Lettera a Calcedonio Reina (5 dicembre 1882)

Mario Rapisardi

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Catania, 5 dic. 1882


Carissimo Calcedonio,

La tua lettera e quella di Filippo Zamboni (animo fiero e gentile che tu dovresti conoscere, e, conosciuto, ameresti) sono le sole che mi parlino al cuore e mi siano di conforto in questa sepolcrale solitudine in che vivo, e alla quale mi son volentieri ridotto per troppa esperienza degli uomini, specialmente di questo paese.

E sì, che lettere e omaggi e dediche mi piovono tutti i giorni da tutte le parti!

Ma sotto la vernice della modestia ossequiente e la maschera dell'amicizia e della devozione ho quasi sempre trovato la più sfrenata ed impertinente superbia, e la libidine puttanesca della mutua lode, e la mira vilissima del tornaconto.

Di lettere di donne non parlo!

L'amore mi alletta ancora, non m'inganna più come un tempo; nè le dolci lusinghe di quella tal donna, che io amo quanto posso e disprezzo quanto basta, possono tanto sull'animo mio da non farmi scorgere la grandissima vanità che ella ha di tenermi aggiogato al carro dei suoi trionfi, accanto ai molti asini che soffrono docili il suo governo e a qualche volpacchione che la corteggia per isfruttarla e gettarla nel fango.

Così che anche le lettere e i versi di costei dolcissimi e affettuosi, a giudicar dalle parole, non mi fanno nè freddo nè caldo, e le metto in fascio con tutte le altre, non senza ridere della mia passata credulità, e adirandomi qualche volta con me stesso di non avere avuto finora il coraggio di rompere una relazione che mi disonora.

Ma ciò che tu mi scrivi, mio caro Calcidonio, mi va sempre al cuore, perchè so certissimamente che parte dal cuore, e mi farebbe riconciliare con la razza umana, se potessi pensare che non sono arcipochissimi coloro che ti somigliano.

La tua scarsa fortuna nell'arte mi accora, non mi meraviglia: tu non fai parte di nessuna cricca politica, artistica, letteraria; tu non incensi nessun idolo, tu ti ostini a far di testa tua, e di andare contro la corrente; e se la corrente non ti ha travolto e sommerso, lodane la tua natura e riconosci le tue forze.

Anche io lotto, e vincerò. La fama, che mi ha sorriso e strepitato intorno, ripete ora più raramente e quasi paurosa il mio nome.

I vili!

Ne hanno paura, e vorrebbero seppellirmi nel silenzio....

Mi hanno quasi bloccato, e sperano che io venga a patti, e mi renda.

Ma io rispondo con la parola di Cambronne.

Hai fatto male di querelarti al Fanfulla dello scortese silenzio: che altro ti aspettavi da quella gente?

Ti rende poi inescusabile il sapere che alla direzione di quella gazzetta è un siciliano.

Come! non sai che al siciliano si attaglia più che a qualunque altro il noto dètto: Homo homine lupus, intendendo per homo concittadino?

Non ti sei ancora persuaso che questa bella gioja dei nostri compaesani, vilissimi cunnilingui e fellatori di baldracche e di venturieri oltremontani, credono dar prova d'indipendenza e di umana dignità mordendo e straziando, quando possono, coloro che sono nati nella stessa terra e parlano lo stesso dialetto?

Anche me, tu lo sai, ha cercato di mordere il mineoto bagascio, e più di una volta e vigliaccamente.

Ma tu fosti testimone della calcagnata che gli diedi sulla testa di rettile, costì, in piazza S. Ferdinando.

Pensa a lavorare, mio caro; ama l'arte e tua madre, e non darti pensiero del resto.

Io stampo la Giustizia che guasterà la digestione a più di un gaudente; pubblicherò il «Giobbe» fra un anno; e poi, se la gloria vorrà venire, sarà la benvenuta; se seguiterà a puttaneggiare coi masnadieri di Bologna e di Roma, le mostrerò la punta del mio stivale e aspetterò fischiando la morte. Addio....