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Della Forza della Percossa.
Lezione quarta

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Della Forza della Percossa.
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DELLA FORZA

DELLA PERCOSSA

LEZIONE QUARTA.

RR
Are volte, Sereniss. Principe, Degnissimo Arciconsolo, Sapientissimi Accademici, ne i problemi naturali, entra la dimostrazione di pura Geometria. Però mi pare, che quella opinione possa ammettersi per comportabile, la quale non avendo necessaria dimostrazione in contrario, salva la maggior parte dell’esperienze praticate, e s’accomoda più d’ogni altra, con gli effetti della materia proposta. Che poi il filosofo, dopo detto un suo sentimento, sia obbligato a render la ragione di tutte le diversità d’accidenti, che possono accadere, e non facendolo, seguiti per conseguenza, che la sua ipotesi fosse falsa, ciò non mi par necessario. Se alcuno attribuisse la causa degli ecclissi Lunari all’interposizione della terra fra essa Luna, ed il Sole, credo, che direbbe assai bene. Egli addurrebbe per contrassegni di verità, e per prova del suo detto, che la Luna non si ecclissa mai, se non nelle opposizioni: che l’ombra quando entra sulla faccia lunare si mostra rotonda, segno che può venire dalla sfericità del globo terreno: che l’ecclisse non si fa mai se non quando la Luna ha pochissima lontananza dall’Ecclittica; dalla qual via non si diparte mai l’ombra della terra: e potrebbe allegare altre conjetture simili, le quali hanno forza di dimostrazione astronomica, e concorrono per provare, che l’ecclisse della Luna nasca, non da altra cagione, che dall’interposizione della terra. Ma se quel filosofo non sapesse poi render la ragione de i colori che si scorgono nella Luna ecclissata, o di quella debol tintura di luce con che ella risplende, o di qualche altro simile accidente, non per questo quella sua opinione, che ha molti altri riscontri favorevoli, e buoni, dovrebbe distruggersi affatto, e ributtarsi per vana, almeno fin tanto che da altri se ne adducesse una migliore.

Passeremo senza perder più tempo nell’applicazione della simi[p. 23 modifica]litudine alla seconda spezie di percossa la quale sotto nome di Urto sarà da noi considerata.

L’Urto par propriamente fratello della percossa, e potrebb’esser padre di molte specolazioni. Supponemmo ne’ passati ragionamenti, che la percossa sia lo scambievol concorso di due corpi, quand’uno di essi sia accelerato dall’intrinseca gravità. Per urto s’intenderà ora quel concorso di due corpi, quando almeno uno di essi sia velocitato da causa esteriore; come da vento, da forza d’animali, di fuoco, d’archi, o cose simili. Così sotto questo genere di percossa artifiziale, si comprenderanno i colpi dell’artiglierie, di tutti quanti gli altri projetti, e de’ martelli, particolarmente quando percuotono con moto orizontale, ovvero all’insù, nel quale caso niuna operazione può far l’interna gravità.

Nell’efficacia dell’urto pare primieramente, che abbia gran parte la quantità della materia, la specie della gravità, ed anco la figura. Almeno l’esperienze pare che lo dimostrino, benche la ragione ci persuade il contrario. Se un soldato robusto dovesse tirare un colpo con una picca, per esempio, in questa famosa bugnola, al sicuro che io non avrei tanto cuore di starci dentro. Ma se quel medesimo uomo col solo ferro della picca in mano, levatane l’asta, si provasse per fare il medesimo colpo, s’accorgerebbe, che l’aggiunta di quel tanto legno che pareva superfluo, e doveva essere un’impedimento, era stato un ajuto troppo grande alla sua forza. Sarebbe forse curioso problema l’investigare, se quel legno della picca essendo egualmente velocitato, facesse il medesimo effetto mentre si adopra disteso in asta, e mentre si adoprasse raccolto in una palla. Così anco se una trave egualmente velocitata, fusse per dare il medesimo urto, percuotendo una volta per lo lungo, ed un’altra per traverso. Ma ritornando al colpo del soldato; non dovrebb’egli far maggior passata mentre percuotesse col solo ferro, che mentre dee muover anche tutta l’aggiunta di quel lunghissimo legno? Chi è quel che non sappia, che più facilmente, e più velocemente si muove dalla medesima forza un peso piccolo, che un grande? Pare adunque, che la maggior quantità di materia, come più tarda a muoversi, dovesse piuttosto impedire la forza motrice, che ajutarla. Che la mag[p. 24 modifica]gior mole faccia per accidente maggior operazione, che la minore, è cosa troppo manifesta; ma che la materia per se stessa vi abbia che far nulla, non pare assolutamente. Abbiamo un altro riscontro, dove si vede chiaramente, che la materia accresciuta, o diminuita, non opera cosa alcuna. Osservisi nel cadere de’ gravi. Una palla di piombo pesante una libbra caderà con una tal velocità, accrescasi la palla fino a cento libbre; essendosi dunque centuplicata la materia, ed il peso, si accrescerà cento volte più anco la velocità. Questo sappiamo, che fu l’errore de’ Filosofi antichi, i quali stimarono, che l’effetto della velocità dovesse seguire a proporzione della materia. Ma il celebre Galileo ci ha fatto vedere, che l’accrescimento della materia nelle cadute naturali, niente opera, quanto all’accrescer la velocità; e ciascun di noi sa, che l’accrescimento della materia ne’ moti artifiziali, e violenti, impedisce sempre più la forza della potenza motrice. È dunque ragionevole la causa del dubitare, se negli urti abbia che far cosa alcuna la quantità della materia. Esperimentiamo ora, se con principio simile a quello, che pigliammo già nella considerazione della percossa naturale, riesca intendere qualche cosa ancora intorno alla generazione della forza dell’urto ancora.

