Lettere (Andreini)/Lettera CXXIV

CXXIV. Del consolarsi nelle cose avverse.

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CXXIV. Del consolarsi nelle cose avverse.
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Del consolarsi nelle cose avverse.


D
I grandissimo contento m’e stata la vostra lettera, conoscendo io in quella, che voi mi siete vero, e perfetto amico. Validissime sono le vostre ragioni; ma non per ciò merito io d’esser biasmato, se de’ miei travagli m’affliggo. Se le cose picciole non che le grandi hanno forza di tormentar altrui, che dovrà far questa sventura mia, ch’à giuditio d’ogn’uno è grandisima? Poco giova il saper, che quegli, che spera, o teme le cose del mondo non può esser felice, quand’altri non può far di meno, vivendo in questo suo fango, secondo l’occasioni di non bruttarsi. For[?] è temer, e sperare. Io misero sperai un

[p. 123r modifica]giorno di dover esser se non in tutto, almen in parte contento, & hora veggo, che ’n vece d’esser premiato del mio buon’operare vengo punito, come s’io havessi qualche grand’error commesso; e ’n tanti miei mali non sò vedere chi mi difenda, non che chi m’assicuri. Ohime, che à mezo giorno mi s’è fatt’oscura notte; con tutto ciò non voglio pentirmi d’haver operato bene, poich’è proprio di chi opera bene, il goder fra se stesso tacitamente, contentandosi di se medesimo, senza curarsi, ch’altri approvi, sappia, o dica il suo ben’operare. M’opprima la Fortuna, e mi persiguitino gli huomini, ch’io non voglio più tormentarmi, sperando che le ingiuste persecutioni un dì finiranno. Non sia vero, che la nebbia delle cose mortali habbia più forza d’offuscarmi l’intelletto, in ogni modo io conosco per isperienza, che le dolcezze di questo mondo son tutte piene d’amaritudine. Io sò certo, che quando mi disporrò di reputar felice quella Fortuna in che mi trovo (bench’ella sia al contrario) sarà nondimeno tal quale io me la formerò nella mente. O di quanto giovamento m’è stata la vostra lettera. Io in virtù di quella ho fatto fermo pensiero di non curarmi più di felicità di Fortuna: ma che parl’io di felicità di Fortuna? ella non può far felice alcun mortale. Chi da lei vien sublimato (che molti chiamano felicitato, o che tal accidente conosce, o nò;) Se non lo conosce non può esser felice, essendoche non può esser in alcun modo felice colui, che non ha conoscimento di felicità: e se l’ha è forza, che ancor conosca, che sì fatta felicità [p. 123v modifica]non è per durare, e non potendo durare non può chiamarsi felice, per quel continuo sospetto, ch’egli ha di perder la felicità, ch’ei possiede. Io non ho più cara cosa al mondo di me stesso, dunque non voglio per qual si sia accidente affliggermi, sì ch’io tolga me stesso à me medesimo. Mi risolvo di contentarmi di quanto, o di buono, o di cattivo è per venirmi alla giornata, ricordandomi, che niuno sarà mai così felice, che fatto impaciente della sua sorte, non brami di mutarla. Vi son servitore, e prego Iddio, che vi dia ricompensa di quella consolatione, che m’havete data.