Capo XLIV

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Capo XLIV.

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Il mese d’ottobre era la ricorrenza del più brutto de’ miei anniversarii. Io era stato arrestato il 13 di esso mese, dell’anno antecedente. Parecchie tristi memorie mi ricorrevano inoltre in quel mese. Due anni prima, in ottobre, s’era per funesto accidente annegato nel Ticino un valentuomo ch’io molto onorava. Tre anni prima, in ottobre, s’era involontariamente ucciso con uno schioppo Odoardo Briche, giovinetto ch’io amava quasi fosse stato mio figlio. A’ tempi della mia prima gioventù, in ottobre, un’altra grave afflizione m’avea colpito.

Bench’io non sia superstizioso, il rincontrarsi fatalmente in quel mese ricordanze così infelici, mi rendea tristissimo.

Favellando dalla finestra con que’ fanciulli e co’ miei concaptivi, io mi fingea lieto, ma appena rientrato nel mio antro un peso inenarrabile di dolore mi piombava sull’anima.

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Prendea la penna per comporre qualche verso o per attendere ad altra cosa letteraria, ed una forza irresistibile parea costringermi a scrivere tutt’altro. Che? lunghe lettere ch’io non poteva mandare; lunghe lettere alla mia cara famiglia, nelle quali io versava tutto il mio cuore. Io le scriveva sul tavolino, e poi le raschiava. Erano calde espressioni di tenerezza, e rimembranze della felicità ch’io aveva goduto presso genitori, fratelli e sorelle così indulgenti, così amanti. Il desiderio ch’io sentiva di loro m’ispirava un’infinità di cose appassionate. Dopo avere scritto ore ed ore, mi restavano sempre altri sentimenti a svolgere.

Questo era, sotto una nuova forma, un ripetermi la mia biografia, ed illudermi ridipingendo il passato; un forzarmi a tener gli occhi sul tempo felice che non era più. Ma, oh Dio! quante volte, dopo aver rappresentato con animatissimo quadro un tratto della mia più bella vita, dopo avere inebbriata la fantasia fino a parermi ch’io fossi colle persone a cui parlava, mi ricordava repentinamente del presente, e mi cadea la penna ed inorridiva! Momenti veramente spaventosi eran quelli! Aveali già [p. 149 modifica]provati altre volte, ma non mai con convulsioni pari a quelle che or m’assalivano.

Io attribuiva tali convulsioni e tali orribili angosce al troppo eccitamento degli affetti, a cagione della forma epistolare ch’io dava a quegli scritti, e del dirigerli a persone sì care.

Volli far altro, e non potea; volli abbandonare almeno la forma epistolare, e non potea. Presa la penna, e messomi a scrivere, ciò che ne risultava era sempre una lettera piena di tenerezza e di dolore.

— Non son io più libero del mio volere? andava dicendo. Questa necessità di fare ciò che non vorrei fare, è dessa uno stravolgimento del mio cervello? Ciò per l’addietro non m’accadeva. Sarebbe stata cosa spiegabile ne’ primi tempi della mia detenzione; ma ora che sono maturato alla vita carceraria, ora che la fantasia dovrebbe essersi calmata su tutto, ora che mi son cotanto nutrito di riflessioni filosofiche e religiose, come divento io schiavo delle cieche brame del cuore, e pargoleggio così? Applichiamoci ad altro. —

Cercava allora di pregare, o d’opprimermi collo studio della lingua tedesca. Vano sforzo! Io m’accorgeva di tornar a scrivere un’altra lettera.