Figuriamoci in uno Stagno, ovvero in un Porto sommamente tranquillo, un vastissimo Galeone lontano dalla sponda, per esempio dieci passi, e che un uomo lo tiri per via d’una fune con tutta la sua forza. Io per me credo, che quel Vascello ancorche pigro, quando arriverà a percuotere, darà tal urto nella sponda, che potrebbe far tremare una torre. Se l’istesso uomo dalla medesima distanza, con la medesima forza, per l’istess’acqua tranquilla, tirerà una piccola Filuca, o piuttosto una leggierissima tavola di abeto; questa nell’arrivare alla sponda, urterà essa ancora, e con molto maggior velocità, che il Galeone; ma però io crederei, che non facesse la millesima parte dell’operazione, che averà fatta lo smisurato Vascello. Cercasi la causa di questa diversità d’operazione. Quì la forza dell’urto non procede dalla velocità, poichè la tavola d’abeto urta con maggior velocità, che il navilio; la potenza che ha tirato tanto l’uno, quanto l’altro, è stata la medesima, e pur la maggior mole fa maggior effetto. Resta dunque, dirà qualcu[p. 25 modifica]no, che la causa s’attribuisca alla quantità della materia. Contuttociò io sarei di parere, che ne anco la materia vi avesse che far cosa veruna. Questo è ben certo, che la materia per se stessa è morta, e non serve se non per impedire, e resistere alla virtù operante. La materia altro non è, che un vaso di Circe incantato, il quale serve per ricettacolo della forza, e de’ momenti dell’impeto. La forza poi, e gl’impeti, sono astratti tanto sottili, son quintessenze tanto spiritose, che in altre ampolle non si posson racchiudere, fuor che nell’intima corpulenza de’ solidi naturali. Questa dunque è l’opinion mia, la forza di quell’uomo traente è quella, che opera, è quella che urta. Non dico la forza, ch’egli fa in quell’istante di tempo, quando il legno arriva a dare il colpo, ma tutta quella che egli precedentemente averà fatto dal principio, sino al fine del moto. Se noi chiederemo quand’egli tirava il Galeone, per quanto tempo durò a faticare; risponderà, che per muovere quella gran macchina per lo spazio di venti passi, vi volle forse una mezz’ora di tempo, e di fatica continua. Ma per tirar quel legnetto piccolissimo, non vi messe ne anco quaranta battute di polso. Però la forza, che per lo spazio di mezz’ora continuamente, quasi da vivace fontana, scaturì dalle braccia, e da nervi di quel facchino, non è mica svanita in fumo, o volata per l’aria. Svanita sarebbe quando il Galeone non avesse potuto muoversi punto, e sarebbe tutta stata estinta da quello scoglio, e da quel ritegno, che gli avesse impedito il movimento. Si è bene impressa tutta nelle viscere di quei legnami, e di quei ferramenti di che è composto, e caricato il navilio; e là dentro si è andata conservando, ed accrescendo; astrattone però quel poco, che l’impedimento dell’acqua può aver portato via. Qual maraviglia sarà dunque se quell’urto, il quale porta seco i momenti accumulati per lo spazio di mezz’ora farà molto maggior effetto, che quello il quale non porta seco altro, che le forze, e i momenti accumulati in quaranta battute di polso?

