Le piacevoli notti/Notte VI/Favola III

Favola III

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FAVOLA III.


Polissena vedova ama diversi amanti; Panfilio suo figliuolo la riprende: ella li promette di rimoversi, s’egli cessa grattarsi la rogna; egli le promette, la madre l’inganna: e finalmente ogn’uno ritorna all’opra sua.


La donna, assuefatta ad alcuna cosa, o buona o rea che si sia, non si può da quella agevolmente astenere; perciò che in quell’abito, ch’ella è lungamente vivuta, persevera fino al termine della vita sua. Per il che intendo ora raccontarvi un caso ad una vedovella avenuto; la quale, abituata nella puzzolente lussuria, non puote mai per modo alcuno da quella rimoversi, anzi con uno sottil inganno fatto al proprio [p. 22 modifica]figliuolo, che amorevolmente la riprendeva, non cessò dal suo malvagio proponimento, sì come nel discorso del mio ragionare a pieno intenderete.

Fu adunque, graziose donne, poco tempo fa, e forse ancora udito l’avete, nella pomposa ed inclita città di Vinegia, una vedovella, Polissena per nome chiamata, donna nel vero giovane di anni, e di corpo bellissima: ma di bassa condizione. Costei col proprio marito ebbe un figliuolo, Panfilio chiamato, giovene ingenioso, di buona vita, e di laudevoli costumi; ed era aurifice. E perchè, sì come ho detto di sopra, Polissena era giovane vaga e piacevole, molti uomini, e di primai della città, la vagheggiavano, e fortemente la solecitavano. Ed ella, che già provati aveva e piaceri del mondo e i dolci abbracciamenti d’amore, agevolmente condescendeva alla volontà di coloro che la sollecitavano, e in anima e in corpo a quelli si dava. Ella, essendo tutta fuoco, non si sottometteva a uno o duo amanti, il che sarebbe stato errore degno di perdono per esser giovane e di poco rimasa vedova; ma faceva copia della persona sua a chiunque desiderava gli abbracciamenti suoi, non avendo riguardo nè a l’onor suo, nè a quello del marito. Panfilio, che di tal cosa era consapevole, non già che la favoreggiasse, ma perchè di ora in ora s’accorgeva de’ pessimi portamenti della madre, si ramaricava molto, e ne sentiva quel grave cordoglio e dura passione di animo, quale ciascaduno prudentissimo uomo sentito arrebbe. Dimorando adunque il meschinello in questo tormento di animo, nè potendo più sofferire tanto ignominioso scorno, più e più volte tra se stesso deliberò uccidere la madre. Ma poscia considerando che da lei avuto aveva l’essere, si rimosse dal suo fiero proponimento, e volse vedere se con parole la poteva placare, e [p. 23 modifica]rimoverla da questo errore. Laonde, presa un giorno l’opportunità del tempo, si pose con la madre a sedere; e tai parole amorevolmente le disse: Madre mia diletta e onoranda, non senza grandissimo dolore e affanno mi son posto quivi con esso voi a sedere, e rendomi certo che voi non arrete a sdegno intender quello che nel petto fina ora tenni nascoso. Io vi ho per lo adietro conosciuta savia, prudente e accorta; ma ora imprudentissima vi conosco, e vorrei, sallo Iddio! esser tanto da lungi, quanto io vi sono da presso. Voi, per quanto io posso comprendere, tenete pessima vita, la quale oscura la fama vostra e il buon nome del quondam padre mio e marito vostro. E se non volete aver risguardo all’onor vostro, almeno abbiate rispetto a me, che vi sono unico figliuolo, in cui sperar potete che sarà vero e fido sostentacolo della vecchiezza vostra. La madre, udite le parole del figliuolo, se ne rise, e fece a modo suo. Panfilio, vedendo che la madre faceva poco conto delle amorevoli sue parole, deliberò di non dirle più cosa alcuna, ma lasciarla far ciò che l’aggradiva. Non varcorono molti giorni, che Panfilio per sua sciagura prese tanta rogna, che pareva leproso; e perchè era il freddo grande, non poteva remediarle. Stavasi il buon Panfilio la sera presso il fuoco, e di continovo grattavasi la rogna; e quanto più egli participava del calor del fuoco, tanto più s’accendeva il sangue e cresceva la smania. Stando una tra l’altre sere Panfilio al fuoco, e con somma dolcezza grattandosi la rogna, venne uno amante della madre, ed in presenzia del figliuolo stette gran pezza con esso lei in amorosi ragionamenti. Il meschinello, oltra la noia della infetta scabbia che fieramente lo premeva, di veder la madre con lui molto s’attristava. Partitosi l’amante, Panfilio, [p. 24 modifica]grattandosi tuttavia la rogna, alla madre disse: Madre, altre volte io vi essortai che doveste reffrenare cotesta mala e disonesta vita, la qual parturisse e a voi vergogna ria, e a me, che vi sono figliuolo, danno non picciolo; ma voi, come donna impudica, avete chiuse le orecchie, volendo piuttosto contentare gli appetiti vostri, che attender a gli consigli miei. Deh! madre mia! lasciate ormai questa ignominiosa vita, cessate da sì grave scorno, conservate l’onor vostro nè vogliate esser causa della morte mia. Non vi avedete che la morte vi è sempre da canto? Non udite quello che di voi si ragiona? E così dicendo di continuo si grattava la rogna. Polissena, udendo Panfilio suo figliuolo sì grandemente dolersi, immaginossi farli una burla, acciò che più non si ramaricasse di lei; e la burla le successe sì come ella bramava ed era il desiderio suo. E voltatasi con allegro viso verso il figliuolo, disse: Panfilio, tu ti duoli e contristi di me, che io tengo mala vita; io il confesso, e tu fai quello che dee far un buon figliuolo. Ma