Le mie prigioni/Cap XLVIII

Capo XLVIII

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Capo XLVIII.

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Era mio unico pensiero il morire cristianamente e col debito coraggio. Ebbi la tentazione di sottrarmi al patibolo col suicidio, ma questa sgombrò. — Qual merito evvi a non lasciarsi ammazzare da un carnefice, ma rendersi invece carnefice di sé? Per salvar l’onore? E non è fanciullaggine il credere che siavi più onore nel fare una burla al carnefice, che nel non fargliela, quando pur sia forza morire? — Anche se non fossi stato cristiano, il suicidio, riflettendovi, mi sarebbe sembrato un piacere sciocco, una inutilità.

— Se il termine della mia vita è venuto, m’andava io dicendo, non sono io fortunato, che sia in guisa da lasciarmi tempo, per raccogliermi e purificare la coscienza con desiderii e pentimenti degni d’un uomo? Volgarmente giudicando, l’andare al patibolo è la peggiore delle morti: giudicando da savio, non è dessa migliore delle tante morti che avvengono per malattia, con [p. 162 modifica]grande indebolimento d’intelletto, che non lascia più luogo a rialzar l’anima da pensieri bassi?

La giustezza di tal ragionamento mi penetrò sì forte nello spirito, che l’orror della morte, e di quella specie di morte, si dileguava interamente da me. Meditai molto sui sacramenti che doveano invigorirmi al solenne passo, e mi parea d’essere in grado di riceverli con tali disposizioni da provarne l’efficacia. Quell’altezza d’animo ch’io credea d’avere, quella pace, quell’indulgente affezione verso coloro che m’odiavano, quella gioia di poter sacrificare la mia vita alla volontà di Dio, le avrei io serbate s’io fossi stato condotto al supplizio? Ahi! che l’uomo è pieno di contraddizioni, e quando sembra essere più gagliardo e più santo, può cadere fra un istante in debolezza ed in colpa! Se allora io sarei morto degnamente, Dio solo il sa. Non mi stimo abbastanza, da affermarlo.

Intanto la verisimile vicinanza della morte, fermava su questa idea siffattamente la mia immaginazione, che il morire pareami non solo possibile, ma significato da infallibile presentimento. Niuna speranza d’evitare questo destino penetrava più nel mio cuore, e ad ogni suono [p. 163 modifica]di pedate e di chiavi, ad ogni aprirsi della mia porta, io mi dicea: — Coraggio! forse vengono a prendermi per udire la sentenza. Ascoltiamola con dignitosa tranquillità, e benediciamo il Signore. —

Meditai ciò ch'io dovea scrivere per l'ultima volta alla mia famiglia, e partitamente al padre, alla madre, a ciascun de' fratelli, e a ciascuna delle sorelle; e volgendo in mente quelle espressioni d'affetti sì profondi e sì sacri, io m'inteneriva con molta dolcezza, e piangeva, e quel pianto non infiacchiva la mia rassegnata volontà.

Come non sarebbe ritornata l'insonnia? Ma quanto era diversa dalla prima! Non udiva nè gemiti nè risa nella stanza; non vaneggiava nè di spiriti, nè d'uomini nascosti. La notte m'era più deliziosa del giorno, perch'io mi concentrava di più nella preghiera. Verso le quattr'ore, io solea mettermi a letto, e dormiva placidamente circa due ore. Svegliatomi, stava in letto tardi per riposare. M'alzava verso le undici.

Una notte, io m'era coricato alquanto prima del solito, ed avea dormito appena un quarto d'ora, quando ridesto, m'apparve un'immensa luce nella parete in faccia a me. Temetti d'esser [p. 164 modifica]ricaduto ne’ passati delirii; ma ciò ch’io vedeva non era un’illusione. Quella luce veniva dal finestruolo a tramontana, sotto il quale io giaceva.

Balzo a terra, prendo il tavolino, lo metto sul letto, vi sovrappongo una sedia, ascendo; — e veggo uno de’ più belli e terribili spettacoli di foco, ch’io potessi immaginarmi.

Era un grande incendio, a un tiro di schioppo dalle nostre carceri. Prese alla casa ov’erano i forni pubblici, e la consumò.

La notte era oscurissima, e tanto più spiccavano que’ vasti globi di fiamme e di fumo, agitati com’erano da furioso vento. Volavano scintille da tutte le parti, e sembrava che il cielo le piovesse. La vicina laguna rifletteva l’incendio. Una moltitudine di gondole andava e veniva. Io m’immaginava lo spavento ed il pericolo di quelli che abitavano nella casa incendiata e nelle vicine, e li compiangeva. Udiva lontane voci d’uomini e donne che si chiamavano: — Tognina! Momolo! Beppo! Zanze! — Anche il nome di Zanze mi sonò all’orecchio! Ve ne sono migliaia a Venezia; eppure io temeva che potesse essere quell’una, la cui memoria m’era sì soave! Fosse mai là quella sciagurata? e [p. 165 modifica]circondata forse dalle fiamme? Oh potessi scagliarmi a liberarla!

Palpitando, raccapricciando, ammirando, stetti sino all’aurora a quella finestra; poi discesi oppresso da tristezza mortale, figurandomi molto più danno che non era avvenuto. Tremerello mi disse non essere arsi se non i forni e gli annessi magazzini, con grande quantità di sacchi di farina.