Lettere (Sarpi)/Vol. II/216

CCXVI. — A Giacomo Gillot

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CCXVI. — A Giacomo Gillot
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CCXVI. — A Giacomo Gillot.1


Ricevei le lettere di V.S. de’ 16 giugno: non feci risposta subito, ma ho indugiato fin qui per [p. 330 modifica]angustia di tempo e per sopravvenienza di grave e incomoda malattia. Ora, tornato quasi a intera salute, la ringrazio fin dal principio per avermi tenuto degno della sua memoria e onorato di lettere, sebben le costassero la interruzione degli affari e degli studi.

Mi fe maraviglia la proibizione intimata, ad istanza del Nunzio, per la edizione dei Concilii Pisani, come di una novità pel regno. Hanno fin qui teso insidie alla vostra libertà coi tranelli de’ Gesuiti; ora, a quanto vedo, l’assaltano con forza aperta; e me ne duole per voi, temo per noi medesimi. Giacchè, quando riescano a innestare la novella dottrina allo stesso regno, noi deboli e pochi esciamo di speranza di poter da soli resistere. Volgono cinquanta anni dacchè in Francia niuno voleva sapere di massime siffatte; e ora tanti sono che le hanno accolte, che a breve andare tutti le abbracceranno, e segnatamente perchè al picciol popolo sembrano vantaggiose. Ogni specie di vizio ci trova patrocinio. Ad esse affidansi gli avari, per fare alla franca mercato delle cose spirituali; i superstiziosi, per supplire co’ baci infervorati sulle immagini all’esercizio di tutte le virtù cristiane; gli ambiziosi di bassa lega, che non possono andar a caccia di nominanza senza delitti, per coprire d’un velo santo ogni cima di ribalderia. Gl’indifferenti ci vedono un palliativo all’accidia spirituale; e chi non teme Dio, ha fatto apposta un Iddio visibile per darsi il merito d’adorarlo sopra gli altri. Da ultimo, non ci ha spergiuro, non sacrilegio, non parricidio, non incesto, non rapina, non frode o inganno, che non si possano mascherare come opere meritorie sotto il velo della dispensa. Qual maraviglia che i più facciano [p. 331 modifica]buon viso a quel che s’accomoda alle cupidità dei più? Pure i buoni non devono disperare: fu peste di tutti i secoli, che per il divino onore e la verità combattessero i meno. Pur combatterono sempre e con tutta la lena, e Dio fu propizio a’ loro conati. Oggidì dobbiamo nutrire le stesse speranze.

Lodo la S.V. che abbia dismesso lo scrivere, e si dia alla pubblicazione di libri antichi, per far la via al vero e cansare la invidia e le persecuzioni. Io medesimo non avrei mai posto mano a scritture, se non mi ci avesse costretto la necessità. Vedo ch’ogni dì più infierisce la baldanza de’ Gesuiti; ma non avrei pensato che giungesse al segno di negare apertamente fiducia al Senato di Parigi, quando niuno mai in tanti anni ne ha palesato ingiurioso sospetto, e tutto il mondo ne ha accolto stupefatto i giudizi.

Ho letto attentamente la orazione che pubblicarono come proferita al senato da Montolon:2 lo stile mi par tutto del Coton, e non si può credere che il Montolon arringasse sì prolisso. È degna, a mio credere, che si legga siccome saggio della temerità della Compagnia. Godo di tutto cuore che i nemici non valessero a balzare Richer dal sindacato: sarebbe invero stata una rovina pe’ buoni studi. I quali bramerei che egli in bene ordinata opera sostenesse e patrocinasse; e ho meco consenzienti tutti i buoni.

La nostra corrispondenza epistolare si ravviverà [p. 332 modifica]pienamente dentro l’annata, siccome spero; ma in questo intervallo non tralascerò d’inviar lettere alla S.V. anche col mezzo del signor Leschassier, quantunque non con quella libertà che mi prometto di usare per l’avvenire. Niente ho ricevuto per ora da Francfort; ma non fa caso, avendo io voluto che nascondessero quel che mandavano sotto i grandi involucri delle merci, affin di salvarlo dalla sorveglianza di quei di Trento. Prego Dio che serbi a lungo in sanità la molto egregia S.V.; e le bacio le mani.

14 agosto, 1612.




Note

  1. Stampata in latino, tra le Opere ec., tom. VI, pag. 19.
  2. La famiglia dei Montholon produsse una lunga serie di eccellenti giureconsulti. Quello di cui si parla fu Giacomo di Montholon, avvocato al Parlamento di Parigi, che in quei giorni aveva scritto un’aringa in favore dei Gesuiti, ed era figlio del celebre Francesco, che morì essendo guardasigilli della corona.