Lo straniero misterioso/Storia del giovane italiano

Storia del giovane italiano

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Storia del giovane italiano
Lo straniero misterioso
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STORIA DEL GIOVANE ITALIANO

scritta da lui medesimo.

Nacqui a Napoli. I miei genitori, benchè di nobile stato, non possedeano sostanze che a questo fossero proporzionate, o per dir meglio, il padre mio desideroso di fare una comparsa superiore a quella che le sue forze gli permettevano, tanto spendea nel mantenimento del palagio, in carrozze e in servitori, che il suo patrimonio andava ogni dì restrignendosi. Di due fratelli io era il minore, e guardato per ciò con occhio d’indifferenza dal padre che, mosso da un orgoglio ingenito di famiglia, divisava [p. 16 modifica]lasciare erede di tutto l’asse domestico il primogenito. Diedi, sin da fanciullo, contrassegni di un’indole eccessivamente irritabile: tutte le cose faceano violenta impressione su la mia mente. Ancora bambino, fra le braccia di mia madre, e prima di avere imparato a parlare, la musica avea una sorprendente efficacia per eccitarmi a mestizia, o ad allegria. Cresciuto alquanto negli anni, continuava ne’ miei sensi la medesima elasticità: onde per un nulla io dava nei parossismi or della gioia or della rabbia: per la qual cosa io era divenuto il trastullo de’ conoscenti e de’ servi di casa, che di questa irritabilità del mio temperamento si prendevano giuoco. Mi venivano a mano a mano somministrati i motivi di piangere, ridere, andare in furia per intertenimento della compagnia, che trovava un gran diletto nel vedere come tanta tempesta di varie passioni travagliasse così un corpicciuolo ancora pigmeo. Questi signori non pensavano abbastanza, o se ci pensavano, se ne crucciavano poco, di alimentare una irritabilità che potea tornarmi fatale. Di sì fatta maniera, io divenni una piccola creatura dominata dalle passioni, prima che la ragione si fosse in me svolta. Giunsi fra poco a quegli anni che non più il trastullo della brigata, ma ne divenni il tormento. Mi si attaccarono le malizie e i gusti di coloro che mi aveano tribolato, e divenni increscevole ai miei maestri col mettere in pratica quelle lezioni ch’eglino stessi mi aveano insegnate. Morì mia madre, e il mio regno di viziato fanciullo ebbe termine. Non andò guari che le persone non trovavano più alcuna necessità di blandirmi o tollerarmi: nel far la qual cosa nulla avrebbero guadagnato, perchè io non era il favorito del padre mio. Laonde soggiacqui appunto al destino che provano in simili casi i fanciulli viziati: trascurato da tutti, o se pensavano a me, non era che per mortificarmi o contraddirmi. Tal trattamento fu fatto soffrire di buon’ora ad un cuore che, se pur mi è lecito farmi giudice su tale argomento, era per sua natura inclinato oltre ogni dire alla benevolenza e alle più soavi affezioni. [p. 17 modifica]

Mio padre, come ho già detto, non mi vide di buon occhio in nessun tempo; ma in sostanza egli non mi aveva mai ben giudicato: mi credeva un caparbio, un capriccioso, un ente privo di cuore. La sostenutezza in vece de’ suoi modi, l’austerità disdegnosa delle sue occhiate, queste mi respignevano dalle sue braccia. Non ho mai cessato dall’averne presente alla memoria il ritratto, allorchè avvolto egli nella sua senatoria veste di seta, la facea cigolare col suo camminar pomposo ed altero. Questo fasto valse tanto a sgomentare la mia giovine immaginazione, ch’io non seppi mai avvicinarmegli con quella confidente affezione per lo più connaturale ai fanciulli.

Ogni affetto di mio padre era andato a collocarsi sul mio fratello maggiore. Questi doveva essere l’erede del titolo e delle dignità della famiglia: quindi tutto a lui doveasi sagrificare, e me pure non meno che l’altre cose. Era deciso ch’io dovessi dedicarmi alla Chiesa, e si credea troncare per questa via al mio mal talento e a me medesimo i modi o di rendere più grave il peso degli anni e delle cure a mio padre, o di mettermi in opposizione cogl’interessi di mio fratello. In quella giovanissima età pertanto, prima che la mia mente si schiudesse al mondo e ai suoi diletti, quando io non avea ancora conosciuto alcuna cosa oltre i recinti del paterno palagio, fui mandato ad un convento, cui soprastava in grado di superiore un mio zio, alle cure del quale venni interamente affidato.

Questo mio zio, ritirato affatto dal mondo, non ne avea mai apprezzati, perchè non gli avea mai assaporati, i piaceri, e ravvisava nella rigidissima negazione di sè medesimo la gran base della cristiana virtù. Egli pensava che i temperamenti d’ognuna fossero simili al suo, o volea, se non altro, che al suo si conformassero. Il suo carattere e le sue consuetudini prevaleano su la Congregazione da lui governata: onde la più malinconica e squallida schiatta di viventi non era mai stata veduta prima di questa unirsi in [p. 18 modifica]vincolo di società. Il loro ospizio medesimo parea fatto di per sè stesso allo scopo di destare tutte le tetre idee che accompagnano la solitudine. Situato questo convento in una cupa gola di monti, australi al Vesuvio, non era almen rallegrato da belle prospettive in distanza, chè tutte le chiudeano quelle sterili vulcaniche alture. Un torrente che precipitava giù dai monti strepitava contro le mura di quell’edifizio, intanto che le aquile strillavano intorno alle cime delle sue torri.

Era sì tenera, quando venni confinato in questa prigione, l’età mia, che perdei presto ogni distinta ricordanza delle scene lasciatemi addietro. Laonde svolgendosi la mia mente, desumea da questo convento e dalle sue vicinanze il concetto dell’Universo, e credea l’Universo un deserto. Così una intempestiva tinta di malinconia andò infondendosi nel mio carattere, e gli spaventosi racconti e di diavoli e di mali spiriti fattimi da quei frati atterrirono tanto la mia giovine fantasia, che ne contrassi quella facilità a ricevere le superstiziose impressioni, dalle quali non ho potute veramente liberarmi più mai. Parea che nel travagliare l’accensibile mia fantasia mettessero tanta cura, quanta per prendersi sollazzo di me ne avea adoperata la malignità, de’ servi nella mia casa paterna. Mi rammento tuttavia di quali spaventi costoro nudrirono la fervida mia immaginazione durante un traboccamento del Vesuvio. Tra noi certamente e il vulcano stavano i monti, ma il tremendo suo ribollire crollava i più saldi fondamenti della Natura; e i continui tremuoti minacciavano farci rovinare addosso le torri del nostro convento. Una lurida infausta luce stendessi di notte tempo sul firmamento, e rovesci di ceneri portate dal vento calmavano l’angusta valle in cui ci stavamo. I frati intanto parlavano della terra divenuta come un alveare sotto i nostri piedi; di correnti di lava liquefatta che sconcano pe’ suoi canali; di caverne di fiamme sulfuree ruggenti nel centro della medesima e abitate dai demonii e dai dannati; di golfi di [p. 19 modifica]fuoco che stavano a bocche aperte per ingoiarci: leggende cui si accordava in vero la sinistra musica del rimugghiar cupo de’ monti che facea crollar ogni muro del monasteri.

Uno di questi frati era stato pittore, ritiratosi poscia dal mondo e venuto ad abbracciare questo genere di sconsolata vita in espiazione di qualche sua colpa: uom malinconico assai, il quale continuando nella solitudine della sua cella a coltivare l’arte che avea professata al secolo, volea che anche questa gli divenisse un modo di penitenza, perchè s’intertenea facendo o su la tela o in cera ritratti di volti e figure umane sformate dall’agonia della morte, o ridotte in tutti gl’immaginabili stati di disfacimento. Vedeansi nelle sue dipinture delineati i misteri orribili de’ sepolcri e delle salme umane divenute lurido banchetto degli scarafaggi e de’ vermi. Ritorsi il passo, persino abbrividito, da una tal galleria; pure col tempo la mia immaginazione, forte quanto mal regolata, m’indusse a cogliere con ardore questa opportunità d’instruirmi sotto la scuola del frate nella pittura. Ogni cosa nuova, qualunque fosse, mi giovava almeno a divagarmi dagli aridi studii e dalla monotonia de’ doveri del chiostro. Fattosi in breve tempo abile alquanto il mio pennello, gli squallidi miei dipinti vennero giudicati degni di decorare alcuni altari della chiesa.

In tale spiacevole via s’innoltrava una creatura non aliena per indole alle soavità del sentimento e ben fornita d’immaginazione. Quanto era di caro e piacevole nel mio carattere veniva rintuzzato, e nulla ne scaturiva che non fosse inutile ed inamabile. Fervido di temperamento, vivace, gioviale, rapido nel concepire e nell’eseguire, io sembrava una essenza formata alle più tenere espansioni del sentimento; ma una mano di piombo aveva atterrate tutto le migliori mie prerogative. Io non sapea meditar nulla che terrore ed odio non fosse. Odiava mio zio; odiava i frati; odiava il convento entro cui mi aveano murato; odiava l’Universo; e odiava quasi me stesso per trovarmi un ente [p. 20 modifica]capace di nodrire tant’odio, e tanto odioso com’io supponea.

