Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Sala terrena di conversazione in casa di don Gasparo.

Don Riminaldo che taglia al faraone, don Ciccio, don Mauro, che puntano; donna Florida e don Eustachio ad un altro tavolino, che giocano a picchetto. Donna Lavinia sedendo da un’altra parte, leggendo un libro.

Florida. Facciamo che questa partita sia l’ultima; già non vi è gran differenza.

Eustachio. Finiamola presto dunque, che voglio veder di rifarmi alla bassetta. Colà giocano ancora.

Florida. Sì, sì, andate anche voi al tavolino di que’ viziosi. Giocherebbono la loro parte di sole. Bella vita che fanno! giorno e notte colle carte in mano. Vengono in villa per [p. 20 modifica] divertirsi, e stanno lì a struggersi ad un tavolino. Questi giochi d’invito non ci dovrebbono essere in villeggiatura. Sturbano affatto la conversazione. (sempre giocando)

Eustachio. So che donna Lavinia ci patisce, che in casa sua si giochi d’invito.

Florida. Anch’ella ieri sera ha perduto vari zecchini, ed ora eccola lì con un libro in mano. Ma se ci fosse il suo cavaliere, non farebbe così.

Eustachio. Mi maraviglio di don Mauro, che fa il terzo in quella bella partita.

Florida. Non mi parlate di don Mauro, che mi si desta la bile. Tutto il giorno a giocare, e a me non bada come se non ci fossi.

Eustachio. Veramente un cavaliere polito, com’egli è, non dovrebbe far cosa che dispiacesse alla dama.

Florida. Sa che io ci patisco, quand’egli gioca, e vuol giocare per farmi dispetto.

Eustachio. Sapete che cosa m’ha egli detto ieri sera?

Florida. Che cosa v’ha detto?

Eustachio. Ve lo dirò, ma promettetemi di non dirgli niente.

Florida. Non dubitate: non glielo dirò certamente.

Eustachio. Mi ha detto che voi lo tormentate un po’ troppo; che tutto quello che fa, secondo voi è mal fatto; che se parla lo riprendete, se tace lo rimproverate: onde, per ischivare d’essere tormentato, gioca in tempo che non giocherebbe.

Florida. Gioca, e non giocherebbe! don Mauro garbato! per non essere tormentato!1 (forte verso don Mauro)

Eustachio. Ma signora, voi mi avete dato parola di non parlare.

Florida. Io non gli dico, che voi me l’abbiate detto. Gioca per forza; per non essere tormentato. (forte come sopra)

Eustachio. Capirà bene che possa venir da me...

Florida. Non ci pensi, che avrà finito di essere tormentato. (forte come sopra)

Eustachio. Ho inteso. Abusate della mia confidenza. [p. 21 modifica]

Florida. No, don Eustachio. Dico così per ridere. Avete fatto lo scarto?

Eustachio. L’ho fatto. Gran cosa, che una donna non possa tacere.

Florida. Io non dico più di così. Cinquantaquattro del punto.

Eustachio. Non vale.

Florida. Quinta bassa.

Eustachio. Non è buona.

Florida. Tre re.

Eustachio. Non vagliono.

Florida. Come non vegliano?

Eustachio. Non vedete che vi mancano tre assi?

Florida. Dalla rabbia non so che cosa mi faccia. Bravo signor don Mauro. Si diverta, per non essere tormentato. Spade uno. Spade due. Spade tre...

Eustachio. Voi non fate più cinque, signora.

Florida. Non m’importa. Vada al diavolo chi n’è causa. Don Mauro me la pagherà. (forte al solito, e getta le carte in tavola)

Eustachio. (Sia maledetto2 quando ho parlato). (da sè)

Mauro. (Sì stacca dal tavolino, e s’accosta a donna Florida) Mi avete chiamato, signora?

Florida. Oh signor no; la non s’incomodi. Vada a giocare.

Mauro. Ho finito di giocare.

Eustachio. