Le stragi della China/2. Il capo del Giglio azzurro

2. Il capo del Giglio azzurro

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2.

Il capo del Giglio azzurro


La Cina è il vero paese delle società segrete, le quali hanno tutte il medesimo scopo: scacciare dal loro paese gli europei e porre soprattutto un argine al cristianesimo invadente.

Da secoli e secoli esiste quella del Giglio azzurro, che è una delle più potenti e quella degli Hung, che vuol dire del non far nulla, oltre ad altre minori, come quelle del Loto bianco, della Campana d’argento, del Berretto giallo, ecc.

I membri di esse hanno sempre dato molto da fare anche al governo cinese, promuovendo di quando in quando delle aspre insurrezioni che si dovettero poi soffocare nel sangue.

In questi ultimi tempi, buona parte di queste società si sono riunite formandone una sola più potente, che assunse il nome dei boxers, ossia degli uomini dal pugno di ferro.

Capo di questa potente associazione che si proponeva di scacciare dalla Cina tutti gli uomini di razza bianca e di massacrare tutti i cristiani, venne nominato un maestro, un fanatico seguace delle antiche religioni mongole, che non mancava né d’una certa istruzione, né d’un certo valore.

Quest’uomo, con l’appoggio più o meno coperto dei mandarini, ossia dei governatori delle città, radunò un esercito disordinato sì, però numerosissimo, col quale si mise in campagna saccheggiando dapprima quante borgate incontrava per spargere il terrore ed impressionare anche la corte imperiale.

Ai primi di maggio quell’esercito imponente, dalle provincie centrali dell’immenso impero, cominciava la sua marcia innanzi, coll’idea fissa di portarsi sotto le mura di Pechino e di bruciare quanti europei si trovavano in quella città e terrorizzare la vecchia imperatrice della Cina.


Quando il mandarino di seconda classe ed il suo compagno entrarono nell’immensa sala sotterranea, si trovarono dinanzi ad una ventina di uomini malamente vestiti, e che avevano le fasce riboccanti di coltellacci, di pistole, di rivoltelle e di pugnali.

Sembravano, all’apparenza, miserabili contadini, essendo tutti vestiti di cotone grossolano e non avendo scarpe ai piedi. Solamente uno vestiva una casacca ed i calzoni di seta color arancio, tinta riserbata esclusivamente ai principi della famiglia imperiale.

Quest’uomo, che pareva presiedesse l’assemblea, era un vecchio di statura imponente, dagli sguardi vivacissimi, i baffi molto lunghi, i lineamenti angolosi e la coda così lunga che gli toccava i talloni.

Vedendo entrare il mandarino ed il manciù, si era appena degnato di alzare gli sguardi su di loro e non aveva risposto al saluto che in Cina consiste nell’incrociare le mani sul petto, e nel muovere lentamente le dita, dicendo:

— Isin! Isin!

— Io sono l’uomo che tu aspetti — disse il mandarino.

— Sei tu un valoroso? — gli chiese il vecchio, senza guardarlo.

— Mettimi alla prova.

— Ti proveremo poi. Sei mandarino?

— E consigliere dell’impero.

— Cosa dicono di noi gli uomini che da Pechino emanano i loro ordini?

— Che voi siete i veri difensori della fede.

— Ah! — fece il vecchio, con un sorriso sardonico. — E perché allora, di quando in quando, dànno ordine di decapitare quanti boxers vengono presi dalle truppe imperiali?

— Per dare soddisfazione ai reclami minacciosi delle potenze europee — disse il mandarino.

— Allora vedremo cosa farà il governo imperiale quando noi avremo distrutti tutti gli uomini bianchi che si sono stabiliti sul suolo del Celeste Impero — disse il vecchio capo del Giglio azzurro, con voce ripiena di minaccia.

Alzò una mano e fece un cenno.

Due uomini s’alzarono e s’impadronirono del mandarino prima che questi, sorpreso da quell’atto, avesse pensato a opporre la più lieve resistenza.

— Cosa volete da me? — chiese, guardando il vecchio con inquietudine.

— Provare sul tuo collo se il filo delle nostre scimitarre è sufficiente per decapitare i consiglieri dell’impero — rispose il vecchio boxer, con voce pacata.

Ping-Ciao era diventato pallidissimo, però s’era ben guardato dal manifestare troppo palesemente lo spavento che lo aveva invaso. Forse si trattava d’una semplice prova per accertarsi del suo coraggio.

