Le amanti/Sogno di una notte d'estate/I

I

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Sogno di una notte d'estate Sogno di una notte d'estate - II
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I.

— Povera Luisa — mormorò soltanto lui, carezzandole la manina inguantata che si appoggiava fidente al suo braccio.

— Non mi compatite — ella rispose, crollando il capo, sorridendo a una idea — io sono più felice di voi,

— Forse — disse lui, con voce breve.

Adesso, dopo avere oltrepassato il ponte di Posillipo, quel largo poggiuolo che da una parte si affaccia alla collina folta di vigneti, e dall’altra sopra, una valle che discende al mare, mollemente, lasciato il lastricato del ponte che suonava sotto i loro passi, nella notte, erano entrati in un sentiero oscuro, fra una siepe alta di more spinose, e una muraglia alta, tappezzata di edera, che serra le due ville ultime sul mare di Posillipo, la villa Postiglione e la villa Sans souci. Era sparita la luna dietro la muraglia, e sullo stretto [p. 341 modifica] sentiero che discendeva, essi non vedevano che un’altissima striscia di cielo, tutta chiara, dove le pie stelle avevano un tremolìo bianco e languido. Dagli orti, di nuovo, un confuso olezzo di fiori e di erbe odoranti arrivava, dove più acuto signoreggiava il profumo del gelsomino: ed essi andavano in quell’ombra, in quel fresco notturno, ignari della loro strada, sul molle terreno umido di brina che si faceva elastico sotto i loro passi. A un tratto, levando gli occhi, un’immensa linea di paesaggio si schiuse loro innanzi, tutta candida sotto la luce lunare. Erano al Capo, in quel posto che la fantasia popolare ha chiamato il Paradisiello: e il gran golfo di Napoli era come una immensa conca chiarissima, cinta da lumi vividi, scintillante fin nelle borgate, scintillante fino laggiù, laggiù all’estrema punta di Massalubrense, dove l’abbraccio si chiude; e da qui tutto il gran mare che bagna i Campi Flegrei e Pozzuoli e Cuma, in una curva nobilissima e poetica, in un silenzio di cose e di uomini, quasi che niuno più, dopo i greci e i romani, [p. 342 modifica] fosse venuto ad albergare in quel bellissimo e felice paese. Lo scoglio del Capo si avanzava fra i due golfi, bagnato di luce da una parte, oscuro dall’altra, ma tutto il mare, dovunque, qui sotto lambente la pianura vasta dei Bagnoli, laggiù, sotto l’isola di Nisida, e lontano lontano, era un chiarore immenso, immobile e quieto.

— Dio, quanto è bello! — ella disse, con la voce velata dalla emozione.

Là innanzi, creata dalla natura, è una piattaforma quasi rotonda, una terrazza messavi dal Signore, a cui gli uomini hanno aggiunto un muretto rotondo per appoggiarvisi, per sedervisi; di là tutto si vede. Di giorno su quella terrazza vi sono tre o quattro mendicanti, vecchie e piccine, che chiedono fastidiosamente l’elemosina agli stranieri estatici; ma di notte non un’anima, non un passo. Sulla terrazza, lungo il muretto e dietro ad esso, pei greppi, cresce l’erba selvatica odorosa e qualche piccolo fiore agreste. Essi si fermarono colà silenziosi, appoggiati al muretto, senza lasciarsi, penetrati [p. 343 modifica] dalla poesia ineffabile di quell’ora, in quel paesaggio: poesia intima e profonda che misticamente li avvolgeva.

— È tutta dolcezza — disse la fanciulla, la cui voce si era velata, affievolita.

— Infinita dolcezza — rispose lui come un’eco.

— Chi abita in quell’isola, lassù? — chiese ella, levando la mano, indicando Nisida.

— Una gente trista.... — e pareva non volesse continuare.

— Che gente? — insistè lei, piegando il suo bel viso chiaro verso di lui.

— I galeotti: lì v’è il bagno penale.

— Una gente infelice — ella corresse, umilmente. — Ma le belle notti estive, le belle notti lunari, si levano anche per essa.

— Cara Luisa.... — ripetè lui, vagamente.

Ella lo guardava pronunziare il suo nome, non solo assaporandone la musicalità, ma sentendone acutamente tutto il tono, tutta la intenzione. Ogni volta [p. 344 modifica] che questo nome usciva dalle sue labbra, ella aveva un piccolo tremito interno: quando già il nome era stato portato via dalle onde dell’aria, ancora in lei, nel suo cuore si allargavano più grandi, più grandi i cerchi di quel tremore.

