Le stragi della China/16. Gli orrori di Pechino

16. Gli orrori di Pechino

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15. La fuga 17. La caccia al mandarino

16.

Gli orrori di Pechino


Pechino è la più grande città dell’impero cinese ed una delle più popolose del mondo, quantunque in questi ultimi tempi i suoi abitanti siano scemati di molto per concentrarsi nelle industriose città marittime. Essa si divide in due parti distinte: ossia in città tartara chiamata Neuch’eng, che vuol dire entro le mura, ed in città mongola o Cheng-wai, che significa fuori mura. Sono denominazioni improprie però; poiché entrambe invece sono cinte da muraglie bastionate alte da sette a nove metri, costruite con grossi macigni, lastricate di marmo e rinforzate di tratto in tratto da torri quadrate, molto grosse, munite di numerose feritoie.

La città, che occupa un’area immensa, superiore a quella di Londra o di Parigi, è situata su di una pianura sabbiosa, attraversata in parte dal Canale Imperiale ed ha tre porte a mezzogiorno, due ad occidente, tre a oriente e cinque a settentrione.

Una muraglia divide la città mongola — che è abitata esclusivamente dai cinesi e dagli stranieri, compresi gli ambasciatori delle varie potenze europee — da quella tartara. Questa è invece riservata alla corte imperiale ed agli altri funzionari dello Stato, ed è racchiusa entro mura quadrate, difese da torri sulle quali, ancora pochi anni or sono, si vedevano numerosi cannoni di legno!

Pechino è oggidì in decadenza. Le sue immense strade, larghe e diritte, lastricate di marmo, che un tempo formavano l’ammirazione degli stranieri, sono sfondate, polverose e coperte di un tale strato di fango quando piove, da intercettare quasi il passaggio. Le case vi crollano in gran numero e certi quartieri sono in rovina. Le macerie si accumulano dappertutto senza che nessuno si occupi di trasportarle altrove.

Cosa importa se dei quartieri rovinano! Delle abitazioni ve ne sono così tante in quella immensa città, da poter dare ancora ricovero a qualche milione di nuovi abitanti.

La città tartara però si mantiene ancora salda e robusta, coi suoi splendidi palazzi coperti di tegole di porcellana gialla, con le sue torri a vari piani scintillanti di mille riflessi, coi suoi archi trionfali eretti dagli antichi imperatori a ricordo delle loro vittoriose imprese, coi suoi templi dalle cupole dorate o azzurre, coi suoi pinnacoli che si slanciano arditamente in alto e coi suoi incantevoli giardini ricchi di piante, di chioschi e di ponti di marmo candido.

Se tutto cade e rovina intorno ad essa, giganteggia sempre per ricordare ai quattrocentotrenta milioni di sudditi, che colà vive l’imperatore, il Figlio del Cielo.

Il piccolo drappello, appena entrato nella città, si trovò fra le rovine. A destra ed a sinistra del bastione, le case erano state incendiate o diroccate dalle artiglierie ed una puzza nauseante si alzava fra i giardini, devastati dalla furia dei boxers.

Non si vedevano che radi abitanti i quali fuggivano disordinatamente all’avvicinarsi del drappello, scavalcando le muraglie e scomparendo in mezzo alle macerie.

— Se non si udisse il cannone tuonare nella città cinese, si direbbe che Pechino sia diventata un immenso cimitero — disse il signor Muscardo.

— Meglio per noi se questi quartieri sono deserti — rispose la guida. — Potremo trovare un luogo ove riposarci senza venire inquietati ed aspettare la notte.

— Siamo lontani dalla porta di Yung-ti?

— Saremo costretti a passare presso le legazioni europee.

— Non si possono evitare? Ritengo inutile cacciarsi fra i combattenti, non potendo noi portare alcun soccorso alle ambasciate, se è vero che i ribelli le hanno già circondate.

— Il fumo e le fiamme si alzano precisamente in direzione delle legazioni — rispose la guida.

— Se si potesse trovare qualche punto dominante per vedere esattamente quanto succede al di là di quella cortina di fuoco.

— Voi mi avete parlato della torre della porta di Yung-ti.

— Sì, è là che si radunano i membri della Croce gialla.

— Non è molto lontana dalle legazioni e dalla cima della torre potremo assistere al combattimento.

— Ti ho detto che vorrei evitare di trovarmi in mezzo ai boxers.

— Troveremo il mezzo per giungere inosservati alla porta. Forse i bastioni non sono più occupati dalle truppe.

— Cerchiamo un ricovero per ora.

— Ecco lì una cinta che racchiude un giardino ed una casa di bella apparenza. Il tetto è stato in parte sfondato da qualche granata, quindi non troveremo nessun abitante.

— Se la casa è deserta, ne faremo il nostro quartier generale — disse il signor Muscardo.

Non essendo la cinta molto alta, i due italiani ed i cinesi, aiutandosi reciprocamente la superarono, calandosi in un bellissimo giardino coltivato a peonie, a lilla, a rose, e ricco di piante fruttifere, giuggioli, melagrani e nespoli, già carichi delle loro frutta gialle dorate e di aranci.

All’estremità sorgeva una graziosa abitazione del più puro stile cinese, così diverso da tutti quelli conosciuti in Europa, costruita parte in legno e parte in mattoni, con doppi tetti, a punte ripiegate e belle gradinate di marmo.

Doveva essere stata la dimora di qualche ricco cinese, forse di qualche mandarino.

Delle palle, probabilmente delle granate, avevano danneggiato una parte del tetto e una parete maestra, facendo diroccare un angolo e costringendo gli inquilini a fuggire. Non c’era però alcun timore che l’edifizio crollasse, poiché le costruzioni cinesi, quantunque sembrino molto leggere, sono solidissime, sacrificando sovente gli architetti mongoli l’eleganza a vantaggio della robustezza.

L’interno di quella casa era tenuto con molta cura. Le stanze avevano i pavimenti lucidissimi a grandi scacchi di legno laccato, le pareti erano tappezzate di carta fiorata di thung, la più pregiata che si trova in Cina, ed i soffitti avevano decorazioni in porcellana.

Il mobilio era leggero ed elegante, consistente in tavoli laccati ad intarsi di ebano e di madreperla, in sedie, pure di bambù, a dorature, i paraventi bellissimi adorni di grù, di draghi, di lune sorridenti.

In una saletta vi era ancora una tavola imbandita. Sopra la tovaglia di carta di seta vi si vedevano piatti e zuppiere di finissima porcellana variopinta, contenenti cibi in abbondanza e vasi ancora pieni di sciroppi, di liquori e di vini color dell’ambra che i cinesi usano bere tiepidi.

Gli inquilini dovevano essere stati sorpresi dalle granate mentre stavano per mettersi a tavola ed erano fuggiti, senza avere ancora nulla toccato.

— Ecco un pranzo che è caduto dal cielo — disse il signor Muscardo, messo di buon umore alla vista di quella tavola imbandita. — Giacché ce lo hanno abbandonato, noi approfitteremo.

Il padrone di quella graziosa abitazione doveva essere stato un gran ghiottone a giudicarlo dalle pietanze che si trovavano sulla tavola.

Vi erano zuppe di nidi di rondini, di salangane, di polli ancora un po’ tiepidi; pasticci di riso allo zucchero, radici di ninfee candite, gamberi in guazzetto, ventrigli di passeri, occhi di montoni in salsa con l’aglio, ravioli al latte; poi frutta in quantità straordinaria, come: aranci, castagne d’acqua, melagrane, mangli, banane e uva verde.

— Noi, che non abbiamo paura delle granate, prenderemo il posto di quei pusillanimi — disse il signor Muscardo, riempiendosi una tazza di vino bianco per stuzzicarsi l’appetito.

Essendo tutti affamati, specialmente i dodici cinesi della gabbia, bastarono pochi minuti per far scomparire tutte quelle pietanze, poi Sheng, avendo scoperto un bricco e del thè, servì a tutti la deliziosa bevanda in chicchere piccine, col coperchio ornato del ritratto di Bodhidharama, il celebre monaco buddista, che si ritiene come il primo coltivatore del prezioso arbusto, che ha dato la ricchezza alla Cina.

— Ora possiamo anche riposarci — disse il signor Muscardo. — Questa sera avremo molto da fare e non so se potremo dormire.

— Andremo questa notte a liberare lo zio Giorgio? — chiese Enrico.

— Tutto dipende da quello che ci diranno i membri della Croce gialla.

— Tardando noi ad agire non correrà il pericolo di venire trucidato?

— Mio fratello cercherà di prendere tempo, avendogli promesso di venire in suo soccorso. Credo d’altronde che colla ribellione che imperversa qui, Ping-Ciao avrà altre occupazioni pel momento.

— Tu mi rassicuri, padre. Avrei però desiderato andare alla casa di Ping-Ciao.

— È impossibile, Enrico. Il mandarino abita nella città tartara e non ci si permetterebbe di entrare, specialmente in questi momenti.

— Tutte le porte saranno chiuse e guardate dalla guardia imperiale — disse la guida.

— Ed allora come faremo a liberare padre Giorgio? — chiese Enrico.

— Ce lo dirà il capo della Croce gialla — rispose il signor Muscardo.

— Non hai timore sulla sorte di tuo fratello?

— Pel momento no, Enrico. Andiamo a riposare, figlio mio, in attesa che il sole tramonti.

In quella casa v’erano parecchi letti, non già in muratura, come usano i contadini, bensì in bambù, molto bassi ed eleganti, con soffici materassi e i guanciali formati da vimini verdi intrecciati che mantengono una frescura deliziosa.

I due italiani ed i dodici cinesi, che erano i più stanchi, approfittarono per gustare alcune ore di sonno, mentre Sheng si metteva in sentinella nel giardino onde nessuno venisse a disturbarli.

Quando il signor Muscardo si svegliò, il sole era tramontato da un paio d’ore e una profonda oscurità avvolgeva la casa ed il giardino.

La guida si era già alzata e stava distribuendo delle armi che aveva trovato in una stanza, dovendo tutti figurare come boxers.

— Possiamo partire, signore — disse all’ex bersagliere.

— Brucia ancora la città? — chiese il signor Muscardo.

— Sempre; e nei quartieri meridionali e occidentali si combatte con accanimento, a giudicarlo dai colpi di cannone e dalle scariche di moschetteria.

— I boxers sono decisi a non lasciare un istante di tregua alle ambasciate.

— Vogliono trucidare tutti gli stranieri.

— Miserabili!

— È una guerra di esterminio, signore.

— E non poter soccorrere quei disgraziati! — esclamò il signor Muscardo con rabbia.

— Verremmo subito trucidati.

Shen con Enrico e gli altri li aspettavano nel giardino, pronti a partire. Erano tutti armati di rivoltelle e di pugnali e abbondantemente provvisti di munizioni.

Il drappello superò la muraglia e si mise in marcia prendendo una viuzza deserta, fiancheggiata da case e da capanne disabitate ed in gran parte distrutte.

I riflessi dell’incendio rischiaravano la via. In alto si udivano sibilare le palle e scoppiare qualche granata perduta.

Giunto all’estremità della via, il drappello attraversò un ponte di pietra gettato su di un canale e piegò verso i bastioni occidentali per evitare il campo di battaglia.

In quel luogo l’incendio avvampava con furore. Quartieri intieri ardevano lanciando in aria immense lingue di fuoco e turbini di scintille.

