18. Samarcanda dopo Tamerlano

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Or vo’ che sapiate, che di qui a Sacamante sono quaranta giornate sanza ville o castelli da farne menzione. E voglio che sapiate che questa città di Sacamante si fa più di diciotto mila migliaia di fuochi. E la loro moschea, ciò è chiesa dove e’ fanno orazione, à mile cinquecento colonne di marmo bianco; e drento a questa moschea sono due grandi sepolture, che nell’una istà il corpo di Timilei, signore che fu di Tarteria (costui disfecie Domasco): sopra questo corpo sono più di mille lampane d’oro; e l’altra sepoltura è piena di gioie, che furono del morto signore.

Questo signore mena tanta quantità di giente, che non può abitare in terre abitate, ma abitono in campi e in boschi. Lo campo suo si chiama Lordio. Noi fumo in questo Lordio, e vedemo sessanta mila padiglioni, e di ciò molto ci maravigliamo, e domandammo che mangiava tanta quantità di giente. Risposono che apresso a questo Lordio aveva uno grandissimo bosco, che gira intorno quattrocento miglia: e in questo Lordio erano quaranta fiumi, e nel bosco era gran quantità di bestiame, grosso e picolo, e gran quantità di cavalle, e tenealle per pasturare gl’uomini.

E ’l detto grande Tanburlà à nome Istrioco, figliuolo fu di Timilbei, ed era la sua signorìa insino a’ confini di Domasco; e il re di Persia si è suo sugetto, sì come udirete. E col grande Tanburlà istemo sei mesi, e vicitamolo ogni dì una volta per lo meno; ed era dal nostro padiglione al suo dieci miglia, e non si saziava mai di domandarci delle novelle di Ponente e di corte di Roma e del re di Francia e degl’altri re. E dicemoli come nelle parti de’ cristiani erono tenuti gran signori. E ci disse che ’l campo, che noi avavamo veduto, non era il quarto di sua gente; però che ’n questo campo non era se non gran signori, e l’ordinanza di sua corte. E messer Adorio Doria, ch’era nostro interprete e genovese, ci confermò ogni cosa che ci avea detto essere la propia verità, e che quello gran signore non si poteva riprendere d’alcuna bugia.

E di po’ noi adomandamo licenza alla sua signoria, dicendoli di volerci partire e tornare ne’ nostri paesi. Rispose ch’era molto contento, ed erali istato molto a grado la nostra venuta, pregandoci non ci dispiacessi se ci avea tenuto tanto tenpo, ché tutto avea fatto per sua consolazione e piacere. Quello messer Adorio Doria l’avea informato come noi eravamo cavalieri e di gran legnaggio. Questo gran signore ci fecie cortesia, e donocci quattro cavalli, forniti i freni di molte gioie, le quali valevono parechi centinaia di ducati; e donoci quattro spade tarteresche, fornite di gioie, e parechi verghe d’oro e d’ariento, e feci vestire di zibellini. E domandoci se volavàmo ire al camino nostro di Domasco o al camino di Trebusonda, e che noi andassimo dove volesimo, che per tutto andremo sicuri. Noi li rispondemo, che noi eravamo disposti andare a vedere dove istava l’arca di Noè, e di poi andare a vedere la torre di Babello e Domasco. Elli ci rispuose che l’arca di Noè la troveremmo pel camino di Banbilonia: "E io scriverò al re di Persia, ch’è nostro schiavo, che vi farà aconpagnare insino alla detta torre". E ancora ci disse: "Noi vi daremo un salvo condotto, ciò è una freccia del nostro arco, iscritta del nostro nome, che chi la vedrà, vi farà e farà fare grande onore, e arà grande tremore di voi; e tristo alla barba di chi vi farà il contradio!".

E così ci fu data la freccia, e partimoci di detto canpo.