— Guardate quelle casette, laggiù? — continuò ella, per sfuggire alla sua crescente commozione, accennando alle casette dei Bagnoli. — Son tutte chiuse, non un lume. Tutti riposano felici, senz’aver bisogno di ammirare la notte e la luna.....

— Gli abitanti di quelle casette videro un giorno un orribile spettacolo — rispose lui, macchinalmente — è qui che hanno fucilato Misdea.

— Qui?

— Laggiù, in quella pianura.

— In una notte come questa?

— No, in un’alba freddissima.

— Perchè lo hanno ucciso?

— Perchè aveva ucciso.

— Voi mi dite sempre delle cose tristi — ella osservò malinconicamente, con un lagno infantile. [p. 345 modifica]

— Ho torto — confessò lui — anche questa bell’ora dev’essere guastata. Scusate, cara. Vi assicurò che sono molto infelice.

— E perchè? — ella chiese, curvandosi a interrogare il suo volto.

Ma gli aveva sfiorato con la guancia la spalla.

— Ho scherzato — rispose Massimo, con la voce un po’ alterata. — Volete sedervi?

E le lasciò il braccio, si sedette sul parapetto e accese una sigaretta. Ella, in piedi, un po’ triste di essere stata abbandonata, con le braccia pendenti lungo la persona, lo guardava.

— Volete fumare?

— No — ella disse.

— Peccato! una sigaretta è deliziosa, qui, a quest’ora.

— Se vi piace, la fumerò.

Egli le offerse il portasigarette russo, di argento, aperto: ella ne prese una, di sigarette, con le dita sottili: ma mentre gli chiedeva del fuoco, Massimo, preso da un subitaneo moto di collera, le strappò la sigaretta e la buttò giù, pei greppi. [p. 346 modifica]

— Non fumate, è una brutta cosa, somigliereste a tante donne che fumano.... tante donne....

— Come volete — disse ella, rassegnatamente.

Ma avendolo visto restar torvo, seccato, cogli occhi bassi, battendo col tacco contro il muretto, ella voltò le spalle e si allontanò un poco, girovagando, discendendo verso i Bagnoli, risalendo, affacciandosi alla vallata. Egli la seguiva con lo sguardo, ombra bianca attraverso il chiaror bianco della luna, camminare senza rumore, con appena un fruscio del vestito fra le erbe; e quando ella ritornò a lui, portava dei ramoscelli fioriti di menta selvatica. Picciolissimi fiorellini lilla sopra minutissime foglioline verdi; ella ne odorò un ramoscello e glielo porse.

Il viso di Massimo parve si rischiarasse: egli prese il ramoscello, l’odorò lungamente e poi, invece di metterlo all’occhiello, lo nascose nell’apertura del soprabito, dentro, dentro, in modo che non si vedesse più, deposto e serrato sul petto. Allora ella fece un passo e con un salto [p. 347 modifica] leggiero gli si sedette accanto sul parapetto. Tacevano. Adesso voltavano un po’ le spalle al paesaggio marino e avevano innanzi solo la via donde erano venuti e le campagne basse di Fuorigrotta. Ma guardavano, forse, senza vedere. Erano seduti proprio accanto, le spalle e le braccia si sfioravano, ad ogni lieve movimento. Sempre fumando la sua sigaretta, egli le sollevò la mano guantata e ne arrovesciò lentamente il morbido guanto di camoscio. Pallida e sottile apparve la manina della fanciulla, col braccio rotondo e bianco.

— Avete una bella mano, Luisa — disse.

Le sue labbra, delicatamente si posarono sulle dita piegate della bella mano: un bacio che era un soffio. E restò a giocherellare con le dita, senza poter lasciare quella mano. Ella non poteva parlare.

— Perchè non portate tutti quei cerchiolini di oro, di argento, di platino, quei braccialettini che tintinnano, salgono e scendono, continuamente, quando la donna si muove? Sono carini, è vero? [p. 348 modifica]

Ella lo fissò, trasognata, come se non avesse udito che l’armonia della sua voce, senza intendere il senso delle parole.

— Sono carini.... — egli ripetè — ve li donerò io, se li volete da me; mi piacciono tanto.

Ancora scherzava con la mano, quasi attirando a sè la persona e l’anima della fanciulla: e la bella persona e la povera e cara anima, non sapeano che piegarsi a lui. La testolina si appoggiò con la guancia alla spalla di lui, socchiudendo gli occhi; e pian piano, delicatamente, quasi a sorreggerla, Massimo le passò un braccio dietro alla cintura, abbracciandola, reggendola.

— State bene così? — le domandò, con voce roca.

Ella accennò di sì, con le palpebre, non potendo parlare.

— Non vi addormentate alla luna, almeno, Luisa. La luna fa impazzire chi si addormenta al suo chiarore.

Ella ebbe un sorriso così profondo, così enigmatico che lo scosse. Poi, tacquero. Passò del tempo, così. Confusamente, [p. 349 modifica] ogni tanto, nella mite e intima delizia di quella solitudine, di quella vicinanza, ella sentiva tremare, talvolta, nella sua, la mano di Massimo; e talvolta, sentiva il respiro di lui affannarsi. Allora levava le palpebre a guardarlo: lo trovava intento a fissare il suo volto, intensamente, con tale un ardore concentrato di visione e di attenzione, che non aveva ella mai scorto. Il tempo passava, sulle loro teste vicine, sulle mani dalle dita intrecciate, immobilizzati in quell’atteggiamento. E ad essa sembrava d’immergersi in un sogno lungo, senza fine, che ricominciava sempre dal principio, dove passavano sulle sue mani dei baci leggieri come un soffio, dove carezzava i suoi capelli una mano molle e lenta, dove un acuto profumo di fiori che si appassivano, le saliva al cervello, dove una voce ripeteva il suo nome, sempre, con la profondità dell’amore: un sogno tutto chiaro di luce lunare, in un divino paesaggio, un sogno ammorbidito dalla rugiada, dai fremiti della campagna, dal palpitare del mare sotto la luna. Invero, Massimo, reggendo la bella persona, [p. 350 modifica] tenendone la manina nella sua, sentendo tutta la seduzione di Luisa e delle cose, dell’ora e del tempo, restava immobile, con gli occhi socchiusi, cercando di riunire tutti i suoi pensieri, per essere forte, per vincere il fascino immortale che ha la beltà della donna e la beltà delle cose, la innocenza della gioventù e la solenne purità della notte, nella campagna, innanzi al mare. Non lui sognava, che era uomo, che aveva vissuto, che sapeva; ma quasi vedeva, dietro le tenui palpebre abbassate di Luisa, negli occhi pronti di dolcezza che si schiudevano levandosi a lui, vedeva il sogno d’amore, il sogno di quella notte d’estate distender la sua sottile e salda rete d’argento sull’anima della fanciulla. E ogni tanto, come il fascino di tanto muliebre candore, di tanta fede, di tanta giovinezza fragrante si faceva più alto, pareva anche a lui di smarrir la testa, partito per sempre, per la siderale, per la selenica regione del sogno. Cercò di riaversi, di riaccapezzarsi, parlando:

— Dormite? — volle dire, scherzando, a Luisa. [p. 351 modifica]

Ma egli stesso non riconobbe la propria voce. Chi aveva pronunziato quella parola? Ella scosse il capo, con un sorriso così dolce, che egli non vi potette reggere:

— Vogliamo andar via? — le susurrò all’orecchio. La luna fa impazzire, Luisa, Luisa....

— Ancora un poco — ebbe la forza di dir lei, nella innocenza della sua passione.

Ancora un poco. Egli abbassava il capo, soffocando le parole che gli sgorgavano dalle labbra, interdicendosi persino di carezzare più le fredde dita della fanciulla, non volendo udire il profumo di gelsomino, che veniva da lei, di quell’unico gelsomino che ella aveva raccolto sul balcone e messo in petto, non volendo cedere alla voce di tenerezza infinita che emanava da lei e da tutte le umane cose, intorno. Sì, Massimo vedeva bene che ella sognava, oramai, il suo grande sogno, l’unico e ultimo sogno, sotto la gelida e allettatrice luce della luna, simile a Elena, la bionda: sentiva che vincendo la ragione dell’età, del pericolo, [p. 352 modifica] dell’esperienza, che vincendo finanche il profondo segreto del suo cuore, egli stesso, per la ignota forza di sentimento che rinasce dalle sue ceneri anche nei cuori inceneriti dalla passione, egli stesso sarebbe stato trascinato dolcemente in quel sogno, perduto anche lui, come una volta, come sempre. E facendo, in quell’atto, una delle più dolorose rinunzie della sua vita, il braccio che sosteneva Luisa si rallentò, un poco: pian piano le lasciò la mano. Ella trasalì, comprese: si levò, col volto così pallido che pareva vi si fosse infiltrato il raggio lunare, a raffreddarne per sempre il sangue e le fibre, si levò con le palpebre battenti, gli occhi smorti, come coperti da una nebbia torbida.

— Andiamo — ella disse, voltandosi ancora a salutare il mare, la campagna e il cielo.

Camminarono presto, vicino, senza darsi braccio; Massimo pareva oramai colto dal freddo, con un desiderio di rientrare in casa. La via era assai lunga, mentre, al venire, non se ne erano neppure accorti: a ogni nuovo gomito che faceva la via, [p. 353 modifica] egli si piegava, con una certa ansietà, per vedere se erano vicini; ella lo guardava di sottecchi, camminando presto anche lei, non osando dirgli nulla. Alla fine gli espresse il suo pensiero.