se tu sei così desideroso dell’onor mio, come tu dici, tu mi contentarai d’una sola cosa, ed io all’incontro ti prometto di mettermi nelle tue mani, e lasciare ogni amatore, e tenere buona e santa vita; ma non contentandomi, tieni per certo che tu non arrai il desiderio tuo, ed io mi darò a peggior vita che prima. Il figliuolo, che desiderava più che ogni altra cosa l’onor materno, disse: Comandate, madre, che se ben voleste che io mi gettasse nel fuoco ed ivi m’abbrusciasse, io per amor vostro il farei volentieri, mentre che voi non incorriate più nel vizio, in cui fin’ora siete incorsa. — Guarda, disse la madre, e considera bene sopra quello che io ti dirò, che se tu intieramente l’osserverai, arrai l’intento tuo; se no, la cosa sarà con maggior tuo scorno [p. 25 modifica]e danno. — Io, disse Panfilio, mi obligo di essequire quanto voi mi proponerete. Disse allora Polissena: Io da te, figliuolo, altro non voglio, salvo che per tre sere cessi di grattarti la rogna; e io li prometto di sodisfare al desiderio tuo. Il giovane, udita la materna proposta, stette alquanto sopra di sè: e quantunque dura gli paresse, nondimeno accontentò; e in fede di questo ambiduo si toccaron la mano. Sopravenne la prima sera, e Panfilio, partitosi da bottega, venne a casa; e posta giù la zamarra, si mise a passeggiare per camera. Indi, perchè il freddo lo molestava, si pose appresso il fuoco in un cantone; e tanto li crebbe la volontà di grattarsi, che quasi non si poteva ritenere. La madre, che era astuta e aveva acceso un buon fuoco, acciò che il figliuolo meglio si scaldasse, vedendolo torgersi e distendersi non altrimenti di quello ch’arrebbe fatto una biscia, disse: Panfilio, che fai tu? Guarda che non mi manchi della promessa fede, perció che io non son a te per mancare. Rispose Panfilio: Non dubitate punto di me, madre mia. State pur voi ferma, ch’io non vi mancarò; e tuttavia l’uno e l’altro rabbiava: l’uno di grattarsi la rogna, l’altra di ritrovarsi coll’amante suo. Passata con grandissima amaritudine la prima sera, sopraggiunse l’altra; e la madre, acceso un buon fuoco e apparecchiata la cena, aspettò il figliuolo che ritornasse a casa. Il quale strinse e denti, e meglio che ’l puote, ancor la seconda sera ottimamente passò. Polissena, vedendo la gran constanza di Panfilio, e considerando ch’erano passate due sere che grattato non si aveva, dubitò fortemente di non esser perdente; e tra se stessa si ramaricava assai. E perchè l’amoroso furore la tormentava molto, deliberò di far tal cosa ch’egli avesse causa di grattarsi, ed ella trovarsi colli suoi amanti. Onde fatta una [p. 26 modifica]delicata cena con preciosi vini e potenti, aspettò il figliuolo che a casa tornasse. Venuto il figliuolo e veduto l’insolito apparato, maravigliossi molto; e voltatosi verso la madre, disse: Madre, e dove procede la causa di così nobil cena? Arreste mai voi mutato pensiero? A cui rispose la madre: Certo no, figliuol mio; anzi son io più costante che prima. Ma considerando che tutto ’l giorno fino alla buia notte te ne stai a bottega a lavorare, e vedendo questa maledizzion di rogna averti sì attenuato che appena la ti lascia vivo, molto m’attristava. Onde mossa a compassione di te, volsi prepararti alcuna delicata vivanda, acciò che tu potesti sovenire alla natura, e più gagliardamente resistere al tormento della rogna che tu sopporti. Panfilio, che era giovanetto e semplice, non s’avedeva dell’astuzia materna, e che ’l serpe era tra bei fiori nascoso; ma postosi a mensa appresso il fuoco con la madre, cominciò saporitamente mangiare e allegramente bere. Ma l’astuta e maledetta madre ora moveva le legna e soffiava nel fuoco acciò che maggiormente ardesse: ora gli apporgeva il dilicato sapore di specie condito, acciò che dal cibo e dal calor del fuoco acceso, maggiormente si grattasse la rogna. Stando adunque Panfilio appresso il fuoco e avendo a saturità empiuto il ventre, vennegli una sì fatta rabbia di pizza, che si sentiva morire; ma pur volgendosi e rivolgendosi or qua or là, quanto più mai poteva, sofferiva il tormento. Il cibo salato e con spezie condito, il vino greco e il calor del fuoco gli avevano già sì fieramente accese le carni, che ’l miserello non puote più durare; ma squarciatisi e panni dinanzi il petto, e slacciatesi le calze, e levatesi le maniche della camiscia sopra le braccia, si puose sì fortemente a grattarsi, che d’ogni parte a [p. 27 modifica]guisa di sudore il sangue pioveva: e voltatosi verso la madre, che tra se stessa rideva, ad alta voce disse: Ogni un torni al suo mistero! ogni un torni al suo mistero! La madre, vedendo già aver vinta la lite, finse di dolersi; e disse al figliuolo: Panfilio, che sciocchezza è la tua? Che pensi tu di fare? È questa la promessa che fatta mi hai? Tu non potrai più dolerti di me, ch’io non ti abbia servata la fede. Panfilio, tuttavia forte grattandosi, con animo alquanto turbato rispose: Madre, ogni un torni al suo mistero; voi farete e fatti vostri, ed io farò e miei. E d’allora in qua il figliuolo non ebbe più ardire di riprender la madre, ed ella ritornò alla usata sua mercatanzia, aumentando le facende sue. Tutti gli ascoltanti rimasero molto sodisfatti della favola da Cateruzza recitata; e dopo che ebbero tra loro di essa alquanto riso, la Signora le comandò che ’l suo enimma proponesse; ed ella, per non turbare l’ordine consueto, in tal guisa sorridendo disse:

