La vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino, scritta, per lui medesimo, in Firenze/Libro secondo/Capitolo LXXV

Libro secondo
Capitolo LXXV

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Fattomi da per me stesso sicurtà di buono animo, e scacciato tutti quei pensieri che di ora innora mi si rappresentavano innanzi (i quali mi facevano spesso amaramente piangere con el pentirmi della partita mia di Francia, per essere venuto afFirenze, patria mia dolce, solo per fare una lemosina alle ditte sei mia nipotine, e per cosí fatto bene vedevo che mi mostrava prencipio di tanto male), con tutto questo io certamente mi promettevo che, finendo la mia cominciata opera del Perseo, che tutti i mia travagli si doverriano convertire in sommo piacere e glorioso bene. E cosí ripreso ’l vigore, con tutte le mie forze, e del corpo e della borsa, con tutto che pochi dinari e’ mi fussi restati, cominciai a procacciarmi di parecchi cataste di legni di pino, le quali ebbi dalla pineta de’ Seristori, vicino a Monte Lupo; e in mentre che io l’aspettavo, io vestivo il mio Perseo di quelle terre che io avevo acconce parecchi mesi in prima, acciò che l’avessino la loro stagione. E fatto che io ebbi la sua tonaca di terra, che tonaca si dimanda innell’arte, e benissimo armatola e ricinta con gran diligenzia di ferramenti, cominciai con lente fuoco a trarne la cera, la quali usciva per molti sfiatatoi che io avevo fatti, che quanti piú se ne fa, tanto meglio si empie le forme. E finito che io ebbi di cavar la cera, io feci una manica intorno al mio Perseo, cioè alla detta forma, di mattoni, tessendo l’uno sopra l’altro, e lasciavo di molti spazi, dove ’l fuoco potessi meglio esalare: dipoi vi cominciai a mettere delle legne cosí pianamente, e gli feci fuoco dua giorni e dua notte continuamente; tanto che, cavatone tutta la cera, e dappoi s’era benissimo cotta la detta forma, subito cominciai a votar la fossa per sotterrarvi la mia forma, con tutti quei bei modi che la bella arte ci comanda. Quand’io ebbi finito di votar la detta fossa, allora io presi la mia forma, e con virtú d’argani e di buoni canapi diligentemente la dirizzai; e sospesala un braccio sopra ’l piano della mia fornace, avendola benissimo dirizzata di sorte che la si spenzolava appunto nel mezzo della sua fossa, pian piano la feci discendere in sino nel fondo della fornace, e si posò con tutte quelle diligenzie che immaginar si possano al mondo. E fatto che io ebbi questa bella fatica, cominciai a incalzarla con la medesima terra che io ne avevo cavata; e di mano in mano che io vi alzavo la terra, vi mettevo i sua sfiatatoi, i quali erano cannoncini di terra cotta che si adoperano per gli acquai e altre simil cose. Come che io vidi d’averla benissimo ferma e che quel modo di incalzarla con el metter quei doccioni bene ai sua luoghi, e che quei mia lavoranti avevano bene inteso il modo mio, il quale si era molto diverso da tutti gli altri maestri di tal professione; assicuratomi che io mi potevo fidare di loro, io mi volsi alla mia fornace, la quale avevo fatta empiere di molti masselli di rame e altri pezzi di bronzi; e accomodatigli l’uno sopra l’altro in quel modo che l’arte ci mostra, cioè sollevati, faccendo la via alle fiamme del fuoco, perché piú presto il detto metallo piglia il suo calore e con quello si fonde e riducesi in bagno, cosí animosamente dissi che dessino fuoco alla detta fornace. E mettendo di quelle legne di pino, le quali per quella untuosità della ragia che fa ’l pino, e per essere tanto ben fatta la mia fornacetta, ella lavorava tanto bene, che io fui necessitato assoccorrere ora da una parte e ora da un’altra con tanta fatica, che la m’era insopportabile; e pure io mi sforzavo. E di piú mi sopragiunse ch’ e’ s’appiccò fuoco nella bottega, e avevamo paura che ’l tetto non ci cadessi addosso; dall’altra parte di verso l’orto il cielo mi spigneva tant’acqua e vento, che e’ mi freddava la fornace. Cosí combattendo con questi perversi accidenti parecchi ore, sforzandomi la fatica tanto di piú che la mia forte valitudine di complessione non potette resistere, di sorte che e’ mi saltò una febbre efimera addosso, la maggiore che immaginar si possa al mondo, per la qual cosa io fui sforzato andarmi a gittare nel letto. E cosí molto mal contento, bisognandomi per forza andare, mi volsi a tutti quegli che mi aiutavano, i quali erano in circa a dieci o piú, infra maestri di fonder bronzo e manovali e contadini e mia lavoranti particulari di bottega; infra e’ quali si era un Bernardino Mannellini di Mugello, che io m’avevo allevato parecchi anni; e al detto dissi, dappoi che mi ero raccomandato a tutti: - Vedi, Bernardino mio caro, osserva l’ordine che io ti ho mostro, e fa presto quanto tu puoi, perché il metallo sarà presto in ordino: tu non puoi errare, e questi altri uomini dabbene faranno presto i canali, e sicuramente potrete con questi dua mandriani dare nelle due spine, e io son certo che la mia forma si empierà benissimo. Io mi sento ’l maggior male che io mi sentissi mai da poi che io venni al mondo, e credo certo che in poche ore questo gran male m’arà morto -. Cosí molto mal contento mi parti’ da loro, e me n’andai alletto.