Io mi avvicinava all’età di sedici anni quando, in certa occasione, mi fu permesso accompagnare uno de’ nostri frati che andava in missione in un luogo distante di lì. Lasciataci presto dietro le spalle la trista valle ov’io era stato imprigionato diversi anni, e dopo un breve cammino in mezzo a que’ monti, si scoperse alla mia vista il voluttuoso paese che si dilata intorno alla baia di Napoli. Potenze del cielo! Ove mi credei io trasportato, allor quando portai all’intorno lo sguardo sopra una vasta estensione di deliziosa ed aprica contrada, tutta rallegrata da boschetti e vigneti; sul Vesuvio a destra che sollevava la biforcuta sua cima; a sinistra su l’azzurro Mediterraneo e le incantatrici sue coste, ornate di splendide città e di sontuose ville; sopra Napoli, sopra la nativa mia Napoli che raggiava di lontano — di lontano a malgrado della distanza.

Dio! Dio! Era questo il delizioso mondo da cui m’avevano escluso? Io toccava l’età degli affetti in pieno fiore e freschezza, e i miei affetti erano stati costretti e ammortiti; allora sbucciarono con l’impeto di un getto d’acqua che prima fu rattenuto. Il mio cuore, fino a quel punto chiusa ad onta della Natura, si espandea in un vortice di moti, indefiniti sì ma pur deliziosi. La bellezza della Natura m’inebbriava, mi traeva fuor di me stesso. Il canto dei contadini; la giocondità che sfavillava ne’ loro sguardi; la ilarità con cui si prestavano a lavori di lor vocazione; la pittoresca leggiadria delle vesti; l’agreste musica; i balli; tutto ciò mi sorprendeva come un incanto. La mia anima accompagnava quella musica; il mio cuore saltava entro il mio seno. Ogn’uomo mi sembrava geniale; amabili tutte le donne.

Tornai al convento, e può ben dirsi vi tornò il mio corpo, chè il mio cuore e la mia anima non vi entrarono mai più in sua compagnia. Non potea più dimenticarmi il barlume che mi si era mostrato di un mondo bello e felice, [p. 21 modifica]di un mondo sì conforme al carattere ch’io avea sortito dalla Natura. Mi era trovato, finchè vi stetti, così beato; in uno stato di sensazioni sì diverse da quelle che in me eccitava il convento, questa tomba de’ vivi. Io paragonava i volti delle creature che avea vedute piene di vigore, freschezza e giocondità con gli smunti, terrei, insignificanti volti de’ frati; la musica de’ villerecci balli col lento canto del coro. Se io trovai su le prime increscevoli gli esercizii del chiostro, allora mi erano divenuti insopportabili. Quella noiosa vicenda di obblighi monastici ammazzava il mio spirito; erano irritati i miei sonni dal molesto squillo della campana del convento, che quanto più spesso veniva rifranto dall’eco di quelle montagne, tanto più spesso mi toglieva al riposo la notte, al mio pennello il giorno, per andare ad assistere a qualche noiosa e sol meccanica cerimonia prescritta da quelle claustrali regole.

Non era io quel tale da lasciar passar lungo tempo tra il meditare e il mettere le meditate cose ad effetto. Il mio animo si era d’improvviso destato ed era già svegliata ogni parte di me. Curai la prima occasione di dare un tacito saluto al convento, e presi a piedi la volta di Napoli. Trovatomi appena in mezzo alle giulive e affollate strade di questa città, dopo avere ammirata la varietà delle animate scene che mi stavano intorno, il lusso de’ palagi, la magnificenza de’ cocchi e la pantomimica baldezza di quella mescolanza di popolazzo, credei sorgere dal sonno in mezzo ad un mondo incantato, e feci voto che forza di nessun genere mi avrebbe ricondotto alla monotonia del chiostro giammai.

Dovetti farmi insegnare la strada che conduceva al palagio di mia famiglia: perchè avendo lasciata Napoli da fanciullo, io non sapea più la situazione di esso. Mi costò qualche fatica, l’essere introdotto alla presenza del padre, perchè i servi sapeano appena che un ente somigliante a me fosse su questa terra, e la mia veste fratesca non perorava gran [p. 22 modifica]che a mio favore. Lo stesso mio padre non si ricordava più della mia fisonomia. Gli dissi dunque il mio nome; me gli gettai a’ piedi; implorai il suo perdono; e lo supplicai fervorosamente perchè non mi rimandasse al convento.

Nell’accoglimento ch’egli mi fece lessi la degnazione di un protettore anzichè la tenerezza di un padre... Ascoltò pazientemente, ma con freddo contegno, la storia delle mie monastiche amarezze e desolazioni; poi rispose penserebbe che cos’altro si potesse fare per me. Cotale freddezza inaridì e fece dare addietro quegli affetti connaturali alla mia indole che sarebbero pullulati al più lieve calore di paterna benignità. Tutti invece gli antichi sentimenti concepiti verso mio padre rigermogliarono. Tornai a riguardare in esso il fastoso vivente che avea sgomentata la fanciullesca mia immaginazione; e i miei sentimenti divennero quelli di un figlio che avesse perduta ogni speranza dell’amore del padre. Mio fratello ne avea incettate per sè tutte le cure, tutta la tenerezza; e avendo contratta anche l’indole paterna, si comportava meco in tuono di protettore anzichè di fratello, trafiggendo così il mio amor proprio che non era poco. Io potea ben sopportare quest’aria di degnazione dal padre mio, ch’io considerava con la riverenza dovuta ad un superiore; ma non sapeva adattarmi all’aria di protezione di un fratello che un intimo sentimento mi dicea valesse meno di me. S’accorsero intanto i servi ch’io era un ospite non gradito e come intruso nella casa paterna, e seguendo lo stile dei loro pari, mi trattarono con trascuranza. Così deluse in ogni punto le mie affezioni, oltraggiate ovunque avrebbero voluto collocarsi, divenni torvo, silenzioso, disanimato; e i miei sentimenti, tutti in me medesimo concentrati, faceano guasto sopra il mio cuore. Rimasi per alcuni giorni in forma piuttosto di mal accetto convitato che di figlio restituito al seno della famiglia paterna, ove io era veramente condannato a vedere sempre interpretata con ingiustizia la mia condotta. Anche in questa occasione, grazie [p. 23 modifica]il trattamento irregolare che mi era usato, divenni estranissimo a me stesso; poi sol fondamento di tale mia singolarità fui giudicato da quelli che le federo origine.

Mi accorsi un giorno, e ne rimasi atterrito, di un frate del mio convento che usciva pian piano fuor della stanza di mio padre. Mi vide costui, ma fece mostra di non badare, e questa stessa sua ipocrisia mi diede qualche sospetto. I miei sentimenti erano indolenziti e in istato d’irritazione, onde poco bastava a far sovr'essi un’acerba puntura. In mezzo a queste disposizioni dell’animo mio, certo paggio di casa morbidamente allevato e favorito del padre mio si avvisa usarmi una non equivoca mala grazia. Preso allora da tutta quanta la mia bile, lo percossi buttandolo a terra. Passava di lì in quel momento mio padre, il quale non si fermò già a chiedere i motivi di quel mio contegno, benchè non potesse egli indovinare che questi stessero nella sequela delle afflizioni del mio animo; ma passato subito a sgridarmi con disprezzo e stizza, avea raccolto negli sguardi tutto l’orgoglio e la naturale sua boria, che aggiugneano peso alle scagliatemi contumelie. Sentii allora quanto altamente fossi tenuto io non cale, e sentiva ad un tempo che stava entro me un animo meritevole di miglior trattamento: onde fattomisi gonfio il cuore contra l’ingiustizia del padre, vinsi la tema ch’egli soleva inspirarmi, al punto di rispondergli in atto d’impazienza. In quell’istante l’accensibilità del mio temperamento mi colorava le guance e mi sfavillava negli occhi; ma era momentanea l’irritazione del mio cuore, onde prima ch’io avessi sfogato a metà il mio risentimento, m’accorsi che questo era già rintuzzato e si stemprava nelle mie lagrime. Mio padre, fatto attonito ad un tempo e provocato da questa ribellione di un insetto, m’intimò ritirarmi nella mia stanza, ove mi trasferii silenzioso, e premendo nel mio interno le sensazioni lottanti fra loro che lo straziavano.

Io non vi rimasi lungo tempo prima di udire un susurrar [p. 24 modifica]di voci nel contiguo appartamento. Era una consulta che si tenea fra mio padre e quel certo frate su gli espedienti per nuovamente consegnarmi con tutta segretezza al convento. La mia risoluzione fu subito presa. Io non potea dir più a lungo mia famiglia, mio padre. Lasciai nella stessa notte il tetto paterno. Postomi a bordo di una nave che salpava allora dal porto, abbandonai me medesimo al vasto Universo. Non importava a qual porto veleggiasse la nave: ogni parte di un sì bel mondo valea meglio del mio convento; non importava il dove sarei stato balzato dalla fortuna: ogni luogo mi sarebbe stato miglior casa della casa lasciatami addietro. La nave era accordata per Genova, ove approdammo dopo una navigazione di pochi giorni.

Appena entrato in quel porto attraversando i due moli che lo rinchiudono, e in prospetto ad un anfiteatro di palagi e tempii e sontuosi giardini che s’innalzavano in bell’ordine l’uno su l’altro, lì m’accorsi quanto diritto avesse cotesta città al suo titolo di Genova la Superba. Io sbarcava a quel porto, uomo affatto straniero, senza sapere che cosa dovessi fare, a qual parte volgere i passi. Non importava; io era libero dalla schiavitù del convento e dalle umiliazioni ch’io sopportava in famiglia. Quando attraversai Strada Balbi e Strada Nuova, quelle strade tutte palagi, arrestando con istupore lo sguardo sul lusso d’architettura che si estendea per ogni parte d’intorno a me; e quando su l’imbrunire del giorno mi trovai passeggiando fra una bella e giuliva calca di gente che andava a diporto lungo i viali cui fa ombra un curvilineo filare di alberi su la piazza dell’Acqua Verde, o fra i colonnati e i terrazzi de’ maestosi giardini Doria, io pensai ch’uomo non potesse altrove, fuorchè in Genova, esser beato.

Ma pochi giorni bastarono a mostrarmi qual cattiva risoluzione avessi presa. La mia povera borsa era già esausta; e provai la prima volta in mia vita i crucci deplorabili dell’indigenza. Io non avea ancora saputo che cosa fosse [p. 25 modifica]l’essere privo di danaro, nè pensato mai alla possibilità di simile inconveniente. Ignaro del mondo e d’ogni andamento delle cose del mondo, quando la prima idea di questa deficienza mi venne alla mente, tutte le facoltà della medesima inaridirono. In questo misero stato me ne andai dunque camminando per quelle belle strade che più non dilettavano la mia vista, e il caso portò i miei passi nella magnifica chiesa dell’Annunziata.

Vi stava in quell’ora un pittore celebre della nostra età invigilando al collocamento di un suo quadro sopra un altare. Quel poco d’intelligenza ch’io avea acquistata in tal arte durante la dimora mia nel convento, mi avea fatto quel che i Francesi chiamano amatore entusiastico della pittura. Mi colpì a prima vista quel quadro su cui vidi dipinto un volto della Madonna, sì ingenuo, sì amabile, quanto può esserlo l’espressione divina della tenerezza materna! In quel momento e nell’entusiasmo della mia arte, fui preso come da un delirio. Giunsi insieme le mani mettendo un’esclamazione che l’ammirazione mi suggeriva. S’avvide il pittore di quello stato mio di commozione che solleticò il suo amor proprio. Gli piacquero la mia fisonomia, i miei modi esterni: mi si avvicinò. Avrebbe bisognato ch’io sentissi meno la sventura del non avere solo un amico, perchè potessi ricusare i prevenimenti della cortesia di uno straniero; poi io scorgeva in esso un non so che di benevolo, di conciliante, per cui si acquistò affatto la mia confidenza.

Gli narrai i miei casi e il mio stato, tacendo soltanto il nome di famiglia e la nascita. Diede contrassegni d’uom commosso dall’udito racconto; m’invitò a casa sua: divenni da quel momento l’allievo suo prediletto. Pensò ravvisare in me eccellenti disposizioni alla pittura, e tale sua testimonianza ridestò tutto l’ardore mio verso questa bell’arte. Qual felice periodo della mia esistenza fu quello che trascorsi sotto il tetto dell’uom benefico! Sembrava si fosse creata una nuova anima in me, o piuttosto quanto era in [p. 26 modifica]essa di amabile e di pregevole allora scaturì. Io vivea bensì ritirato come quando stava in convento; ma quanto era differente dal primo il secondo ritiro! Qui il mio tempo impiegavasi or nudrendo la mia mente di alte e poetiche idee, or meditando quanto vi era di straordinario e di grande nella Favola e nella Storia, ora studiando e dipingendo tutto il bello e il sublime che la Natura offeriva. Io era tuttavia una creatura visionaria, fantastica; ma almeno mie visioni, le mie fantasie ad una nobile estasi mi sollevavano. Io considerava nel mio maestro il benefico Genio che mi aveva aperta la regione degl’incanti. È da sapersi che non era egli nativo di Genova, ove lo aveano condotto le sollecitazioni di parecchi nobili, rimasto poi quivi alcuni anni per dar compimento a certi lavori che aveva intrapresi. Gracile assai di salute, affidò l’esecuzione di molti fra i disegni che aveva fatti al pennello de’ suoi scolari. Egli credea ravvisare in me una disposizione particolarmente felice a ritrarre umani sembianti, ad afferrarne di volo le espressioni caratteristiche, ad improntarle con energia sopra la tela. Io era quindi, sempre adoperato ad abbozzar ritratti, e sovente se v’era qualche volto men fornito di grazie, di beltà, di espressione, al mio pennello veniva consegnato. Il mio benefattore trovava tutta la sua soddisfazione nel farmi conoscere al pubblico; e parte forse per l’abilità da me allora acquistata, molto anche per la parzialità delle sue lodi incominciai ad ottenere una certa fama di maestria nel dar espressione ai lineamenti ch’io dipingea.

Uno fra i varii lavori intrapresi in quel tempo dal mio maestro era certo quadro storico, ove si voleano introdotti in effigie tutti i personaggi viventi de’ signori di un palagio di Genova, al quale lo stesso quadro dovea servire di ornamento. Di uno di questi ritratti venne commessa al mio pennello l’esecuzione, e ne era il personaggio una giovinetta che stava tuttavia nel convento assegnato alla sua educazione, e che ne fu fatta uscire per quel tempo in cui la sua [p. 27 modifica]presenza era necessaria a ritrarla. La vidi per la prima volta in una stanza di uno de’ più sontuosi palagi di Genova, stando ad una finestra che dominava la baia. Un fascio di raggi di sole di primavera che spargeano grato splendore su i damaschi cremisini di quella camera componevano attorno al capo della donzella una corona di luce non dissimile da quelle di cui vediamo fregiate nelle pittore le teste dei Santi. Ella avea sedici anni, e oh quanto bella! Rimasi sopraffatto a tal vista, come nè più nè meno se mi fosse apparsa la dea della primavera, della giovinezza e della beltà. Poco manco non le cadessi ai piedi per adorarla. Ella avrebbe potuto servir di modello ai poeti o ai pittori quando occorre loro esprimere quel bello ideale che agita le loro fantasie sotto forme d'ineffabile perfezione. Mi fu permesso abbozzarne in diversi atteggiamenti il sembiante; e tanto fervorosamente mi adoperai a tener lunghi i miei esperimenti, che fui sul punto di perdermi. Più fisava io sovr’essa lo sguardo, più amante ne diveniva; e vi era un non so che di penoso nella immensa ammirazione ch’io le tributava. Io avea diciannove anni all’incirca, contegnoso, timido, vero novizio. Certamente la madre della donzella mi si dimostrava cortese, perchè mi aveano conciliato favore appo lei e la mia giovinezza e l’entusiasmo ch’io dava a divedere per l’arte da me professata; e io stesso propendo a credere vi fosse ne’ miei modi e nella mia fisonomia qualche cosa che inspirasse benevolenza e riguardo. Ma quante buone accoglienze mi potessero venire usate non valeano a liberarmi dalla confusione che alla presenza di quell’avvenentissima creatura s’impadroniva della mia immaginazione già accostumatasi a riguardare in lei qualche cosa di più che mortale. Sì: ella compariva ai miei occhi un ente troppo perfetto perchè potesse essere serbato ad usi terreni, di forme troppo squisite e sublimi perchè umano intento potesse ad essa aspirare. Sedutomi per ritrarre i suoi lineamenti su la mia tela, a quando a quando io figgea gli occhi immobili [p. 28 modifica]su quelle sovrumane sembianze e bevea un delizioso veleno che mi traeva fuor di me stesso. La tenerezza dilatava il mio cuore, lo ristrignea il dolore della disperazione. Allora io mi sentiva più che mai acceso dalla violenza di quell’incendio che nel profondo della mia anima fino a quel punto avea vegetato. Voi che nati in clima più temperato, respirate l’aere di una refrigerante atmosfera, voi non potete formarvi un concetto della tirannica violenza che scoprano le passioni su i nostri cuori temprati ai climi meridionali!

In pochi giorni il mio lavoro fu terminato. Bianca ritornò al convento; ma l’immagine di lei rimase incancellabilmente scalpita sopra il mio cuore: questa pose stanza nella mia immaginazione; questa la sola idea classica ch’io sapessi formarmi della beltà; questa divenne di fatto la prevalente norma del mio pennello. Per mia fortuna io crebbi in fama di abile nel delineare ogni vezzo di femminile avvenenza, d’onde derivò che i ritratti di Bianca sotto il mio pennello moltiplicarono. Io compiaceva e nudriva la mia fantasia coll’introdurre Bianca in tutti i lavori del mio maestro. Qual fu, un giorno la delizia ch’io provai intertenendomi in una delle cappelle dell’Annunziata, e udendo in mezzo alla folla come tutti esaltavano le bellezze serafiche di una Santa ch’io aveva dipinta! Io li vedea prostrati in adorazione innanzi a quel quadro: essi adoravano le grazie di Bianca.

Vissi in questa specie di sogno, dovrei dire delirio, oltre ad un anno. Tale è la tenacità della mia immaginazione, che compresa da un’idea una volta, questa continua a rimanervi in tutta la sua freschezza e con tolto il suo predominio. Io divenni di fatto un meditabondo solitario, tratto a continui vaneggiamenti, onde sempre più mi era agevole il dar pascolo alle idee che si erano la prima volta impadronite fortemente di me. Da questo tenero, malinconico, pur delizioso sogno destatami la morte del mio degno benefattore: morte che in quali cordogli ed affanni [p. 29 modifica]m’immergesse, io tenterei invano descrivere: morte per cui rimasi solo, derelitto e quasi disperato su questa terra. Mi lasciò egli erede della sua tenue sostanza, che veramente, a cagione delle liberali propensioni, del suo animo e del suo tenore dispendioso di vita, quasi al nulla si riducea. In oltre mi raccomandò caldamente, morendo, alla protezione di un Conte che era stato il suo mecenate.

Questo nobile vivea in concetto d’uom generoso; ed era un di quegli amatori delle belle arti, che, larghi d’incoraggiamenti alle medesime, non celano per troppa modestia il lor desiderio di essere reputati per tali. S’Immaginò avere scorti in me gl’indizii di futura eccellenza nella mia professione, e veramente allora il mio pennello non potea dirsi del tatto ignorato: egli dunque prese tosto a proteggermi. Accorgendosi quanto mi tenesse oppresso il dolore, e quant’io fossi per conseguenza incapace di vedermi più a lungo fra le mura del benefattore ch’io aveva perduto, mi sollecitò a passar qualche tempo in una sua villa posta alle rive del mare, nelle pittoresche vicinanze di Sestri di Ponente.

Trovai quivi l’unico figlio del Conte, il cui nome di battesimo era Filippo: giovine circa della mia età, di un aspetto che potea prevenire gli animi a suo favore, di modi che poteano a prima vista abbagliare. Mostrò desiderio di fare stretta lega meco e premura di conciliarsi la mia stima. Sembrommi per vero dire che vi fosse qualche cosa di cortigianesco nelle sue buone grazie e di capriccioso nelle sue inclinazioni. Ma io non aveva altri con cui mettermi in consorzio, e il mio cuore sentiva la necessità di qualche cosa su cui espandersi. Era stata trascurata anzichè no la educazione del mio nuovo amico. Io mi considerava come superiore a lui per facoltà intellettuali e profitto di fatti studii, ed egli tacitamente questa mia superiorità confessava. Il sentirmi suo uguale per nascita infondeva una certa indipendenza ai modi del mio conversare seco lui, nè tardai, a ravvisare l’efficacia dello stile libero da me adottato, perchè non [p. 30 modifica]s’avvisò mai manifestare trattando meco quella stranezza e quella prepotenza che io gli vedea talvolta usare con altri da lui considerati suoi inferiori. In somma divenimmo intrinseci amici e assidui compagni. Tuttavia mi piacea qualche volta star solo, e dar carriera ai delirii della mia immaginazione attorno alle deliziose scene che ne circondavano.

Dominava questa villa sopra una vasta veduta del Mediterraneo e delle pittoresche liguri coste; sola in mezzo a giardini vagamente ornati di statue e fontane e che terminavano in boschetti, in ombrosi viali, in selvosi diradamenti foggiati dall’arte: tutte vaghezze che, vedeansi quivi ordinate acconciamente allo scopo di dilettare i sensi e di porgere gradevoli intertenimenti alla fantasia. Allettato dalla tranquillità di questo amabile ritiro, le tempeste del mio animo a grado a grado sedavansi, e confondendosi esse con gl’incanti romantici, sempre possenti su la mia immaginazione, si generò nel mio animo un sentimento di molle, voluttuosa malinconia.

Non era trascorso lungo tempo del mio soggiorno sotto il tetto del Conte, quando la nostra solitudine venne animata da un nuovo ospite, o da una nuova ospite per dir meglio, figlia di un defunto parente del Conte, il quale, trovandosi in anguste circostanze, all’istante del morire legò al congiunto la cura di farle da padre. Su l’avvenenza di questa giovane io avea udite molte cose da Filippo, ma la mia fantasia era sì preoccupata dall’idea di una sola beltà, che verun’altra non ammettevane. Ci trovavamo nella grande sala centrale di quel palagio ad aspettare l’arrivo della novella ospite. Avvicinatasi essa, tuttavia vestita da lutto; il Conte le dava braccio entravano già sotto il gran porticato di marmo; e fecero tosto impressione su me la leggiadria della persona e del portamento della donzella, e la grazia onde il mezaro, velo magico delle donne genovesi, si ripiegava attorno alle snelle sue forme. Giunsero nella sala. Dio! Dio! qual fu la mia sorpresa nel vedermi Bianca [p. 31 modifica]dinanzi. Era ella stessa, fatta pallida dai cordogli, e nondimeno perfezionata in bellezza più che nol fosse quando ultimamente la vidi. Questo intervallo trascorso avea svolte in lei nuove grazie della persona; e le afflizioni che sopportò aveano diffusa pel suo volto una tinta di tenerezza soggiogatrice de’ cuori.

Ella arrossì, diè un tremito nel vedermi, e le lagrime le ingombrarono gli occhi nel rammentare in compagnia di quali persone si era trovata allorchè fece la mia conoscenza. Per parte mia non trovo parole ad esprimere da quali commozioni fossi compreso. Pure superai a gradi a gradi quella eccessiva trepidazione d’animo che su le prime mi avea fatto stupido dinanzi a lei: perchè in fine ci sentivamo attratti vicendevolmente da una simpatia di comuni circostanze. Avevamo entrambi perduto il migliore amico che ci rimanesse sopra la terra: entrambi in tal qual modo ci trovavamo alla mercede dell’altrui umanità. Quando poi giunsi a poter apprezzarne le qualità morali, ah! trovai confermata interamente la pittura che la mia immaginazione si era formata di lei. Il noviziato del mondo ch’ella stava allora incominciando; una squisitezza di sentimento che la trasportava verso quanto v’è di bello e d’amabile nella natura, erano altrettante cose che mi rammentavano lo stato dell’animo mio quando fuggii di convento la prima volta. Il suo retto sentire confortava il mio intendimento; la soavità della sua indole si dilatava attorno al mio cuore; e quelle amabili grazie nella freschezza di lor primavera diffondeano un delizioso delirio per la mia mente.

Io la contemplava con una specie d’idolatria; e riguardandola siccome cosa più che terrestre, mi sconfortava l’idea d’essere così poco degno di starle al paragone. Tuttavia ella era terrestre, e d’un terrestre capace di sentire grandemente, e di prestarsi agl’impulsi d’amore, perchè di fatto mi amò.

Come io giugnessi a scoprire una tal verità, che mi trasse [p. 32 modifica]fuor di me stesso, è quanto non so ora ben ricordarmi. Penso che questa verità vincesse a gradi a gradi la mia persuasione come uno di que’ fenomeni maravigliosi che passano ogni speranza o credibilità. Però eravamo entrambi in quella tenera età che è pure l’età dell’amore; in continue occasioni di trovarci insieme; compagni nell’appetire le stesse ricreazioni amabili dello spirito, perchè la poesia, la musica, la pittura erano gl’intertenimenti nostri scambievoli; sempre insieme aggirandoci per mezzo ai cari incanti della immaginazione, vivevamo, può dirsi, separati dal rimanente del mondo. È ella poi si grande maraviglia che due giovani cuori, tanto dalle circostanze ravvicinati, arrivino finalmente a confondersi insieme?

Oh Dio! qual sogno, qual passeggiero sogno di contento puro e senza lega s’impossessò di quest’anima! Allora sì questo mondo divenne un paradiso ai miei occhi; io avea trovata una compagna, una deliziosa compagna che era a parte di tutte le mie sensazioni. Oh quante volte mi diportai lungo i pittoreschi lidi di Sestri, quante volte ne salii gli alpestri gioghi, d’onde io contemplava e quella costa ingemmata di pompose ville, e dinanzi a me l’azzurro mare, e sul suo romantico promontorio la gentile architettura del faro di Genova in lontananza; e quando io sorreggea gli esitanti passi di Bianca, pareami nulla potesse d’infausto avere accesso in questo bel mondo. Oh come spesso abbiamo ascoltato in compagnia l’usignuolo spiegando la ricchezza delle sue note in mezzo ai boschetti del giardino illuminati dalla luna, e ci siamo stupiti che qualche cosa di flebile avessero potuto ravvisare i poeti in quel canto! Perchè, ah! perchè questa primavera della vita e degli affetti è così passeggiera? Perchè la rosea nebbia d’amore che abbellisce di soave luce il mattino de’ nostri giorni, perchè degenera in nembo apportatore di turbini e di tempeste?

Fui io il primo a destarmi da questo beato delirio di [p. 33 modifica]affetti. Era divenuto mio, è vero, il cuore di Bianca; ma che cosa stava io per farne? Io non possedeva ricchezze, non innanzi a me alcuna prospettiva di migliore stato che mi francheggiasse a chiedere la sua mano. Doveva io forse profittare della sua poca esperienza di mondo, o dell’affettuosa fiducia che avea riposta in me, per trascinarla a parte della mia povertà? Sarebbe stato questo il compenso all’ospitalità concedutami dal Conte? il compenso all’amore di Bianca?

Allora io cominciai a sentire che tutto non è rose nemmeno nelle fortune d’amore. Allora le rodenti cure incominciarono a straziare il mio cuore. Io m’aggirava per le stanze del palagio come se fossi stato un malfattore, e sentiva le paure di chi abusa dell’ospitalità, e direi d’un ladro introdottosi di soppiatto fra quelle mura. Non potei più a lungo guardare in volto il Conte senza mostrare fisonomia imbarazzata; io mi accusava di perfido verso lui; e pensai mi leggesse la perfidia negli occhi, e d’indi in poi mi prendesse in diffidenza e sospetto. Que’ suoi modi che per lo innanzi mi sembravano soltanto ostentati e d’aria cortesia su lo stile di quella che professar sogliono i Grandi, incominciarono ad apparirmi freddi, disdegnosi e superbi. Lo stesso Filippo divenne contegnoso meco, e cominciò a tenersi al largo ne’ modi del suo conversare: o almeno così immaginai. «Oh Dio! dicea tra me, son queste forse mere fabbriche della mia fantasia, che stanno per mettermi tutto il mondo in sospetto? Mi troverei io nel caso del misero che immagina continuamente disastri, che fisa gli sguardi, gli atteggiamenti d’ognuno, e che tormenta a furia di false interpretazioni sè stesso? Ma, se non son false, a che rimanere più a lungo in una casa ove appena io mi vedo tollerato, a che languire quivi nell’abiezione? Questa non è cosa da sopportarsi, esclamai. Mi toglierò, sì mi toglierò a questo stato di avvilimento di me medesimo. Romperò questa malia; m’involerò... Involarmi!.. Dove? Fuori del mondo, perchè [p. 34 modifica]dov’è il mondo quando mi sono allontanato da Bianca?»

Di altero animo per natura, mi scoppiava il cuore in petto alla sola idea di essere riguardato in tuono di disprezzo. Più di una volta mi vidi sul punto di manifestare a quale famiglia io spettassi e il mio grado; e quando sembravami che i parenti di Bianca mi trattassero superbamente, fui io procinto di pretendere da essi, alla presenza della giovine amata, i riguardi ad un uguale dovuti. Ma poco durai in tale proposito. Io vedea in me stesso un ente ributtato, tenuto a vile dalla mia gente; e avea fatto solenne voto di non rannodare più mai con questa gli antichi vincoli, finch’ella medesima non chiedesse vederli rinnovellati.

Questa interna lotta distruggeva la mia tranquillità e la mia salute ad un tempo. Arrivai quasi a credere che un’incertezza di essere amato da Bianca mi sarebbe stata meno intollerabile del vedermi sicuro della sua tenerezza, e del non osare tuttavia abbandonarmi alla gioia prodotta da una tal conoscenza. Io non vedea più omai in me medesimo l'entusiastico ammiratore di Bianca; non omai l’uomo rapito in estasi dalle soavi modulazioni della sua voce; nè i miei occhi omai, insaziabili come dianzi, beavansi all’incanto ineffabile di quel volto. Perfino un sorriso di Bianca non mi deliziava più, perchè io facea a me stesso rampogna di averlo usurpato.

Ella non potea non accorgersi di questo cambiamento in me avvenuto, nè tardò a chiedermene coll’usata sua semplice ingenuità la cagione. Io non avrei potuto scansarmi dal risponderle la verità, perchè il dolore traboccava di per sè stesso fuor del mio cuore. Le confessai quindi i conflitti cui la mia anima trovavasi in preda, la passione che mi struggea, gli acerbi rimproveri ch’io faceva a me stesso. «Sì, io le dicea: sono indegno di voi; un ente rigettato dal seno della mia gente; un avventuriere... un avventuriere privo di nome e di famiglia; che non posso nè manco vantare per mio retaggio la povertà!.. e tuttavia ho osato [p. 35 modifica]amarvi!.. ed ho osato tuttavia aspirare al vostro amore!»

Lo scorgermi in tanta agitazione la mosse al pianto; ma poi non trovò così disperato il mio caso, come io gliela aveva dipinto. Allevata fin allora in un convento, ella non conosceva nulla delle cose del mondo: non le cure, non i bisogni; e per vero dire qual è la donna che in affari di cuore sia buona maestra del viver del mondo? Tutt’altro.

Un soave entusiasmo la infervorò quando si fece a parlarmi di me e del mio stato. Più volte ci eravamo insieme intertenuti su i lavori degli artisti più rinomati. Io le area raccontate le loro storie, l’alta fama, la preponderanza, lo splendore cui erano pervenuti. I compagni de’ principi, i favoriti dei re, coloro che divennero orgoglio e vanto dei loro paesi, tutte queste cose Bianca adattava al mio caso. Il suo amore non vedea nulla di grande fatto da essi ch’io pure non potessi condurre a termine; e quando io contemplava quest’amabile creatura animata da tanto fervore, e tutto il suo volto fatto raggiante dalle visioni della mia gloria, mi trovai per un istante avvolto nell’atmosfera stessa della sua immaginazione.

Dimoro troppo, lo vedo, su questa parte della mia storia; ma non so non arrestarmi su quel periodo della mia vita in cui (oh quanto or lo sospiro!) potè la mia anima, in mezzo a tanti affanni e tumulti, serbarsi immune da colpa. Ignoro fin dove questa lotta tra l’orgoglio, i riguardi d’onore e la passione mi avrebbe condotto, se non avessi letta in una gazzetta di Napoli la notizia della morte improvvisa di mio fratello. A tale notizia andava unita una premurosa raccomandazione perchè fosse fatta ricerca della mia persona, e una sollecitazione a me stesso, se quell’avviso perveniva alla mia lettura, di trasferirmi a Napoli per conforto di un infermo e desolato genitore. Io avea un animo affettuoso per indole e compassionevole; ma mio fratello non era mai sfato un fratello per me. Da tanto tempo egli era divenuto sì estranio alla mia mente, che la sua [p. 36 modifica]morte non mi diede un’afflizione più che ordinaria. L’idea bensì di un padre infermo e oppresso dai patimenti mi toccò al vivo: onde in pensando che quell’ente, un dì sì fastoso ed altero, or vivea nella prostrazione e nell’affanno, e mi sospirava per suo conforto, il poco conto ch’egli fece di me in addietro fu dimenticato, ogni risentimento fu vinto, una fiamma di filiale affetto si risvegliò nel mio seno.

Pure il sentimento che predominava tutti gli altri, fu l’eccesso della gioia da me concepita per quel subitaneo e generale cambiamento di mia fortuna. Io tornava ad appartenere ad una famiglia; un chiaro nome, un grado in società, le ricchezze mi aspettavano; fin l’amore mi presentava in lontananza una prospettiva più incantatrice. Mi affrettai verso Bianca, e caddi ai suoi piedi. «Bianca! esclamai, posso or finalmente chiamarvi mia. Io non sono or più un avventuriere privo di nome, un fuoruscito spregiato e ributtato dalla società. Guardate... leggete... considerate qui le notizie che mi restituiscono il mio nome di famiglia, e me a me medesimo».

Non mi dilungherò su la scena che venne dopo. Di questo cambiamento del mio stato si allegrò Bianca come di cosa che sgravava dagli affanni il mio cuore: perchè quanto a lei, mi aveva amato per me medesimo, nè avea mai concepito il menomo dubbio che i miei meriti personali non avessero un giorno fatte mie tributarie la fama e la fortuna.

Io sentii allora tutto il mio ingenito orgoglio galleggiare entro il mio seno. Non più lungamente io tenni gli occhi bassi sopra la polve; la speranza li sollevava al firmamento; la mia anima, fatta ardente di nuova fiamma, mi scintillava sul volto.

Il mio primo desiderio era partecipare al Conte il mutato stato di mia condizione, fargli noto chi e qual mi fossi; chiedergli formalmente la mano di Bianca; ma andato questi ad alcuni suoi poderi distanti di lì, era assente in quel punto. Apersi tutto il mio animo a Filippo. Per la prima [p. 37 modifica]volta egli intese allora dal mio labbro la mia fiamma amorosa, i dubbii e i timori che mi avevano lacerato, i nuovi eventi che d’improvviso li dissiparono. M’innondò egli con un profluvio di congratulazioni e di frasi atte ad esprimere la più calda amicizia; io lo strinsi con effusione di cuore fra le mie braccia. — Mi addolorai per avere in addietro sospettato l’animo suo di freddezza, e gli chiesi perdono se dubitai anche un solo istante della sua amicizia.

Oltre a quanto possa descriversi, sono fervide ed entusiastiche le espansioni di cuore fra i giovani. Filippo si prendea una calorosa sollecitudine per gl’interessi di Bianca e di me. Divenne il nostro confidente e consigliere. Fu deciso ch’io tosto mi trasferirei a Napoli, per riconfermarmi colà nell’amore di mio padre, e ripigliare il mio posto nel seno di mia famiglia; e che appena seguito l’atto della riconciliazione, e certo del consenso paterno alle nozze da me sospirate, io tornerei a Genova per domandare al Conte la mano di Bianca. Filippo si obbligava dal canto suo ad assicurarne l’assenso del proprio padre; e si prese di fatto l’incarico di vegliare su i nostri interessi, e di rendersi fra Bianca e me il canale di mutua corrispondenza.

Il mio congedo da Bianca fu tenero... delizioso... angoscioso. Ne fu teatro un picciolo padiglione del giardino, stato per l’addietro uno tra i nostri più favoriti ritiri. Oh! Come spesso tornai e ritornai addietro per darle anche un addio: per vedere ancora fisi su me quegli occhi, eloquenti interpreti de’ muti sentimenti ond’era commosso il suo cuore; per bearmi alla tenera vista delle lagrime che su quelle amabili guance scorreano; per prenderle anche una volta la dilicata mano, ingenuo pegno dell’amore ch’ella mi avea conceduto, e coprirla di pianti e di baci. Oh dio! anche nella tormentosa separazione di due amanti havvi tal diletto che equivale a migliaia d’insipidi piaceri di questa terra. In questo momento ancora parmi averla dinanzi agli occhi affacciata al balcone allontanando con la gentil mano [p. 38 modifica]le frasche di una vite che co’ suoi grappoli faceva ingombro alla esterna parte della finestra. Io vedo tuttavia quelle leggiadre forme che raggiavano di virgineo splendore; quel volto in cui si alternavano il sorriso dell’amore e le lagrime dell’affanno; le migliaia e migliaia di salutazioni con le quali mi accompagnò, allorchè, esitando in un delirio di tenerezza e di angoscia, posi il piè barcollante fuori del viale.

Appena una barca mi ebbe condotto fuori del porto di Genova, con quanto ardore il mio occhio si distendea lungo la costa di Sestri cercando la vista dell’abbandonato soggiorno di Bianca! Nè ebbe tregua finchè non trovò il sospirato punto di luce che tal deliziosa vista gli ripercotea di mezzo agli alberi verdeggianti alle falde delle montagne. Di quanto fu lungo il giorno, d’altrettanto i miei guardi durarono nel fisare sol quella veduta, che s’impicciolì e s’impicciolì, sintantochè non appariva che un punto bianco in lontananza; e tuttavia tanto intenso era il mio vagheggiar questo punto, ch’io continuava a discernerlo quando ogn’altra cosa di quella costa avvolgeasi in una indistinta confusione, e si perdea nel crepuscolo vespertino.

Giunto a Napoli, mi affrettai in cerca del mio domestico tetto: chè mi balzava il cuore in pensando a questo ritorno dell’amor paterno tardatomi per sì lungo tempo. Entrando sotto il maestoso arco della porta del mio avito palagio, tal commozione provai, che cerco indarno parole a spiegarla. Niuno mi conosceva; i servi mi contemplavano con curiosità e maraviglia. Pochi anni di migliorate e svolte facoltà intellettuali aveano operato un prodigioso cambiamento sul povero giovinetto fuggente dal chiostro. Tuttavia il non trovare nel seno legittimo di mia famiglia uomo che mi ravvisasse, era tale idea cui non sapeva adattarsi il mio spirito. Io vedea in me stesso, io sentiva il ritorno del figliuol prodigo; io straniero in mezzo della mia gente: proruppi in un dirotto di lagrime. Nondimeno, appena fattomi conoscere, [p. 39 modifica]cambiarono d’aspetto tutte le rose. Io, stato un dì poco meno che espulso da quelle mura, io costretto ad involarmene a guisa, di un esiliato, io vi fui riaccolto fra acclamazioni e servile festeggiamento. Andò frettoloso un servo per preparare l’animo del vecchio genitore a ricevermi. Ma la mia impazienza de’ paterni amplessi era tanta, che mi impedì aspettarne il ritorno, e corsi su le sue tracce. Oh quale spettacolo mi ferì il guardo al mio primo entrare nella stanza! Un padre ch’io avea lasciato lieto della superba energia dell’età vigorosa, il cui portamento altero e maestoso avea intimorita la mia giovine mente, io lo vedea allora prostrato di forze e languente nella decrepitezza. Una paralisi avea ridotte le sue nobili forme, che in quel punto offrivano unicamente l’aspetto di un edifizio crollante in rovine. Sedea puntellato su la sua scranna a bracciuoli; pallido, appassito erane il volto; errabondi gli occhi, che pareano di vetro. Le potenze della mente aveano pur queste sentito il guasto di quella fabbrica. S’ingegnava intanto il servo per dargli a comprendere che una persona venuta per visitarlo gli stava a fianco. Nell’avvicinarmegli di più io barcollava; caddi a’ suoi piedi. Ogni passata freddezza, ogni sua antica non curanza di me rimasero cancellate dalla mia memoria alla vista degli attuali suoi patimenti. Rammentai unicamente ch’egli era mio padre, e ch’io era fuggito da lui. Abbracciai le sue ginocchia, e soffocata quasi la mia voce da convulsivi singulti: Perdono, padre mio! perdono! furono le sole parole che potei profferire. Sembrò che a gradi a gradi gli tornasse la intelligenza. Mi contemplò per alcuni momenti con occhio d’incertezza e di curiosità; un convulsivo tremore stava attorno alle labbra sue palpitanti; stese adagio adagio la tremebonda sua mano; la portò sul mio capo; diede in uno scoppio di pianto infantile. D’allora in poi non avrebbe voluto mai separarsi un momento da me. Io appariva ai suoi occhi il solo oggetto che movesse le fibre del suo cuore su questa terra: il rimanente era un deserto per lui. Avea quasi [p. 40 modifica]perduta la facoltà di parlare; e quella di ragionare sembrava al suo termine. Egli era un ente muto, quasi privo di senso; se si eccettuino alcuni impeti che lo traevano come un fanciullo alle lagrime, pronte a sopravvenire senza che ne apparisse alcun ragionevole motivo. Se io lasciava per poco la stanza, non partiva più gli occhi dall’uscio finchè non fossi ritornato, e al vedermi entrare era un nuovo dirotto di pianti.

Parlargli de’ miei affari, in quello stato mal ridotto della sua mente, sarebbemi sembrata una cosa più disumana ancora che inutile: perchè il dividermi da lui, fosse pure stato per breve tempo, mi si mostrava come un atto crudele e fuor di natura. Qui allora dovetti fare nuova violenza al mio cuore. Scrissi a Bianca narrandole il mio ritorno e l’attuale mia situazione, e le dipinsi con tinte vivaci, perchè tolte dal vero, i tormenti che io sopportava per questa acerba separazione de’ nostri esseri, giacchè al giovine amante ogni giorno di lontananza dall’oggetto amato è un secolo di beatitudini amorose perduto. Inchiusi la mia lettera entro una a Filippo, canale, come dissi, della nostra corrispondenza. Ricevei da questo una risposta tutta spirante amicizia e cordialità; altra da Bianca, che mi facea certo del suo amore, della sua costanza. Settimane a settimane, mesi a mesi si succedettero senza che verun cambiamento accadesse nelle mie circostanze. La fiamma vitale, che parca vicina ad estinguersi quando rividi la prima volta mio padre, andava sbattendosi tuttavia senza apparenza sensibile di scemamento. Io gli prestava la mia servitù incessantemente, con sincerità di cuore, e, ho quasi detto, con pazienza. Certo io sapea che la sua morte sola potea farmi libero; ma non mi è mai venuta nemmeno l’idea di desiderare la mia libertà ad un tal costo: troppo mi era cara questa occasione di espiare un’antica disobbedienza; e poichè io avea sfortunatamente nella mia gioventù poste in non cale le vie di meritarmi il paterno amore, il mio cuore adulto dedicava tutte le atte cure ad un padre, [p. 41 modifica]che giunto agli anni di non potersi aiutare da se medesimo, si era abbandonato a me come ad unico suo sostegno.

L’amor mio per Bianca acquistava nuovo vigore ogni giorno, dalla stessa lontananza, e il continuo meditare a lei scavava sempre più i solchi conduttori di una passione padrona già del mio animo. Io non facea intanto nuove amicizie, non conoscenze; nè cercava alcun de’ diletti che in una città, come Napoli, il mio grado e lo stato di domestica fortuna mi schieravano innanzi. I miei piaceri stavano nel mio cuore, concentrato a pochi oggetti, ma dimorante in essi con tutta l’intensità della passione. Sedermi vicino a mio padre, amministrargli le cose delle quali abbisognava, nel silenzio della stanza paterna pensare e pensare a Bianca, erano queste le abituali mie consuetudini. Se talvolta io cercava ricrearmi col mio pennello, io lo cercava per dipingere quella immagine che stava ognora presente alla mia fantasia. Io ne consegnava alla tela tutti gli sguardi, tutti i sorrisi, chè tutti mi stavano scolpiti sul cuore. Ho fatto vedere talvolta questi lavori a mio padre con la speranza di eccitare nel suo seno qualche interesse verso questa ombra dell’amor mio; ma troppo impoverito erane l’intelletto perchè a tali cose lo attraesse nemmeno una fanciullesca curiosità. Ogni lettera ch’io ricevea da Bianca era per me nuova fonte di solitario diletto. Queste lettere, è vero, divenivano a mano a mano più rare; ma le attestazioni d’invincibile affetto mai in esse venivano meno. Non dirò che spirassero quel calore spontaneo ed ingenuo onde Bianca mi spiegava, quando eravamo insieme, i suoi sentimenti; ma io ne diedi colpa a quell’imbarazzo che trovano le giovani menti nel ritrar se medesime su la carta. Filippo mi accertava ch’ella serbami inalterabilmente costante. Entrambi in fortissimi termini si lagnavano della prolungata nostra separazione, benchè rendessero giustizia a quella filiale pietà che mi rendeva immobile dal fianco del padre. [p. 42 modifica]

Due anni all’incirca di questo protratto esilio trascorsero, due anni che mi sembrarono secoli. Ardente e impetuoso per natura, so appena dire come avrei sopportata una sì lunga lontananza se non mi fossi sentito certo che la fede di Bianca pareggiasse la mia. Per ultimo, mio padre morì. La vita quasi insensibilmente lo abbandonò. Mi tenni sempre nello stato di muta afflizione al suo fianco, e dovetti contemplare gli spasimi della natura spirante. Le sue ultime tremebonde, balbettanti voci erano benedizioni versate sopra il mio capo. Oh dio! in qual modo le vidi in appresso esaudite!

Poichè ebbi tributato debito onore ai mortali avanzi del genitore, e vedutili collocare nella tomba de’ nostri antenati, diedi alle mie cose domestiche tal sesto ch’io potessi con minor fatica governarle ancorchè lontano; indi imbarcatomi partii di nuovo, e col cuore che mi balzava in seno, alla volta di Genova.

Prospero fu il nostro viaggio; e oh! qual estasi mi rapì nell’alba di quel giorno in cui mi si pararono innanzi le boscose cime degli Appennini che quasi a guisa di nubi circondavano l’orizzonte. Una grata aura estiva increspava a seconda il flutto che ci traea verso Genova. Avvicinatasi a noi per insensibili gradi, surse dall’argenteo seno del mare, quasi creata da un incanto, la costa di Sestri, e con essa la serie di ville e superbi palagi che tutta abbellivano quella riva. Tornò il mio occhio a cercare quel ben noto punto, e potè finalmente di mezzo alla confusione di lontani oggetti discernere la villa che era soggiorno di Bianca, mero punto in quella unione di paesaggi, ma giunto che sorgea di lontano come stella polare di questo cuore.

In questo punto io tenni immoto lo sguardo per tutta una di quelle lunghissime estive giornate; ma oh qual differenza fra le sensazioni che nella mia andata, e or nel ritorno questa vista medesima destava in me! Or s’ingrandiva e s’ingrandiva ad ogn’istante a’ miei sguardi quel [p. 43 modifica]punto che d’altrettanto scemava mentre io partiva; e a proporzione di questi aumenti visuali parea si dilatasse il mio cuore. Mi diedi a contemplare quella soave meta de’ miei voti col telescopio. Già sembravami a grado a grado discernere una forma dall’altra; e il poggio del salone di mezzo d’onde scorsi Bianca la prima volta che entrava sotto quel tetto; e il terrazzo ove sì di frequente avevamo trascorse in compagnia le deliziose estive serate; e la cortina che moderava la luce della finestra della sua stanza; dietro la quale cortina io già vedea Bianca con la mia fantasia. Oh avesse ella potuto sapere, io pensava, che il suo amante sta entro al legno le cui vele or biancheggiano su le argentee spume che percuotono questo lido! La mia ardente impazienza col più avvicinarmi a questo lido crescea; io accusava il bastimento di fendere pigramente le onde, e avrei tolto a patto fosse pericolato, e raggiugnere più presto a nuoto quella sospiratissima spiaggia.

Le ombre vespertine a grado a grado copersero questa scena; ma surta la luna in tutta la sua pienezza e beltà, spargea su la incantata costa di Sestri quella blanda luce tanto cara agli amanti. La mia anima entrava in un pelago d’ineffabile dolcezza. Io già mi anticipava al pensiero le beate sere che trascorrerei ancora diportandomi al lume di quell’astro benefico in compagnia della sovrana de’ miei affetti.

Era già notte avanzata prima ch’io entrassi nel porto, e solo allo spuntare del successivo mattino potei vedermi libero dalle formalità dello sbarco. Montai a cavallo, e m’affrettai alla volta della ben nota villa. Intantochè io radeva galoppando i fianchi dello scoglioso promontorio su cui sta il Faro, e mentre io vedea schiudersi dinanzi a me la costa di Sestri, mille ansiose dubbiezze sursero d’improvviso entro il mio seno. Un tal qual sentimento, che partecipa di terrore, va sempre unito ai ritorni degli amanti: l’amara incertezza cioè sui danni o i cambiamenti che possa avere operati la lontananza. Sì violenta agitazione provai in quel [p. 44 modifica]punto, che tutte le mie fibre ne furono scosse. Spronai il cavallo perchè galoppasse ancora di più: era coperto di spuma, entrambi anelanti, quando mi trovai sovr’esso dinanzi al cancello che guidava ai terreni della cercata villa. Lasciato il cavallo ad una casa di contadini, feci a piedi quel tratto di cammino, procurando intanto riacquistare la calma necessaria a prepararmi all’incontro desiderato e già prossimo. Io rampognai me medesimo per aver potuto così di leggieri darmi in preda a meri dubbii e immaginazioni; ma è noto quanto la mia anima fosse cedevole ai varianti impulsi del sentimento.

Entrando nel giardino, tutti gli oggetti mi si presentarono nell’aspetto medesimo in cui io gli aveva lasciati; e tale non cambiato aspetto di cose mi confortava. Qui erano i viali entro cui furono sì frequenti i nostri passeggi, e ove Bianca ed io porgevamo attento orecchio ai canti dell’usignuolo; questi frascati ne accolsero così sovente seduti insieme, e ne difesero con la loro ombra dagli ardori del mezzogiorno. Qui gli stessi fiori prediletti di Bianca, e ogni apparenza dicea che la mano di lei governavali tuttavia. Tutto quivi additava, tutto spirava Bianca; e la speranza e la gioia inondavano ad ogni passo il mio seno. Giunto ad un picciolo pergolato, all’ombra del quale più d’una volta ci eravamo seduti leggendo, trovai sopra un sedile un libro ed un guanto. Era di Bianca quel guanto; il libro, un volume del Metastasio ch’ella avea ricevuto da me. Il guanto serviva di segno ad uno de’ miei passi più favoriti. Me lo strinsi estatico al cuore. «Tutto è salvo (esclamai): ella mi ama ancora, ella è sempre mia».

Giunsi in fondo al viale con altrettanta prestezza quanta fu la lenta esitazione con la quale ne uscii nel giorno della mia partenza. Io vedea già il padiglione favorito di Bianca che fu teatro della nostra separazione. Aperta era quella stessa finestra, e le si arrampicava attorno quella stessa vite, tutto nel medesimo stato come allor quando immersa [p. 45 modifica]nelle lagrime mi mandava con la mano le salutazioni di quell’addio. Oh come l’idea dell’antitesi di questi due stati rapivami l’anima! Passando finalmente vicino al padiglione, udii modularsi tuoni di voce femminile; è il canto mi riguardava, ed erano invocazioni al mio cuore tanto patenti, ch’io non potea intorno a ciò prendere equivoco. Prima di pensarlo, sentii che era questa la voce di Bianca. Mi fermai un istante per dar tregua alla soave agitazione che s’impossessò di tutto me stesso; e paventando i pericoli di un troppo subitaneo sorprenderla, salii pian piano i gradini del padiglione. Aperta era la porta. Trovai Bianca seduta ad una tavola, nè potea ella vedermi perchè stavano volte a me le sue spalle. Continuava ella gorgheggiando una mesta soave arietta, e disegnava ad un tempo. Bastò un’occhiata ad istruirmi ch’ella copiava in quel punto uno dei miei lavori. Stetti fisandola per un istante tutto compreso di un delizioso tumulto d’affetti. Fece pausa al canto, cui segui un profondo sospiro, poco men che un singulto. Non potei rattenermi più a lungo. «Bianca», esclamai con accento pressochè soffocato. All’udir questo suono di voce la donna del mio cuore tutta si scosse; mandò addietro le anella di capelli che le coprivano il volto; lanciò uno sguardo su me; mise un acuto grido, e sarebbe caduta a terra se io non la ricevea fra le mie braccia.

«Branca! mia Bianca!» esclamai, stringendola contro il mio petto, e con la voce soffocata dai singulti di convulsa gioia. Ella posava priva di senso e moto fra le mie braccia; Intanto io, venuto in timore su gli effetti dell’essermi troppo affrettato, sapeva appena a qual partito appigliarmi. Provai mille carezzevoli parole a fine di richiamarla a se stessa. Lentamente in fine si riebbe, e cogli occhi socchiusi: «Ove son io?» languidamente bisbigliò. «Qui (esclamai, serrandola con maggior forza al mio seno). Qui; stretta al cuor che vi adora, tra le braccia del vostro fedele Ottavio». «Oh no, no, no! (gridò ridestatasi con subitaneo impeto [p. 46 modifica]alla vita in uno e al terrore.) Andate via di qui! andate via! Lasciatemi! lasciatemi!»

Sveltasi dalle mie braccia, corse come rifuggendosi ad un angolo della sala, e si copriva il volto, quasi il mio aspetto presentasse una vista infausta al suo sguardo. Io rimasi com’uom percosso dal fulmine; nè potea prestar fede ai miei sensi medesimi. Tremebondo, confuso, la seguitai. Mi sforzai prenderle la mano; ma ella la ritrasse abbrivida qual se l’idea di toccarmi le inspirasse orrore.

«Giusto Dio! Bianca! (esclamai) Come si spiega un tale mistero? È questa l’accoglienza dopo una sì lunga lontananza? questo l’amore che mi giuraste?»

All’udire commemorare la voce amore, tutta raccapricciò; e voltasi a me con viso in cui leggeansi affanno, delirio, disperazione: «Mai più questa parola! mai più! (anelante dicea). Non mi parlate più mai d’amore... Io son maritata!»

Barcollai come se avessi ricevuto un mortal colpo; e tale fu di fatto al mio cuore; raggiunsi un telaio di finestra cercando a che reggermi. Per alcuni momenti erano un caos tutte le cose che mi stavano intorno. Riavutomi dal primo stordimento, vidi Bianca stesa sopra un sofà, che tenea il capo sepolto in mezzo ai cuscini, e in convulsivi singulti anelante. Lo sdegno mosso in me dalla sua incostanza prevalse per allora ad ogn’altro sentimento.

«Mancatrice di fede! spergiura!» (io gridava trascorrendo su e giù a lunghi passi la stanza.) Ma un’occhiata volta di nuovo su quell’ente angelico che soffriva ammollì tutto il mio risentimento. Ah la collera insieme con l’idea di lei non potea soggiornare in quest’anima!

«Oh Bianca! (angoscioso esclamai.) L’avrei io nemmen sognato? Poteva io mai sospettare in Bianca una donna che m’avrebbe ingannato?»

Sollevò allora il volto tutto inondato di lagrime, e in cui tutto il tumulto appariva de’ suoi affetti; poi volgendomi una commoventissima occhiata, soggiunse: «Io ingannato voi! Voi che mi raccontarono che eravate morto!» [p. 47 modifica]

«Come? (dissi.) È forse conciliabile questo con la costante nostra corrispondenza?»

Fisò il guardo in aria sorpresa su me: «Corrispondenza! di qual corrispondenza parlate?»

«Non avete voi ricevute ripetutamente mie lettere, e fatta a queste risposta?»

Giunse ella in tuono solenne e fervoroso le mani: «Quanto è vero che confido nella misericordia celeste, mai!»

Un orribil sospetto m’invase in quel punto la mente: «Chi vi ha raccontato ch’io era morto?»