Io inclinerei forse a credere, che se e’ fusse possibile di racchiudere, e ristringere dentro a un vilissimo emisfero di noce, ma infrangibile, tutta quella forza, e fatica, che nello spazio di mezz’ora è stata prodotta dal traente del nostro immaginato [p. 26 modifica]Vascello, crederei dico, che forse quel leggierissimo guscio facesse nell’atto dell’urtare, la medesima operazione, che faceva l’immensa mole del navilio. Ma un guscio di noce lasciandosi muovere troppo presto, non permette che altri imprima in esso tanta virtù, e tanta forza, quanta se ne imprime in una macchina immensa di un gran corpo mobile. Se una persona mediocremente gagliarda, appoggiate le spalle ad un muro di quest’edifizio, durasse a spinger in esso una mezza giornata continua, con intenzione, e con vanto di rovinarlo; io non so qual di noi sarebbe sì continente del riso, che non beffeggiasse il novello Sansone.

Nondimeno le forze prodotte da colui, potrebbero forse esser sufficienti, non dico per rovinare un edifizio, ma per ispiantare una montagna; quando però si potessero unire, ed applicar poi tutte insieme in un urto solo. Se fosse possibile, com’in effetto è, che tutta quella forza generata nel tempo di un mezzo giorno, non fusse stata applicata appoco appoco alla muraglia resistente, ma si fusse andata conservando in qualche ricettacolo, e poi in ultimo si fusse applicata tutta in un tratto al muro resistente, io fortemente dubiterei, che in cambio di dar materia di riso, si fosse rinnuovata l’antica Tragedia de’ Filistei.

Vedesi talvolta un Villano affaticato, mettersi sotto qualche portico a giacere sulle pietre; e per dir poco, farà anche una dormita d’una grossa ora. Credibil cosa è, che nello svegliarsi senta qualche poco di dolore nella parte del corpo, la quale sarà stata per di sotto su i duri marmi, ma però poco sarà il travaglio: posciache quello stretto, e premuto toccamento, che egli in virtù del proprio peso ha fatto sopra quei sassi, si è distribuito per lo lungo spazio d’un’ora, e però sì è renduto assai comportabile. Se quell’istesso Contadino fosse venuto dormendo con caduta precipitosa fin dal Ciel della Luna (che quanto al sonno, io non credo, che il Prete Janni possa dormire su piume più delicate, ne con riposo più soave, in tutte le parti del corpo) quando poi egli arriverà in terra a dar la percossa, allora si vedrà, quanto meglio per lui era giacere su i nudi sassi, e patir poco travaglio per un’ora continua, che dormire nel grembo dell’aria, e sulle piume de’ venti, per dover poi [p. 27 modifica]in un tempo, quasi istantaneo supplire a tutta quella operazione del calcato toccamento, che per lo spazio d’un’ora si sarà risparmiato. Sono molti che stridono per dolori di podagra, di renella, e d’altre calamità; se un Medico incantatore promettesse di voler con Tessalica Chirurgia sospender quel travaglio a un tribolato, per un terzo d’ora, parrebbe benefizio singolare, ed anco il sarebbe. Ma se dopo il tempo della sospensione, o tregua del dolore, non solo ricominciasse il tormento come prima, ma dovesse anco piombare adosso al paziente, tutto quel travaglio accumulato, dal quale per quel terzo d’ora, era stato libero, io credo, che minore operazione farebbe contro di lui una cannonata, che lo colpisse nel mezzo del petto. Ma ritornando dalle passioni alla Meccanica, appressiamoci alla fine del discorso, e concludiamo oramai, che la forza di quel martello, o di quel projetto per linea orizontale, che urta con tanta efficacia in quello obietto, non può esser altro, che virtù impressagli dalla macchina, che l’avrà velocitato, ed appunto è la medesima virtù in numero, che dalla macchina medesima scaturì: e diciamo, che tanto maggiore sarà il colpo, non già quanto sarà maggior la mole, o la gravità, o la velocità del mobile urtante, ma si bene quanto maggiore sarà stata la renitenza del mobile all’esser cacciato.

