Lettere (Sarpi)/Vol. I/24

XXIV. — Al medesimo

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XXIV. — Al signor De l’Isle Groslot.1


Sento tanto piacere del leggere le lettere di V. S., che mai possono parermi se non brevi; e la prego di continuare a favorirmi collo scrivermi spesso, massime quando sarà senza suo incomodo. Ella non potrebbe immaginare quanto siamo custoditi dagli innamorati della nostra libertà, così in casa con spie, come nelli circostanti paesi con guardie aperte. In Ispruch e in Trento si fanno ricerche e diligenze esquisite, che non siano portati libri qua. Hanno in Bergamo, Verona e in Venezia stessa, diligentissime spie, per esplorare a chi siano inviati pacchetti. A me questi andamenti non dispiacciono, [p. 75 modifica]sapendo, che amante geloso acquista sempre maggior odio, e costringe in fine a scuoter il giogo.

Ho letto già il catechismo di Pasquier: ho veduto ancora la revisione del Concilio, e il bureau e li atti. Se vi fusse altra scrittura che trattasse di tal materia, mi sarebbe grata, perchè io ne ho scritto qualche cosa di più, raccolta da altre memorie che ho potuto ritrovar in queste parti.

Quantunque passerà qualche tempo innanzi possi ricuperare l’Armonia celeste, nondimeno, come cosa da me stimata, verrà sempre a tempo, e resterò obligato alla diligenza di V. S.; con condizione però, ch’ella non faccia cosa alcuna dando a sè o ad altrui incomodo. Quando vi fosse qualche libro grande ancora, ma che per la perfezione sua portasse la spesa di vederlo, si potrebbe mandare a dieci fogli per volta nel pacchetto delle lettere. Sarà però sempre bene avvisar prima il nome del libro, acciò non si mandasse con tanta difficoltà cosa già veduta e sfiorata.

Non posso quasi credere che monsignor Vieta non abbia lasciato2 qualche considerazione di cifre. Quando venisse fatto a V. S. di acquistarne qualche copia, mi sarebbe molto grata.

Mi fu commendato monsignor Alcaume da Marino Ghetaldi, gentiluomo Raguseo, persona di giudicio; e fino da quel tempo l’ho sempre tenuto in stima e in reverenza. Essendo tanto congionto con V. S., la prego con qualche occasione farmegli grato, offerendogli la mia umile servitù, e pregandolo ad onorarmi con qualche suo comandamento. [p. 76 modifica]

Già, innanzi che le occorrenze del mondo m’invitassero a pensar come a cose serie, e non come a passatempi, alle considerazioni in quali V. S. mi ha veduto essere, io aveva tutti i miei gusti nelle naturali e matematiche; e particolarmente mi son assai trattenuto nelle cose del Vieta. Il quale, tra le altre sue bellissime considerazioni, ha scritto una De cognitione æquationum, che non è stampata: mi venne in mano per mezzo del Ghetaldi suddetto, e mi diede occasione di esercitarmi allora; sì che in quel soggetto mi pare aver trovato qualche cosa. Al presente tutto resta sopito, sì per essere io voltato ad altri pensieri, che come operabili più muovono; come per non aver più la compagnia del Ghetaldi, che mi teneva svegliato.3

Già è deciso, che la relazione si fa. Adesso la riveggo per farla copiare, e scriverò al signor ambasciatore; sì che V. S. averà quello che li piacerà.

In quello che tocca le cose pubbliche del mondo, veggo gran turbazioni; le quali però, per bontà divina, terminano tutte in quiete. Abbiamo veduto (bisogna confessarlo) composte così importanti controversie, come quelle che in altri tempi hanno commosso tutto l’universo. L’ultima spettante all’imperatore, mi rende attonito, se non trae seco conseguenza simile alle barricate.

Questa Repubblica non solo spende e si consuma per l’armare ogni anno, ma riceve un altro danno, e forse maggiore, per li corsari di Sicilia e d’altrove, che sono a bello studio ritrovati per [p. 77 modifica]l’effetto istesso. Ci è però a chi non dispiace il consumarsi così, e purchè godino il presente, non si spaventano per la incertezza del futuro.

Non metto in dubbio quel che V. S. dice, che ogni timore chiama li mali temuti. So che ogni affetto corre a quel che fugge, quando è immoderato, e sempre s’allontana da quel che proseguisce: ma tenga per fermo che il nostro non è timore, ma, come il vostro, compiacenza nelle volontà.

La somma che debbe spender Toledo è grande, purchè non faccia le spese di Savoia costì, e metta in pezzi qualche buon pezzo di Francia.

Qui si è tenuto, per qualche tempo, il moto di Irlanda essere una ribellione generale. Io me ne son sempre riso, che fuggito il capo, le membra potessero aver dato in così grande occasione. Le cose del mondo non passano così facilmente a tante contrarietà.

Mi piace molto l’opera intrapresa di monsignor Gillot, di mettere insieme la libertà della Chiesa io non voglio dire gallicana, ma universale;4 e forse Dio in questo secolo vuole con un mezzo più dolce, tentato nel secolo passato, estinguere la tirannide. S’ha tentato di dare al fondamento; l’anima non ha fatto tutta l’opera: chi sa che incominciando dal tetto, come al presente si fa, non ne riesca qualche meglior effetto? Se Dio benedirà l’opera, possiamo sperarlo. Mi portò il signor Biondo una lettera senza nome, che io ho creduto essere del signor Casaubono, al quale scrivo di ciò per questo stesso corriere. [p. 78 modifica]

Credo che scrivessi a V. S. per l’altra mia la relazione di una superba inscrizione, per mostrar ben adempite le profezie. Sopra quelle il Menino5 fece l’epigramma primo che V. S. vederà qui allegato, mettendoci le parole sue formali. A mia instanza ha mutato il modo, e ridottolo nella seconda forma. Li mando ambidue;6 ma vorrebbe le cose precisamente conformi al disegno, e che non passassero.

Sollecita e preme molto che il signor Casaubono dia fine all’opera della libertà; ma io dirò che bisogna appresso far luogo che possi esser letta: il che sopra tutto importa. Mi vien detto e scritto ancora, che monsignor Pithou abbia scritto un molto bel trattato per occasione delle nostre controversie.7 Se V. S. potesse vederne la superficie e darmi avviso dell’argomento, scrivendomi una idea generale del trattato, io lo riceverei a favore. Il signor Malipiero e il padre Fulgenzio li rendono saluti innumerabili, e io le bacio la mano, pregando Dio che mi dia modo di poterla servire.

Di Venezia, li 22 luglio 1608.




Note

  1. Edita: come sopra.
  2. Il Vieta era morto sino dal 1603.
  3. Sono da leggersi, a tal proposito, le Memorie aneddote del Ghiselini, pag. 25-28.
  4. Vedasi la nota a pag. 52.
  5. Reputato professore di leggi nell’Università di Padova.
  6. Nella vecchia stampa sono qui alcuni puntolini e due asterischi, quasi a tener luogo dei due citati epigrammi, che non si trovano in verun modo accompagnati a questa Lettera.
  7. Non propriamente “per occasione,„ ma da poter servire a quella occasione, se parlasi del celebre giureconsulto Pietro Pithou, il quale era morto nel 1595, ed avea composto un Trattato delle libertà della Chiesa gallicana, di cui dicono che servisse di fondamento a tutto ciò che dagli altri fu scritto dopo di lui. Stavasi, bensì, allora facendo in Parigi una raccolta de’ suoi opuscoli, che venne a luce nel 1609.