«Mi fu narrato che il legno entro cui v’imbarcaste per trasferirvi a Napoli, naufragò».

«Ma chi vi ha fatto questo racconto?»

Si rattenne silenziosa un istante; poi tremò nel rispondermi: «Filippo».

«Dio del Cielo, maledicilo nella tua collera!» (gridai sollevando all’aria serrati entrambi i pugni della mia mano).

«Oh! non gli augurate male, non gli augurate male (ella esclamò). Egli è... egli è mio marito».

Era ciò quanto mancava a spiegare compiutamente la perfidia usatami da costui. Mi bolliva il sangue come fuoco liquido entro le vene. I miei aneliti esprimevano inenarrabile rabbia. Rimasi per qualche tempo cupamente assorto in mezzo ad un turbine di atri pensieri ch’io volgea già nella mente. Quella infelice vittima dell’inganno intanto mi stava dinanzi, e giudicando fosse contra lei la mia collera, articolava con voce quasi spenta le sue discolpe. Non mi diffonderò su tale argomento. Io scorgea già più di quanto ella pensò rivelarmi, ed avea bastato una sua occhiata a farmi comprendere come fossimo stati entrambi traditi.

«Egli sì (susurrai fra me stesso con soffocati accenti di furor concentrato) egli, egli mi renderà buon conto di tutto».

Non parlai tanto sommesso che Bianca non arrivasse a comprendermi, e si manifestò nel suo volto il nuovo [p. 48 modifica]terrore che l’assali: «Per amor del Cielo, fate di non incontrarvi con lui!.. Non dite nulla di quanto è accaduto!.. Per amor mio non gli dite nulla!.. Io sola ne sarei la vittima».

Nuovi sospetti allor mi ferirono con forza la mente: «Voi lo temete dunque? Egli è scortese con voi? Parlate (e stringendole la mano e guardandola con ardore reiterai ancora la stessa inchiesta). Parlate. Ardisce egli osare di modi aspri con voi?»

«No - no - no!» esclamò ella esitante e con aria d’imbarazzo; ma la guardai in volto, e una sola occhiata mi spiegò più di quel ch’io volessi. Io vidi nelle sue pallide e smunte guance, nel subitaneo terrore, nell’agonia di quegli occhi depressi tutta la storia di un’anima soggiogata dalla tirannide altrui. Gran Dio! E dovea questo fior di beltà essermi tolto perchè un barbaro lo calpestasse in tal guisa? Tale idea mi trasse in delirio. Io digrignava i denti; mi contorcea le mani; le mie labbra spumavano; ogni passione si era sciolta in furore a guisa di bollente lava entro il mio cuore. Bianca, divenuta per la paura incapace di favellare, si allontanò. Mi affacciai alla finestra, i miei occhi cercavano tutto quel viale quant’era lungo. Fatal momento! vidi Filippo in distanza. Allor la mia mente non fu più padrona di se stessa. Balzai fuor del padiglione, e con la celerità del lampo gli fui dinanzi. Appena mi vide precipitoso corrergli incontro, si volse pallido e con occhio stralunato guardandosi a ritta e a manca, come cercando se vi fosse via di sottrarsi; indi sguainò con mano tremebonda la spada.

«Sciagurato! (esclamai) ben potete ora sguainare la spada».

Non aggiunsi parola; trassi un pugnale; lo disarmai del ferro che gli tremolava nelle mani; gli piantai il mio nelle viscere. Cadde egli sul colpo, ma sazia non era ancor la mia rabbia. Me gli gettai addosso col furore di una tigre assetata di sangue; raddoppiai i colpi; straziava nella mia [p. 49 modifica]frenesia le carni della mia vittima; lo afferrai per il collo, sintantochè a furia di reiterate ferite, fra soffocanti convulsioni, mi spirò dinanzi ai piedi. Rimasi indi a contemplarne il volto, orribile fin dopo morte, e parea contraccambiasse i miei sguardi con due occhi che gli uscivano fuor della testa. Il romore d’acute grida mi destò da quell’orrendo delirio. Guardai all’intorno; ed erano le grida di Bianca che vidi correre verso noi disperata. La mia mente non connettea più le idee... Non volli aspettar quell’incontro; fuggii da tale scena d’orrore... Fuggii da que’ luoghi, come un secondo Caino, con l’inferno nell’anima, la celeste maledizione sul capo. Fuggii senza saper dove, e quasi senza sapere perchè. Mia unica idea era portarmi lontano e ben lontano dagli orrori ch’io mi lasciavi addietro, come se mi fosse stato possibile frammettere tra me e la mia coscienza un intervallo. Fuggii su l’Appennino e vagai giorni e giorni per quegl’inospiti monti. Come io mi tenessi in vita, non so raccontarlo... quali rupi, quali precipizii affrontassi, perchè gli affrontassi, non ne serbo veruna idea. Errai qua e là quasi tentando oltrepassar co’ miei viaggi i confini della maledizione che stava sempre con me. Oh Dio! le grida di Bianca mi rintronavano continuamente all’orecchio; l’orribile volto della mia vittima erami a tutti gl’istanti presente; il sangue di Filippo chiedendo vendetta sorgeva da ogni terra che il mio piede calcava. Rupi, alberi, torrenti, ogni cosa risonava del mio delitto. Allora io sentii non esservi, fra tutte le insopportabili angosce di un’anima, un’angoscia più insopportabile del rimorso. Oh! avess’io potuto non aver commesso il misfatto che portò la cangrena entro il mio seno!.. Oh avessi potuto riguadagnare l’innocenza che vi regnava allorchè entrai nel giardino di Sestri!.. Oh avessi potuto ridonare a vita l’uomo sagrificato al mio furore, e mi sarei sentito ebbro di gioia al suo aspetto, quand’anche mi fosse stato forza veder Bianca fra le sue braccia.

A gradi a gradi questa febbre farnetica del rimorso si [p. 50 modifica]convertì in una permanente infermità mentale, infermità delle più orribili, con coi la celeste maledizione abbia percosso mai uno sciagurato mortale. Ovunque io andassi parea che l’immagine dell’uomo da me trucidato mi fosse addietro. Ad ogni volgere di capo, io mel vedeva alle spalle, sformato da quelle stesse contorsioni che me ne rendettero sì tremendo l’aspetto nell’istante della sua morte. Io avea provata ogni via per sottrarmi alla visione orribile di questa fantasma, ma invano. Fosse illusione della mia mente e conseguenza degli spaventi di cui fu imbevuta ne’ primi anni della mia educazione nel chiostro, o fosse un vero fantasma spedito dal Cielo per punirmi, è quel che non saprei dire; ma certo ovunque io fossi la fatal visione trovavasi... io tutti i tempi... in tutti i luoghi... Non decorso d’anni, non cambiato tenore di vita mi assuefecero ai terrori che il malauguroso spettro inspiravami. Ho viaggiato di paese in paese... sperimentato divagamenti, ricreazioni di tutti i generi... tutto... tutto fu invano. Ricorsi al mio pennello, come ad un’ultima prova. Ah! io dipignea con esattissima somiglianza l’immagine del mio fantasma persecutore. Mi posi dinanzi agli occhi questo fatale ritratto pur mosso dalla speranza che il costante contemplare la copia diminuisse l’orrore inspiratomi dall’originale. Non feci che raddoppiare, anzichè scemare, la miseria che m’opprimeva. Tale era la maledizione congiunta ad ogni mio passo, che mi sembrava un peso la vita; pur mi atterriva il pensier della morte. Dio sa quello che ho sofferto; e quanti giorni e giorni e notti e notti ho passato fra tormenti che non avevano posa; egli sa qual verme non soggetto a morir mai ha continuato sempre a divorarsi il mio cuore, qual inestinguibile incendio ad avvampare la mia povera immaginazione. Egli sa quali flagelli hanno percossa la mia sciagurata debole esistenza convertendo il più soave e tenero degli affetti nel più mortifero de’ furori; e più d’ognuno egli sa se questa misera creatura peccatrice abbia finalmente per tormenti senza [p. 51 modifica]termine e per rimorsi senza misura espiata la colpa di un istante di delirio. Oh quante volte prostrato nella polve, quante volte ho implorata la misericordia di questo sommo Ente, affinchè voglia darmi finalmente un contrassegno del suo perdono, e concedermi di morire!

Fin qui arriva quello ch’io scrissi in piè volte. Era mia mente lasciarvi questa ricordanza di sventure e di colpe, affinchè la leggeste quando io più non fossi.

La preghiera che sollevai al Cielo venne finalmente ascoltata. Voi foste spettatore degli atti d’interna commozione ch’io manifestai nella trascorsa sera, allor quando le volte del tempio, ove stavamo in compagnia, ripeteano le voci indicanti l’olocausto fatto di se medesimo dal Redentore del mondo. Io udiva allora una voce che perveniva al mio orecchio di mezzo alla musica, e crescea sopra le note dell’organo e i sonori canti del coro... essa mi parlò in tuono di celeste melodia... essa mi promise mercede e perdono; ma chiese ad un tempo una piena assoluta espiazione da me. Mi accingo a darla. Domani mattina io mi sarò già incamminato alla volta di Genova per consegnarmi colà, io stesso, nelle mani della giustizia. Voi che commiseraste i miei patimenti, voi che versaste su le mie ferite i balsami soavi dell’amicizia, deh! or che vi è nota la mia vita, non rifuggite con orrore dal rimembrarmi. Rammentate che, quando leggerete la storia del mio delitto, allora lo avrà già espiato il mio sangue.

Estratta dal Nuovo Ricoglitore
Quaderni XIV. XV. XVI.