Lepida et tristia/Considerazioni gastronomiche di un povero diavolo

Considerazioni gastronomiche di un povero diavolo

../Antidotum impietatis ../La seconda disillusione IncludiIntestazione 1 maggio 2019 75% Da definire

Considerazioni gastronomiche di un povero diavolo
Antidotum impietatis La seconda disillusione

[p. 129 modifica]

CONSIDERAZIONI GASTRONOMICHE

DI UN POVERO DIAVOLO



P
erchè negarlo? L’invito del conte Blasius di venire a casa sua a mangiare la zuppa, mi riempì l’animo di una gioia profonda.

Questa gioia fu, è vero, amareggiata dalla necessità di comperare un paio di polsini, una cravatta ed un paio di guanti: spesa superiore a quella del mio solito pasto; ma i pasti scompaiono e la cravatta resta in vista. La antica abitudine di riempire parcamente il mio stomaco — la temperanza ci aveva poco merito — e la convinzione che «la zuppa» fosse una figura retorica delle più evidenti, hanno contribuito a questa gioia.

Alle sette bussavo alla casa del conte Blasius. Veramente non bussavo, perchè la porta era aperta, e l’ossequioso cameriere non mi potè portar via niente: nè ombrello, nè impermeabile, nè scarpe di gomma, non avendo io con me nulla di simile, benchè piovigginasse. [p. 130 modifica]

La signora e le due signorine mi hanno accolto con molta gentilezza; e proprio non hanno fatto alcuna apparente distinzione tra la mia marsina di corte falde, ma ben lucida per le carezze ricevute in molti anni dalla spazzola, e i soprabiti a forma di campana e risvolti di raso degli altri invitati. Hanno anzi fatto la presentazione, e tutti sono stati molto gentili con me. Così è: gli uomini invitati a banchettare si sentono attratti da un mutuo amore e sono per un momento buoni fra di loro. Perciò invitare la gente a lauti banchetti significa eziandio promuovere i generosi sentimenti della fratellanza umana. Dopo fu spalancata la porta della sala da pranzo, e siamo entrati cerimoniosamente a due a due: a me toccò al braccio una matura e contegnosa dama, di poche parole.

La signora padrona di casa mi assegnò un posto molto dignitoso.

Quando l’effetto delle lampade cessò di abbarbagliare i miei sguardi, vidi sulla tovaglia molte viole e giunchiglie e rose bianche che in quella stagione invernale costituivano il valore di molti miei desinari: tuttavia un nescio quid di profumi gastronomici mi avvertì che il pranzo non avrebbe avuto la spiritualità delle viole. Anche certi trionfali cumoli di maioliche e di cristalli sulla credenza confermavano la mia opinione.

La zuppa fu un eufemismo della peggior specie, almeno per me che sono abituato a cercare nella minestra il più abbondante conforto alle contrazioni dello stomaco: erano due crostini, perduti in fondo di una terrina, in quattro cucchiai di brodo. Ci voleva altro!

— Beato lei, caro signore, come si vede che è giovane! che cera sana da campare ancora cent’anni! deve avere una salute di acciaio, lei, è vero? [p. 131 modifica]

Così mi disse il mio vicino di destra, un vecchio signore dalla cui persona traspariva una rendita per lo meno di cento mila lire, ma che mandava giù quelle cucchiaiate di brodo come fossero state decotto di rabarbaro. Aveva l’aspetto cachetico di chi soffre dell’apparato digestivo, e in quel suo complimento sulla mia salute d’acciaio, c’era questo pensiero: «Lei, evidentemente, povero diavolo, si permette il lusso di avere uno stomaco che digerisce bene; mentre io che potrei mantenere, non uno, ma cento stomachi, sento già il peso di questi due crostini di pane: ingiustizia sociale!»

Io avrei voluto, per il momento, assumere un volto scarno ed emaciato come il suo, e così confortarlo in omaggio all’ospitalità della casa, ma questo non mi era possibile, e però risposi:

— Grazie a Dio, signore, la salute non mi mancherebbe: ma è un capitale di cui non posso fare uso come vorrei.

— Verrà anche il resto, verrà: tutto dipende dal sapere attendere, — mi rispose quel signore.

— Verissimo, e grazie dell’augurio — dissi io, e pensai: «è molto che attendo e non viene nulla mai fuor che le note dei fornitori».

Intanto era entrato dalla porta della cucina, sostenuto a due mani dal cameriere, un piatto di forma piramidale che rivelava nel cuoco delle disposizioni architettoniche, degne di un palazzo-croccante di stile moderno.

Seguii il giro che faceva quella piramide e vide che andò a fermarsi di fianco alla signora di casa.

La signora di casa che stava parlando, la rimandò con un cenno impercettibile di rifiuto.