Imperocche quella, che a noi par maggior renitenza d’un mobile all’esser velocitato, non è, che realmente ella sia renitenza di sorta alcuna, che per linea orizontale non vi è, ma sì bene perche a muover quel tal corpo, con quella tal velocità, si ricerca, che in esso s’imprima molto impeto. Non vi è ignota la quistione famosa, che cerca se i projetti sieno portati dal mezzo ambiente, o dalla virtù impressa. Ma però questa è stata assai ventilata, ed anco vinta dal Galileo, nella sua maggior Opera. Questi vuole, che il mezzo non sia potente a portar i corpi separati dalle macchine proicienti, ma si ben l’impeto impresso dentro alla crassizie, ed alla corpulenza della materia. Se altri mi chiedesse, che cosa sia quest’impeto impresso colà dentro agli arcani invisibili delle materie naturali, io direi, che non lo so, non già per questo verrei a concedergli, ch’egli non vi sia. Non mi maraviglio, che quel projetto, fin ch’egli viene accompagnato dal braccio [p. 28 modifica]del proiciente si muova, come sospinto; ma dopo, ch’egli è libero, e fuori del pugno, che l’ha velocitato, quel continuare a muoversi per lungo spazio, mi farebbe restar attonito, s’io non m’imaginassi qualche virtù assistente, ed impressa in quel mobile, atta a portarlo per l’aria. Sarebbe un effetto senza causa, cioè un assurdo in natura, se una palla d’artiglieria volasse attraverso per l’aria, impedita dal mezzo ambiente, e non ajutata da potenza alcuna, che l’accompagnasse. Adunque par necessario, che nel corpo mobile s’imprima qualche virtù (qualunque ella sia), atta a cagionare il moto, e la velocità, o maggiore, o minore, conforme che maggiore, o minore sarà essa virtù impressa; la qual virtù nell’estinguersi poi, cioè nell’urtare in un corpo fermo, e resistente, fa quell’effetto, che chiamiamo urto. Che poi le forze degli uomini, de i venti, degli archi, e del fuoco, non solo s’imprimano, ma anco si conservino, e si moltiplichino l’una sopra l’altra ne i corpi naturali, l’esperienze sono infinite; ma fra l’altre questa è chiarissima. Immaginiamoci una Galera, che comincia a muoversi; se quando la Ciurma dà la seconda vogata, l’impeto della prima, non fosse conservato dentro alla corpulenza di quel navilio, e del suo carico, egli non camminerebbe mai con velocità maggiore di quella, che gli conferì la prima vogata stessa; così ancora se il momento della seconda remigata non si moltiplicasse, e non si aggiugnesse sopra quel della prima, non occorrerebbe mandar il nome di Ferdinando, ed il valor della Toscana per l’Oriente, a danneggiar la Barbarie. È ben vero, che la moltiplicazione degli impeti, non si va facendo, se non in quel primo centinaio di vogate, fin tanto, che l’impedimento dell’acqua arriva ad agguagliarsi, alla virtù d’una vogata; ed allora la velocità non cresce più, restando in equilibrio, la resistenza continua dell’acqua, e lo sforzo pur continuo della Ciurma.

Tronchinsi oramai le superfluità de’ discorsi, essendomi con lunghezza pur troppo noiosa affaticato nell’esporvi sì alti concetti, lasciati da quel sapientissimo Vecchio sopra la Forza della Percossa.

Dicemmo, che la gravità ne’ corpi naturali non dorme mai, ma continuamente lavora: che però in ogni brevissimo tempo [p. 29 modifica]procede un impeto eguale al peso assoluto del corpo pesante. Dicemmo anco, che i medesimi gravi mentre cadon per aria, conservano detti momenti, non avendo solido alcuno sottoposto, che coll’opporsi gli estingua. E che però la moltiplicazione delle forze d’ogni grave cadente, quando arriva a percuotere, dee esser infinita. Si produssero alcune ragioni; perchè causa dunque non seguisse l’operazione infinita, se infinita era la virtù. In quest’ultima parte della percossa artifiziale abbiamo detto, che la forza dell’urto non dipende altrimenti dalla quantità della materia; poiche se ciò fosse, converrebbe, che la medesima palla di sessanta libbre di ferro, facesse sempre la medesima operazione, lanciata una volta da un uomo, ed una volta avventata da un Cannone. Non dipende ne anche assolutamente dalla velocità: perchè con maggior velocità urterà una tavola d’abeto tirata per l’acqua quiescente, che un vastissimo Galeone, e pur il meno veloce farà maggiore violenza nell’urtare. Si può dunque con ragione affermare. Che di qualsivoglia corpo velocitato da potenza esteriore, l’efficacia nell’atto dell’urtare non sia altro, che virtù impressagli dalla potenza di chi l’avrà mosso. E però si vede, che la forza dell’urto non riesce maggiore, conforme sarà maggior la materia, o la gravità, o la velocità; ma solamente secondo che maggior sarà stata la sua renitenza all’esser mosso; cioè secondo ch’egli avrà dato maggior campo alla potenza motrice di poter imprimere in esso maggior cumulo di virtù.

Che poi la forza dell’urto debba esser anch’essa infinita, vi militano l’istesse ragioni dette intorno alla percossa naturale.

Benefizio per certo ha ricevuto questa dottissima Accademia del mio discorso; avendo io con proposte ottuse, cagionato obbiezzioni ingegnose, e con pensieri rozzi, risvegliato ne i vostri sottilissimi ingegni concetti peregrini.