Qual cosa è tra noi donne e damigelle,
     Larga non più, nè men di cinque dita;
Dentro ritien diverse e vaghe celle.
     Con buona entrata, ma priva d’uscita.
Al primo entrar vi fa guardar le stelle.
     Per non trovarsi libera ispedita;
Ma poi vien lunga stretta, larga e tonda,
     Quanto più e meno la grossezza abonda.

L’oscuro enimma da Cataruzza recitato diede ampia materia alla brigata d’interpretarlo. Ma poscia che tutti minutamente pensarono e ripensarono, non fu veruno che la vera interpretazione sapesse. Onde la [p. 28 modifica]prudente Cataruzza, vedendo la compagnia star attonita e non intenderlo, prontamente disse: Per non tener questi signori a bada, dirò il mio parere, sottoponendomi però al giudicio di chiunche è più savia di me. Altro, donne mie care, il mio enimma non dimostra, eccetto che ’l guanto che conserva la mano. Il quale nella prima entrata vi fa alquanto male, e poi si condanna ad ogni vostro piacere. Non dispiacque all’onesta compagnia la dechiarazione del bel enimma; il quale essendo già ridotto al debito fine, la Signora impose a Lauretta, che sedeva a lato di Vicenza, che l’ordine seguitasse. Ed ella, baldanzosamente volto il suo caro viso verso il Bembo, disse: Signor Antonio, sarebbe gran vergogna se voi, tutto piacevole, tutto amoroso, non raccontaste alcuna favola con quella buona grazia che voi solete. Io per me la racconterei volontieri; ma niuna mi soviene che piacevole e ridicolosa sia. Pregovi adunque che in vece di me fate l’ufficio, e di questo sarovvi sempre tenuta. Il Bembo, che in quella sera non pensava favoleggiare, rispose: Signora Lauretta, quantunque a tal impresa sofficiente non mi trova, pur, perchè ogni vostra preghiera reputo comandamento, accetterò tal carico, e sforzerommi, se non in tutto, almeno in qualche parte, di sodisfare al desiderio vostro; e presa buona licenzia dalla Signora, così a dire incominciò.