Quella piramide intelligente però capì subito e andò a inchinarsi al signore, quivi appresso, il quale vi immerse il cucchiaio che si sprofondò senza resistenza, e ne venne fuori un non so che di giallo, di crema, di [p. 132 modifica]bianco, di roseo come corallo, che eccitò la mia curiosità. «Carne non può essere — pensai deliziosamente — perchè è troppo bianca: dolce nè meno perchè i dolci hanno l’abitudine di presentarsi in fin di tavola; e qui siamo al principio, alla prefazione, all’esordio, dunque senza dubbio si tratta di un piatto di pesce. Deve essere una cosa prelibata», e mentre seguivo il lento avvicinarsi di quel piatto, la mia dama di sinistra mi chiese:

— Lei quale acqua usa?

Da prima non capii; ma la signora aggiunse: — Noi usiamo l’acqua di Chiara-fonte; è aggradevolissima al palato e di una sorprendente efficacia digestiva: i medici la consigliano.

Risposi alla signora che per digerire non avevo mestieri di acque purgative.

La signora mostrò quasi di arricciare il naso alla mia risposta.

— Ma per bere — insistette — che acqua usa? L’acqua di Bianca- onte, forse? meno efficace ma più ricca di gas.

Io volevo rispondere che per l’acqua da bere bevevo l’acqua naturale, che il buon Dio manda in tanta copia che il Governo se la volesse anche tassare, non lo potrebbe, e che i soldi per un liquido, caso mai, li spendevo pel vino: ma giacchè quella aristocratica dama mi voleva far bere per forza delle acque minerali, risposi che bevevo l’acqua di Bianca-fonte.

— Ah, benissimo — concluse la dama. — Però se userà l’acqua di Nera-fonte si troverà meglio.

Intanto il piatto era giunto sino a me. Il mio intelligente intuito aveva indovinato: era un piatto di pesce: ma la soavità di quella vivanda era superiore alla mia aspettativa. In quel piatto l’aragosta e il purpureo gambero caudato si erano incrociati al roseo salmone, l’oliva di Spagna germogliava dal fungo e dal tartufo; e quei [p. 133 modifica]pesci avevano deposto ogni lisca, ogni spina, ogni crosta, e si tuffavano golosamente in un bagno di crema biancastra, acidula, soavissima.

Il cuoco che aveva saputo comporre la pace tra animali di così diversa natura, che aveva fuso insieme il regno animale e vegetale in quella piramide, rivelava senso così fine che, nel suo ceto dei cuochi, doveva appartenere agli esteti senza dubbio.

A dispetto della signora di Nera-fonte — la chiamerò così perchè il nome non me lo ricordai nè anche dopo la presentazione — che ne prese pochissimo, io mi servii abbondantemente.

Mangiando in silenzio come i frati, c’era con quel piatto da godersela per mezz’ora: invece mi accorgeva con dolore che quasi tutti avevano finito. Sfido io, mandan giù la roba come i bracchi, senza toccare i denti! E poi hanno bisogno dell’acqua di Nera-fonte!

I denti il buon Dio ce li ha dati non soltanto per mostrarli al prossimo, ma anche per facilitare il lavoro di quel «tristo», ma infelice sacco che deve macinare tutto il giorno per il di più che gli date di lavoro. Esso dai sotterranei dell’officina umana, vi reclama un po’ di riposo, e voi; giù acqua di Nera-fonte. Esso è pazientissimo e validissimo operaio: ma qualche volta si stanca anche lui del superlavoro e si mette in isciopero, e il suo sciopero porta lo sciopero di altri operai minori, come sarebbe il fegato, l’intestino, ecc., i quali formano delle leghe di resistenza terribili. Allora voi ricorrete agli alberelli dei farmacisti, che nel regno sociale sarebbero come i signori agenti di pubblica sicurezza: ma tanto negli scioperi comuni come in quelli dello stomaco, con questi mezzi violenti il risultato è miserevole e il meglio che si possa ottenere è quel bel colore di avorio antico che aveva il mio vicino di destra.

Mangiate adagio che Dio vi dia bene: avete le com[p. 134 modifica]mende, i milioni, i cuochi pieni di risorse e di ingegno: i fastidi e le fatiche le affidate al prossimo, i figli li date a balia, e mangiate adagio! L’estetica!? Il masticare come i buoi e come i villani è antiestetico — voi rispondete. — Ebbene sì, avete ragione, fate come meglio vi garba. Se vi mancasse anche un po’ di mal di stomaco, l’ingiustizia sarebbe troppa!