I due boxers, ad un altro cenno del loro capo, avevano costretto il mandarino ad inginocchiarsi; poi il più robusto dei due aveva snudata una lucente scimitarra tartara, dalla lama molto ricurva e molto larga.

— Io conterò fino al tre — disse il capo del Giglio azzurro. — Voglio godermi un po’ l’agonia di questo consigliere dell’impero.

Ping-Ciao conservò una calma sdegnosa. Quantunque non fosse bene certo se si trattasse d’una semplice prova o che stesse veramente per andarsene all’altro mondo, non voleva dare segno alcuno di debolezza.

Solamente cercò con gli sguardi il suo compagno manciù, che lo aveva guidato alle rovine, per vedere se era stato anche lui afferrato. Con sua sorpresa lo vide invece seduto a breve distanza col capo del Giglio azzurro, occupato a fumare un granello di oppio, in una pipa in forma di conchiglia.

— Che Sum mi abbia tradito? — mormorò.

In quel momento udì il capo a gridare:

— Uno!

Il cinese che funzionava da carnefice, alzò la scimitarra, facendola scintillare sopra la testa del povero mandarino.

— Due — disse il vecchio un momento dopo. — Bada, mandarino consigliere dell’impero, che le nere ali della morte ti sfiorano.

Ping-Ciao sorrise sdegnosamente.

— Uccidi! — gridò finalmente il vecchio.

Il mandarino aveva curvato la testa aspettando il colpo mortale; invece, con sua grande gioia, la lama che doveva troncargli il capo non scese.

Aprì gli occhi che aveva chiusi in quel supremo momento e non vide più presso di sé né il carnefice, né il suo compagno.

— Ping-Ciao, consigliere dell’impero e mandarino di seconda classe, sei degno di far parte della nostra società — disse il vecchio. — Tu hai dato prova di essere un valoroso e di non temere la morte.

— Mi riceverete fra le vostre file? — chiese il mandarino, con uno scatto di gioia.

— Non solo; ma ti promettiamo anche di aiutarti nella tua vendetta. Domanda che cosa vuoi.

— Voglio la vita d’un uomo.

— Chi è quest’uomo?

— Un prete europeo.

— Dove abita?

— A Ming.

— Questa notte non rimarrà pietra su pietra in quella borgata. Io so che è abitata da cristiani e avventerò contro quei cani tutte le bande che tengo sul Canale Imperiale.

— Grazie, capo del Giglio azzurro — disse Ping-Ciao.

— Allora prepariamoci: prima dell’alba voglio che le risaie della borgata siano tinte di rosso.

Mentre il vecchio capo dei boxers ed i suoi compagni si alzavano, un giovane cinese, che fino allora si era tenuto nascosto dietro un idolo collocato in un angolo della sala sotterranea, si era slanciato rapidamente nel corridoio.

Era il cinese che aveva introdotti Sum e il mandarino e che aveva provato quella strana emozione udendo il nome di quest’ultimo.

Il giovane, senza attendere che i capi della società uscissero, si era precipitato nel corridoio sotterraneo, correndo disperatamente.

Molto pratico del luogo, in breve giunse dinanzi all’ultimo passaggio e scivolando agilmente fra le gambe colossali di Buddha, si trovò all’aperto.

— Cerchiamo di non smarrirci, né di farci sorprendere — disse, respirando a pieni polmoni l’aria della notte.

Guardò a destra ed a sinistra per vedere se qualcuno lo spiava, poi balzando in mezzo ad alcuni cumuli di rovine, si avviò verso il Canale Imperiale.

Nessuna sentinella vi era nei dintorni. I capi della società avevano creduto inutile circondarsi di uomini, sapendo che nessuno avrebbe osato andarli a scovare fra quelle rovine.

Il giovane, giunto sull’argine, si lasciò scivolare dall’altra parte, cacciandosi in mezzo alle canne palustri che erano sorte in grande quantità in quei dintorni.

— Attento, mio piccolo Sheng — disse il giovane. — Apri bene gli occhi e cerca di giungere inosservato alla barca.

Attraversò un banco di canne, procedendo con precauzione onde non farle oscillare, e giunse felicemente dinanzi ad un piccolo galleggiante che era stato cacciato fra quella vegetazione acquatica per sottrarlo agli sguardi di tutti.

Era un piccolo battello in forma di gondola veneziana, un te’wai-ting, come viene chiamato dai cinesi, basso di bordo mentre invece la prora e la poppa sono altissime.

Il giovane cinese, prima di rimetterlo in acqua, con un coltello che portava alla cintura tagliò una bracciata di canne e le gettò sulla barca in modo da coprirla interamente, poi mandò un debole fischio.

Dalla riva opposta rispose un fischio eguale.

— Il signor Enrico è ancora al suo posto — mormorò il giovane. — Con due remi giungeremo a Ming prima del mandarino e dei boxers.

Spinse la barca nel canale, tenendosi nascosto sotto le canne e si diresse verso la riva opposta.

Un’ombra umana s’era rizzata fra i canneti che fiancheggiavano l’argine ed aveva chiesto a mezza voce:

— Sei tu, Sheng?

— Sì, padroncino.

— Puoi approdare, amico; non vi è alcuno sull’argine, né fra i gelsi.

Colui che così parlava era un bel giovane di diciassette o diciotto anni, di forme robuste.

Vestiva come Sheng, ossia con casacca e pantaloni di cotone ordinario, però anche sotto quel costume mongolo s’indovinava l’europeo.

Ed infatti quel giovane aveva la pelle bianca, leggermente abbronzata, gli occhi oscurissimi e perfettamente orizzontali, i tratti del volto regolarissimi ed invece d’avere il cranio rasato e la coda, portava una folta capigliatura ricciuta.

In mano teneva una piccola carabina a percussione centrale ed invece della fascia portava una cartucciera abbondantemente provvista.

— Buone notizie, Sheng? — chiese il giovane europeo.

— Cattivissime, padroncino — rispose il cinese. — Ho assistito alla riunione dei capi del Giglio azzurro e della Campana d’argento.

— Si erano dati l’appuntamento nelle sale sotterranee di Khang-hi?

— Sì, padroncino.

— E non hanno sospettato di te?

— Mi hanno creduto un vero boxer.

— Ci assaliranno?

— Si propongono di porre a ferro ed a fuoco tutta la provincia e di prendere d’assalto perfino la capitale.

— Tanta audacia? — chiese il giovane europeo con viva emozione.

— Sono numerosi come gli uccelli dell’aria e come i pesci del Mar Giallo — disse Sheng.

— E assaliranno anche noi?

— Prima di tutti, perché con loro vi è il mandarino Ping-Ciao.

— L’uomo che ha giurato di uccidere mio zio! — esclamò il giovanetto, con spavento.

— E che non risparmierà nemmeno vostro padre.

— Allora siamo perduti.

— Sì, se non ci sbrighiamo a giungere al villaggio.

— Partiamo, Sheng — esclamò il giovane europeo, balzando nella barca.

— Era quello che volevo dirvi, padroncino — rispose il cinese.

— Non ci saranno delle sentinelle sugli argini del canale?

— Lo sospetto, padroncino, e faremo bene a tenerci nascosti sotto le canne. Il nostro battello verrà scambiato per un ammasso d’erbe o per un tronco d’albero.

— Ammiro la tua astuzia, Sheng.

— Partiamo, signor Enrico.

I due giovani si sdraiarono sotto le canne e manovrando dolcemente i corti remi, simili a pagaie, spinsero la barca in mezzo al canale.

La corrente era in loro favore, perciò non avevano bisogno di fare sforzi soverchi che sarebbero stati impossibili sotto quell’ammassso di vegetali. Bastava guidare il galleggiante con qualche colpo di pagaia dato a tempo.

Le rive del canale apparivano deserte, nondimeno i due giovani non si fidavano molto di quella tranquillità, forse più apparente che reale.

I gelsi ed i lauri, proiettavano un’ombra così fitta, da rendere quasi invisibile la piccola scialuppa.

Manovrando lentamente avevano percorso quasi un miglio, quando distinsero in mezzo al canale una massa enorme, di forme strane, la quale ondeggiava leggermente con degli scricchiolìi prolungati.

— Guardate, padroncino — disse Sheng, arrestando la barca con due colpi di pagaia.

— Una giunca! — esclamò il giovane europeo.

— E si è ancorata proprio in mezzo al canale come se volesse impedire il passaggio.

— Che appartenga ai boxers?

— Ho motivo per crederlo, padroncino. Quei briganti devono aver prese le loro misure per impedire la fuga ai cristiani che vogliono trucidare.

— Noi non possiamo tornare indietro. Sarebbe la perdita del padre Giorgio e di mio padre.

— E di tutti i cristiani di Ming — aggiunse Sheng.

— Cerchiamo di passare.

— Nascondetevi più che potete.

— E preparo anche la carabina — disse il giovane europeo. — Mio padre mi ha insegnato a servirmene a meraviglia, da vero bersagliere italiano.

I due giovani tornarono a coricarsi sotto le canne e spinsero la barca presso la riva destra, sperando di passare senza venire scoperti dagli uomini che dovevano guardare la nave.

Si trattava veramente d’una giunca di dimensioni straordinarie. Questi bastimenti, usati dai marinai cinesi, conservano la forma data a simili velieri dai primi navigatori.

Sono di forme pesantissime, colla poppa molto alta, la prora larga, niente atta a fendere le acque, adorna per lo più da una mostruosa testa di drago. Hanno uno o due alberi e le vele invece di essere di buona tela sono formate con vimini strettamente intrecciati.

Quantunque così male conformate e di solidità molto dubbia, si spingono molto lontano dalle coste cinesi e non è raro incontrarle nei mari del sud e perfino sulle coste dell’Australia.

Devo però dire che tutti gli anni un numero immenso di queste navi barocche vengono inghiottite dal mare e si calcola che non meno di trentamila marinai periscono ogni anno durante l’epoca dei tifoni.

Il giovane europeo e Sheng, sempre sdraiati sotto le canne, tenevano gli sguardi fissi sulla nave, cercando di scoprire gli uomini incaricati della guardia notturna.

Stavano per oltrepassarla, quando videro comparire, presso la poppa, due ombre.

— Chi passa? — gridò una voce.

— Silenzio — disse rapidamente Sheng al suo compagno.

— Non sarò così sciocco da rispondere — rispose il giovane europeo.

— Chi passa? — ripeté la voce con accento minaccioso.

— Io credo che tu t’inganni — disse un’altra voce. — Quello che tu prendi per una barca non è altro che un albero.

— Io non sono del tuo parere, invece.

— Allora sarà un ammasso di canne.

— Nemmeno: ti dico che si tratta di una barca e forse montata da cristiani o da stranieri.

— Andiamo a vedere.

— Padroncino — disse Sheng. — Essi vengono da noi.

— Sono due soli — rispose il giovane europeo.

— Volete far fuoco su di loro?

— No, perché allo sparo balzerebbero fuori tutti i marinai della giunca.

— Cosa fare, padroncino?

— Aspettiamo che ci siano vicini, poi li cacceremo in acqua.

Frattanto i due marinai della nave avevano calato in acqua un canottino appena capace di contenerli e avevano presi i remi.

— Ti dico che è un ammasso di canne — disse la voce di prima.

— Ed io sono convinto che sia una barca — aveva risposto l’altro. — Al di sotto delle canne vedo una certa forma che non rassomiglia affatto ad un tronco d’albero.

— Scommettiamo una pipata d’oppio.

— Accettato.

Il canotto, spinto da due remi manovrati da braccia robuste, correva addosso alla barca. Sheng ed il suo compagno, non osavano muoversi; però l’imminenza del pericolo aveva reso il coraggio ad entrambi.

— Sta’ pronto, Sheng — disse l’europeo. — Il canotto è leggero e lo rovesceremo facilmente.

— E dopo?

— Prenderemo i remi e fuggiremo a tutta velocità. Mi pare che non vi sia alcuno sugli argini.

— I marinai della giunca faranno fuoco.

— Prima che si sveglino noi saremo lontani. Eccoli, Sheng.

Il canotto, spinto innanzi a tutta velocità, urtò così malamente la barca montata dai due fuggiaschi, che quasi si rovesciò.

Sheng ed il suo compagno eransi alzati rapidamente e prima che i due marinai si fossero rimessi dalla sorpresa e avessero ripreso l’equilibrio, avevano afferrato il bordo del canotto.

Imprimere a quel leggerissimo galleggiante una potente scossa e rovesciarlo, fu la cosa d’un solo istante.

I due marinai scomparvero nelle nere acque del canale, poi risalirono subito a galla, gridando disperatamente:

— Aiuto!

Sheng, che li aveva vicini, assestò a loro due poderosi colpi di pagaia, poi spinse la barca verso la riva opposta, dove l’ombra proiettata dalle piante era più fitta.

— Presto, mano ai remi e non perdiamo una battuta — disse il cinese.

Sulla coperta della giunca si vedevano correre degli uomini, svegliati dalle grida dei due marinai, i quali si dibattevano sempre in mezzo al canale, gridando a squarciagola:

— Essi fuggono! Fate fuoco!

— Dove? Su chi? Che cosa è successo? — chiedevano gli uomini accorsi sulla coperta.

La barca era ormai lontana. Quando i primi colpi di fucile cominciarono a rimbombare, Sheng e il suo compagno si erano di già cacciati in un canaletto laterale, scomparendo in mezzo ad una vasta palude.