— Speriamo di trovare una carrozza.

— Speriamo — ripetè ella.

Ma per un pezzo non ne trovarono; la notte era altissima, tutte le ville erano chiuse e silenziose, la strada di Posillipo era deserta, la luna, salita già allo zenit sul cielo, vi batteva a picco, dandole oramai un aspetto un po’ spettrale. Egli osservò che la fanciulla si stringeva nella mantellina, trasalendo.

— Avete freddo, è vero?

— Un poco.

— Siamo stati troppo tempo.... laggiù....

Luisa non rispose: camminava a occhi bassi, senza voltarsi nè a destra, nè a sinistra.

— Forse avete paura, cara?

— Un poco.

— E di che?

— Di tutto.... la via è così deserta.... gli alberi sembrano fantasmi.... [p. 354 modifica]

— Abbiate paura degli uomini e non dei fantasmi, cara.

— È vero — ella soggiunse, umilmente.

Forse egli stesso, in quell’ora così tarda, in quella deserta campagna, dove sboccavano tante grotte di tufo dalle immani bocche nere aperte, aveva come un leggiero brivido di confuso sgomento. Erano presi dal malessere di chi ha vegliato una notte intera, in preda a una sovraeccitazione spirituale e fisica, e che ne esce stanco e infelice, malcontente di sè e del tempo che è trascorso. Ma durò questo sino a che furono arrivati alla dogana di Posillipo; ivi una carrozza da nolo, di quelle sgangherate con un vecchio ronzino sciancato, una carrozza di notte, infine, stazionava. Dormivano il cocchiere e il cavallo; non si risvegliarono che a metà, quando Massimo e Luisa vi salirono.

— Portaci a Monte di Dio — disse Massimo al cocchiere.

Costui, sempre sonnecchiando, domandò se doveva alzare il soffietto.

— Sì: fa freddo — rispose secco secco Massimo. [p. 355 modifica]

Il viaggio in carrozza si compì pure lentamente, poichè il cavallo si riaddormentava, ogni tanto: e quando era sveglio, andava con un trotterello affannoso di sciancato, facendo dei passetti corti corti. Nella carrozza Massimo e Luisa non scambiavano una parola: ma ella sentiva che l’ora precipitava e ogni tanto i suoi occhi si rivolgevano a quelli di Massimo, interrogando. Essa voleva sapere da lui una cosa, voleva sentirgli dare risposta alla domanda che le ferveva nell’anima, da quando erano andati soli, per le vie di Napoli, per mare, sotto la luna. E tacitamente, nell’ombra, con gli occhi, lo pregava di dirgliela, la parola; e lui intendeva la interrogazione continua, supplichevole, di quei cari occhi amorosi che volevano essere amati, niente altro, e si voltava in là, come distratto, cercando di sfuggire a quella muta domanda. Una amarezza, un’inquietudine lo teneva agitato, non potendo neppure più fumare le sue eterne sigarette: ed ella sentiva che il suo sogno non era completo, se Massimo non parlava. Passava l’ora, fuggiva l’ora, [p. 356 modifica] essi ritornavano con la carrozza per la via fatta, e lui non voleva, non voleva dire....

— Che avete? — finì per domandare lei.

— Sono stanco.

— Vi siete annoiato? — chiese timidamente Luisa.

— Sapete bene di no: non domandate, dunque — disse recisamente.

Ella si scosse al tono un po’ duro: e con quanta tenerezza di amore poteva esservi in lei, dopo qualche minuto di silenzio, non seppe fare altro che chiamarlo:

— Massimo.

Che fu l’effetto di quella voce, di quella parola? Che gli mise innanzi, che gli ricordò? È certo che egli quasi quasi si levò, parendo volendo buttarsi dalla carrozza, fuggendo alle prese di uno spettro: poi ricadde e con una voce fievole le disse:

— Luisa, non mi chiamate più così, non pronunziate il mio nome, ve ne prego, se mi volete bene....

Ella tremò, non intese che l’ultima frase, [p. 357 modifica] sorrise, con le lagrime della gioia agli occhi. Erano giunti. Salirono presto, l’uno dietro all'altro: si fermarono sul pianerottolo, prima di dividersi. Appoggiata al muro, come esausta, ella lo interrogava ancora con gli occhi, perchè le rispondesse. Ma egli, turbatissimo, la salutò: ognuno entrò nella propria casa, lentamente, le porte si richiusero con un rumor sordo. Faceva un po’ di freddo. Albeggiava. La notte di estate era finita.