Queste considerazioni, più tosto sovversive, non le feci allora, allora badai a mangiare il mio delizioso cibreo di pesce. Ma anche qui nuovo impaccio. Il mio unico panino era stato già divorato. Domandarne non osavo, giacchè tutti del loro panino ne avevano a sufficienza. Esso, come è noto, serve più che per cibo» a sospingere garbatamente la vivanda verso la forchetta. Il cameriere a cui rivolsi un’occhiata pietosa, o non capì o si divertì a non capire. Io, messo nell’alternativa o di domandare il pane o di mangiar senza pane, mi trovavo nella malaugurata situazione dell’asino di Buridano che, fra due fasci di fieno, non sa quale scegliere e muore di fame.

Intanto si era accesa una vivacissima discussione su di un poeta assai in voga: il poeta Parnassius, il quale, unico forse nel suo genere, piace tanto alle devote dame che vanno a purgare i loro peccati da RR. PP., come alle signore le quali peccano senza purgarsi: tanto ai parucchieri ed affini, quanto ai signori eruditi. Gli adolescenti apprendono dal poeta Parnassius una nuova forma si di morale che di eleganza.

Le signorine della buona società reputano disdicevole alla loro compiuta coltura il non aver letto il poeta Parnassius. I commessi viaggiatori — non soltanto quelli della letteratura — ma quelli veri di droghe e di stoffe, portano i volumi del poeta Parnassius insieme al campionario. In altri termini il poeta Parnassius testimonia in modo evidente la continuità nelle disposizioni artistiche e nel culto della poesia del popolo italiano. [p. 135 modifica]

Or dunque una signorina, una diafana e voluttuosa creatura, dopo aver fatto saltare in gola mezza aragosta, mi fece questa diretta domanda:

— Che cosa ne pensa lei, della situazione di Teodosilla....

Una voce: — Oh, che orribile nome!

Altra voce: — Ma niente affatto è un bellissimo nome, invece.

La questione si accese sull’estetica maggiore o minore del nome di Teodosilla: finalmente prevalse l’opinione favorevole, e Teodosilla fu messo insieme ai nomi di Giuliana, di Viviana, di Noemi e di altri nomi bellissimi e rari e come tali riconosciuti.


della situazione di Teodosilla nell’ultimo romanzo del poeta Parnassius, quando abbandona d’improvviso, come certo lei sa, il bambino del signor marchese Febo di Gioia, il quale si era mostrato inferiore alle legittime aspettative che Teodosilla avea concepito, e tutto questo ella fece per ritornare ecc., ecc.: a me tutto questo pare più tosto azzardato: non è cosi?

Una dama interruppe dicendo che la situazione era anormale psicologicamente, ma normale moralmente. Altri sostennero diverse opinioni sul caso di Teodosilla.

Io non avevo letto quest’ultimo libro, e pur dovendo rispondere, pensai bene rifarmi da capo, e mi credetti in dovere di spiegare le mie giuste teorie sulla scuola simbolista e sullo stile dei decadenti. Avevo anzi instituito un bellissimo e paradossale raffronto tra l’Arcadia del signor G. Vincenzo Gravina e l’Arcadia novissima del signor poeta Parnassius, e già mi ero avviato a parlare abbastanza bene, quando mi accorsi che le mie risposte interessanti profondamente e dall’origine la domanda fattami con tanta premura, interessava invece pochissimo l’uditorio. Anzi il conte Blasius intervenne, e con straordinaria abilità fece virar di bordo alla mia nave, la [p. 136 modifica]quale si arrestò sulle secche: in altri termini io fui costretto al silenzio.

Cominciava un altro argomento sulla campagna bacologica e sul rialzo dei cotoni di Bombay.

Io mi chinai sul piatto, che avevo lasciato ancor pieno, ma il cameriere me le aveva frattanto abilmente sottratto. La qual cosa mi mortificò, anche maggiormente.

Dopo parlarono del signor Paolo o, meglio, Paul Bourget: tutti ne erano entusiasti all’eccesso. Anche qui furono da vero cortesi perchè domandarono la mia opinione. Ma io questa volta mi accontentai di condividere la opinione comune evitando che il cameriere mi privasse del piatto degli asparagi che in quella stagione costituivano una vera rarità culinaria.

Poi si parlò dei progetti finanziari di S. E. il Ministro X***.

Sorse un coro unanime di proteste, alle quali mi unii, attaccando le mie convinzioni politiche al medesimo attaccapanni dove avevo appeso il cappello. In casa altrui bisogna ben esser cortesi!

Infine si aprì il fuoco della discussione sull’ultima novità letteraria francese: Il Cirano de Bergerac del giovane poeta E. Rostand.

Un grande letterato che sedeva a quella mensa, grande arbitro d’arte, grande amico dei letterati più famosi al di qua e al di là delle Alpi, intrattenne l’uditorio con piacevole eloquio su codesto poeta e fu più ascoltato di me. Ne recitò dei versi in ben sonante francese. Anche i camerieri stettero sulla punta dei piedi per sentire. Dopo che ebbe recitato, tutti andarono in visibilio ed io pure, non però tanto da perdere d’occhio una pernice che era subentrata agli asparagi.

