scale,
          Di questi monti al fondo,
          145Trovi le vaste sale
          Ove i tesori ascondo.

              Quanto l’umano ingegno
          Mette ne’ primi onori,
          Fra creta e sabbia io tegno,
          150Lucenti gemme ed ori.

              I rosëi graniti,
          Le agate, gli ametisti
          A scabre selci uniti,
          Al fango son commisti.

              155Delle mie grotte sono
          Reconditi pilastri,
          Son basi del mio trono,
          Porfidi ed alabastri.

              Vedi come io dispregio
          160Tesor sì vano! E vui
          Lo avrete in tanto pregio
          Da occidervi per lui?

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              Ma lascia le caverne,
          Esci all’aperto, e godi
          165Le mie bellezze esterne
          Diffuse in vari modi.

              O quante specie, o quante
          Varïetà d’aspetto
          Presentano le piante
          170Al mio veder perfetto!

              Quante famiglie intere
          Vivon d’insetti in loro,
          Che in maggio a schiere a schiere
          Volan sull’ali d’oro!

              175La vite che si piega
          Debole in basso sito,
          Vedi come si lega
          Al pioppo per marito!

              Del tronco non fecondo
          180Questi in compenso, i figli
          Ne adotta e porta il pondo
          De’ grappoli vermigli.

              L’olivo che vetusto
          Pugnò co’ venti e stette,
          185Dal fracassato fusto
          Germe novel rimette.

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              Piramidi fastose
          Son larici e cipressi;
          L’età del mondo ascose
          190Leggo scolpite in essi.

              Il grato mormorio
          Dell’acqua che là scorre
          Dice all’erbette: addio,
          Io parto, che vi occorre?

              195Volete nutrimento?
          Verso di me stendete
          Le barbe e in un momento
          Il nutrimento avrete.

              In ricompensa al rivo
          200L’albero i rami stende,
          E dall’ardore estivo
          Coll’ombra lo difende.

              Oh i corrisposti affetti!
          Oh i ben locati offici!
          205Inanimati oggetti
          Fra lor son come amici.

              Nè credere che l’onde
          Sien sole; alla fontana
          Galleggia e mi risponde
          210Col gracidar la rana.

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              Tinti d’argento il tergo
          Guizzano in fondo all’acque
          I pesci, a cui l’albergo
          Laggiù segnar mi piacque.

              215Le pecchie industrïose
          Rimira tra que’ fiori
          Che alle cellette ascose
          Tornan co’ dolci umori.

              Se il mansuëto regno
          220Intender ne sapessi
          Vergogna avresti e sdegno
          De’ tuoi superbi eccessi.

              Ma le mie schiere alate
          Del sol seguendo il raggio
          225Cangian le sedi amate
          Com’è l’ottobre o il maggio.

              Presentan le stagioni
          Le specie lor distinte
          A torme ed a squadroni
          230Di penne vario-pinte.

              Sue nunzie e messaggere
          La primavera manda
          Le rondin che leggiere
          Scorrono d’ogni banda.

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              235Poi giunge accompagnata
          Da quaglie e da stornelli
          E d’una smisurata
          Folla di vari augelli.

              Io tutti li confido
          240Agli arboscelli, ai prati,
          A fabbricarsi il nido,
          Nutrirsi i dolci nati.

              Molti co’ novi eredi,
          Quando più ferve l’anno,
          245Di più benigne sedi
          In cerca se ne vanno.

              D’autunno a’ lieti giorni
          Di lodolette abbondo;
          Garrule merle e storni
          250Entro i vigneti ascondo.

              E quando l’anno inchina
          Ho l’oca e la beccaccia,
          Che presso alla marina
          Scendon di cibo in traccia.

              255Nè compagnia mi manca
          Di armenti e greggi; e questa
          No, non mi opprime e stanca,
          Ma pure gioie appresta.

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               Mi opprime e stanca oh quanto
          260Il cittadin tumulto,
          Del poverello il pianto,
          Del ricco altier l’insulto.

               Frodi, avaníe, raggiri,
          Disordini e scompigli....
          265O stolidi o deliri
          Miei tralignati figli!»

     Così favella di Martino al core
L’ingenüa natura. E la ragione
Che della verità la voce ascolta
270Santa ed util la trova,
Gran diletto ne prova e già la segue.
Ma le perverse ambizïose usanze
Che dagli anni primieri
Soggiogata l’avean, a’ bei pensieri
275Oppongon vane idee, vane sembianze,
Che ricopron di tenebre la mente.
Così Martino che veduto avea
Un lampo di saggezza, si ritorna
Macchina come pria,
280A cui l’abito solo imprime il moto.
E come nave in tempestoso mare
Senza vele e piloto, ai folli affetti

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Che lungi lo trabalzano dal porto,
Riman ludibrio l’infelice; e segue
285A far, non punto accorto
Delle interne battaglie e degli affanni,
Quanto fatto egli avea da’ suoi primi anni.


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