Di quando in quando delle case, ormai mezze consunte, diroccavano con scrosci assordanti, riempiendo le vie di macerie.

Dietro quei quartieri si udivano urla spaventevoli, confuse col rimbombo delle artiglierie e colle scariche di moschetteria. La notte non aveva calmato la rabbia dei combattenti.

Di tratto in tratto dei fuggiaschi attraversavano le piazze e le vie, passando in mezzo ai vortici di fumo e scomparivano in mezzo alle rovine.

— Siamo presso la legazione inglese — disse la guida. — Deve essere il perno della difesa degli stranieri, essendo la più vasta e la più solida.

— Che possa resistere fino all’arrivo delle truppe internazionali? — chiese il signor Muscardo.

— Ne dubito, signore, se le truppe imperiali, come si dice, hanno fatto causa comune con gl’insorti. I nostri soldati oggi sono armati come quelli europei e non difettano di cannoni moderni.

— Mi hanno detto che vi sono dei marinai che difendono i palazzi delle ambasciate.

— È vero, signore. Ne sono giunti trecento o quattrocento il mese scorso; e cosa potranno fare contro centomila ribelli?

— Prevedi un disastro?

— Sarà questione di giorni. Udite? Sono mura che crollano!

— Mura della legazione?

— È possibile, signore.

— Affretta il passo; sono impaziente di giungere alla torre per aver notizie della legazione italiana.

Tenendosi rasente ai bastioni per evitare la pioggia di fuoco e anche le palle che cadevano in buon numero in mezzo alle case, scoppiando con orrendo frastuono, dopo una mezz’ora il drappello giungeva felicemente presso la porta di Yung-ti.

Colà non si trovavano che pochi soldati con alcuni cannoni, occupati a barricare l’entrata, forse per impedire l’accesso a nuove bande di ribelli che percorrevano le vicine campagne.

La guida, temendo di venire fermata ed interrogata, fece attraversare ai suoi compagni un giardino e giunse presso un’alta torre a cinque piani, con le muraglie coperte di piastrelle di porcellana e che sorgeva isolata in mezzo ad una piccola piazza.

— Ci siamo — disse, volgendosi verso il signor Muscardo.

— Che sia proprio questa? — chiese l’ex bersagliere.

— Non ve ne sono altre in questi dintorni.

— Ti sembra abitata?

— Sì, vedo un lume brillare ad una finestra.

— Cerchiamo l’entrata.

Girarono attorno alla torre e giunsero dinanzi ad una porticina molto bassa, laminata in ferro e fornita d’un pesante martello di bronzo foggiato a drago.

— Che i soldati che guardano il bastione ci possano udire? — chiese il signor Muscardo alla guida.

— Sono lontani e poi il cannone romba incessantemente e soffocherà ogni rumore.

L’ex bersagliere sollevò il martello e lo lasciò cadere, facendo rintronare la torre.

Un momento dopo s’apriva un piccolo sportello che si trovava a fianco della porta, ed una voce chiese:

— Cosa volete?

— Parlare al capo della Croce gialla — rispose il signor Muscardo.

— Chi siete?

— Cristiani.

— Avete la parola d’ordine?

— Sì: Cristo e Croce gialla.

— Chi vi manda?

— Han, il capo del Pei-ho.

— Quanti siete?

— In quindici.

— Attendete un momento.

Nell’interno si udirono cadere a terra delle spranghe di ferro, poi la massiccia porta si aprì e comparve un cinese armato di due rivoltelle.

Guardò attentamente il signor Muscardo, contò gli uomini poi si trasse da parte, dicendo:

— Entrate!

Poscia, quando i quindici uomini furono passati, rinchiuse nuovamente la porta, sprangandola.

Accesa una lanterna di talco, fece attraversare ai nuovi venuti una saletta, poi montò una scala che girava a spirale, stretta tanto da non permettere il passaggio a più d’una persona.

Salì tre piani e s’arrestò al quarto, introducendo il signor Muscardo ed i suoi compagni in una camera a vôlta, colle pareti coperte d’armi d’ogni specie ed illuminata da una grande lanterna.

In quel luogo, seduti sopra stuoie, con le gambe incrociate alla moda dei turchi, si trovavano sei cinesi per la maggior parte attempati. Un settimo, di statura altissima e che rassomigliava nei tratti del volto al carnefice di Palikao, stava invece seduto su di una sedia di bambù, a bracciuoli.

Era un uomo di circa cinquant’anni.

Aveva gli occhi intelligenti e vivissimi, la pelle quasi bianca e portava una folta barba al pari di certi manciù del settentrione.

Vedendo entrare il signor Muscardo, si era alzato dicendo:

— Salute a te ed ai tuoi compagni.

— Ti porto i saluti di Han — rispose il signor Muscardo.

— Di mio fratello?

— Ah! Non sapevo che il capo della Croce gialla di Pei-ho fosse tuo parente.

— Si trova ancora a Palikao?

— Sì, e si adopera a salvare quanti cristiani può.

— Han è bravo ed audace — disse il gigante. — Mi dirai ora cosa desideri.

— Salvare un missionario, mio fratello.

— Come si chiama?

— Padre Giorgio.

— Il parroco di Ming! — esclamò il capo della Croce gialla con stupore. — Non era morto nell’assalto del villaggio?

— No, riuscimmo a salvarlo.

— E dove si trova ora?

— Nelle mani del mandarino Ping-Ciao.

— Del padre di Wang!

— Tu conosci adunque il motivo che ha spinto il mandarino contro mio fratello?

— Lo conosco perfettamente.

— Ebbene, padre Giorgio è stato condotto qui ieri sera da Ping-Ciao e da Sum.

— Questo lo ignoravo — disse il cinese. — Si trova prigioniero nella casa del mandarino?

— Sì — rispose il signor Muscardo.

— Raccontami tutto.

L’ex bersagliere in poche parole lo mise al corrente di quanto era avvenuto dopo la loro fuga da Ming fino al momento in cui Han li aveva liberati.

— La cosa è grave — disse il cinese, quando ebbe tutto udito. — Il mandarino abita nella città tartara ed in questo momento nessuno può varcare le mura. La guardia imperiale è sotto le armi e veglia rigorosamente per impedire una sorpresa da parte dei boxers e delle truppe che hanno defezionato.

— Sicché mio fratello è perduto! — esclamò il signor Muscardo, con voce rotta.

— Non disperate ancora. La nostra associazione è potente e conta fra i suoi membri persone audaci che non temono di giuocar la loro vita pur di salvar dei cristiani. Io radunerò i capi principali e mi consiglierò con loro sul da farsi. Io ho un’idea.

— E quale?

— Il mandarino rimpiange suo figlio?

— Almeno lo si crede.

— Manderò un corriere ad avvertire Wang di quanto succede. Sapendo che si tratta di salvare l’uomo che lo ha fatto cristiano, non indugerà ad accorrere per salvarlo.

— Tu sai dove si trova?

— Sì: è rifugiato a Dolon-Noor, nella Mongolia.

— È troppo lontano.

— In quattro o cinque giorni può essere qui.

— Giungerebbe troppo tardi per salvare mio fratello.

— Noi non conteremo solamente su Wang — disse il cinese. — Anzi, nel frattempo, agiremo per nostro conto per strappare al mandarino il missionario. Dove abitate?

— Nel quartiere di Ho — rispose la guida. — Abbiamo preso possesso d’una casa abbandonata.

— Uno dei miei uomini vi accompagnerà e domani verrà ad avvertirvi della nostra decisione.

— E non sarebbe il caso di rivolgersi a qualche ambasciata? — chiese il signor Muscardo. — Forse tutte non sono state distrutte.

— Non ne sussiste più che una, quella inglese, ed è assediata almeno da cinquantamila uomini.

— E quella italiana? — chiese l’ex bersagliere con angoscia.

— È stata incendiata.

— Ed i suoi difensori?

— Si crede che si siano rifugiati in quella inglese. Volete vedere cosa succede a Pechino?

— Volevo domandarvelo.

— Seguitemi all’ultimo piano della torre. È uno spettacolo che stringe il cuore.

Il capo della Croce gialla si alzò e fece salire ad Enrico ed al signor Muscardo un’altra scaletta tortuosa, molto ripida, aperta nello spessore delle muraglie.

Di passo in passo che salivano, gli spari delle artiglierie e le scariche di moschetteria diventavano più assordanti. Sembrava che la battaglia si svolgesse quasi alla base della torre.

Dalle piccole feritoie che illuminavano la scala, entravano sprazzi di luce rossastra e folate di fumo miste a scintille.

Superato l’ultimo tratto, il capo condusse i due italiani su una veranda, che girava attorno all’ultimo piano, dicendo loro:

— Guardate! Ecco che cosa succede in Pechino.

Uno spettacolo infernale s’offerse tosto agli sguardi atterriti del signor Muscardo e di suo figlio.

La capitale pareva un oceano di fuoco.

Vampe immense, turbini di scintille e nuvoloni di fumo coprivano tutta la parte meridionale della città. Quartieri interi ardevano con rapidità spaventosa come se fossero stati circondati da migliaia di botti di petrolio, senza che nessuno si prendesse la cura di spegnerli. In mezzo a quelle fiamme, rischiarata come in pieno mezzodì, si vedeva la splendida e grandiosa ambasciata inglese, la più grande di tutte le legazioni estere, stretta da tutte le parti da miriadi di soldati e di ribelli i quali la tempestavano di granate e di palle.

Il gigantesco edifizio era ancora quasi intatto, non ostante il fuoco incessante degli assalitori. Dietro le muraglie dei giardini, alle finestre, sulle terrazze e perfino sui tetti si vedevano gruppi di europei, i quali rispondevano vigorosamente al tempestare degli assedianti.

I marinai delle varie nazioni, distinguibili per le loro divise di tela bianca ed i risvolti azzurri, combattevano sulle muraglie dei giardini e dei cortili, facendo fuoco con alcune mitragliatrici e respingendo con cariche alla baionetta i boxers che cercavano, con selvaggio accanimento, di superare gli ostacoli per rovesciarsi nelle cinte ed opprimerli col loro numero immenso.

Il signor Muscardo, dinanzi a simile spettacolo si era sentito correre per le ossa un fremito d’ira e di santo entusiasmo.

— Perché non posso essere anch’io in mezzo a quei prodi? — esclamò. — Morrei ben volentieri all’ombra della bandiera italiana, col grido della patria sulle labbra.

— Anch’io, padre! — disse Enrico. — Andiamo anche noi a combattere a fianco di quei valorosi.

— E mio fratello?

— Ah! È vero, padre! Lo avevo dimenticato. Salviamolo, poi andremo anche noi a difendere la legazione, a vincere od a morire.

— Ahimè! Sarà allora troppo tardi — rispose il signor Muscardo, con voce triste. — Quando noi saremo liberi non vi sarà più un europeo vivo in questo inferno. Vieni, Enrico, fuggiamo da questo spettacolo che mi strappa l’anima od io commetto qualche pazzia. Sento che il sangue mi bolle e che se dovessi rimanere ancora qui qualche istante, non risponderei più di nulla.

— Sì, padre, andiamo, non dimentichiamo che dobbiamo salvare dalla morte tuo fratello.

Pochi minuti dopo il signor Muscardo ed Enrico abbandonavano la torre colla loro scorta e con un membro della Croce gialla, facendo ritorno alla casa diroccata.