Allora un giovanetto, scolaro di secondo liceo, nepote del conte Blasius, la cui testa infantile emergeva già [p. 137 modifica] lucidissimamente nera fuori da uno sparato e da un colletto lucidissimamente bianco, si rivolse con intenzione a me, e disse:

— Io per me preferisco i versi del Rostand a quelli di Dante.

Lo zio gli si voltò di proposito e lo ammonì tout court di non dire delle bètises e concluse con questa fine sentenza: «Dante è Dante».

Il signor grande letterato benevolmente assicurò il giovanetto che si trattava di due cose diverse: quindi il paragone non poteva sussistere «per la contraddizion che noi consente».

Ma il giovanetto rimase imperterrito nella sua opinione.

Lo zio disapprovò la sua opiniatrètè.

Due signorine, allieve di una aristocraticissima scuola femminile, approvarono con entusiasmo l’opinione libera e spregiudicata del signorino.

Io mi limitai a rispondere che non potevo rispondere non avendo letto ancora i versi del signor Rostand. In mio cuore però pensai con rincrescimento che una parte, pur minima, delle trattenute sul mio esiguo mensile vanno per stipendiare dei professori che spiegano Dante in modo da accenderne l’amore e lo studio come qui è dimostrato.

Alla confessione di non aver letto nulla del Rostand, sorse una voce unanime di meraviglia.

IL giovanetto promise che l’indomani mi avrebbe fatto avere al domicilio il volume del detto poeta francese. Ringraziai di gran cuore.

Seguì una disputa accaloratissima su di una partita di Lawn-Tennis, sulle eleganze di prammatica in questo nobile giuoco, mondiale oramai.

Il giovanetto liceale era avvilito perchè non possedeva la più tenue pelurie al labbro superiore da farsi radere, [p. 138 modifica]come l’uso oggi vuole. Su questo argomento del Lawn-Tennis tutti ebbero la delicatezza di non domandare la mia opinione, rispettando la mia ignoranza sulla pronunzia inglese, giacchè è noto che quando si parla di Lawn-Tennis, bisogna usare termini tecnici inglesi.

Le mie nozioni sul Tennis non vanno più in là di questa, cioè che esso è un antico giuoco italiano, noto, meglio ignoto, col nome di Pallacorda. Ma siccome nessuno fece parola di questo, così io ebbi la prudenza di evitare della storia archeologica, disdicente a quella mensa. Però, pensando all’imberbe giovinetto, non potei far a meno di meditare su questa curiosa contraddizione dei tempi moderni: cioè che mentre i camerieri delle grandi case, dei grandi alberghi, protestano in nome della dignità umana contro la barbara usanza servile di far loro radere l’onor del mento; i giovani signori si compiacciano invece, come espressione di suprema eleganza, di mondarsi il volto da ogni piccolo pelo.

Per contrasto di idee mi venne in mente quel barbuto dottor Antonio di cui parla Giovanni Ruffini nel suo oramai dimenticato romanzo.

Dopo il Tennis venne in ballo la guerra Anglo-Boera, e tutti, forse in omaggio del Tennis, erano ferocissimi Anglofili. Dopo intervenne una torta tremolante e gelatinosa, che trasudava da tutti i suoi pori i più rari sapori. E con la torta fu servito del vino di Sciampagna che credo di non averne mai assaggiato di così squisito.

Avrei voluto elegiare la torta, il cuoco, la padrona di casa. Ma visto che nessuno pigliava l’iniziativa di questo encomio, e sospettando ragionevolmente che facendolo non sarei stato seguito da alcuno, mi attenni al più accorto partito di elogiare il cuoco col fatto; cioè mangiandone molta di quella torta e così farle onore.

Ma proprio sul più bello, senza nè meno dare un cenno di preavviso, la signora padrona di casa si levò e [p. 139 modifica]diede il segno della partenza per la sala attigua ove erano imbanditi i vassoi del caffè e del liquore.

Io non potei a meno di volgere un ultimo sguardo a quell’eccellente torta, a quello spumante vino che dovevo così crudelmente abbandonare, e che non avrei mai più riveduto.

Io me ne partii con un bel chiaro di luna e per un bel silenzio notturno dall’ospitale dimora del signor conte Blasius; pensava però lungo la strada che se un giorno verrà quella fortuna che il signor Commendatore di destra mi disse di aspettare, intendo bensì avere ai miei servizi un cuoco dell’abilità e dell’ingegnosità del cuoco di casa Blasius; ma non per questo rinuncierò a mangiare adagio ed in silenzio come fanno i frati e con l’umile pane, benedetto, pel companatico.



[p. 141 modifica]

LA SECONDA DISILLUSIONE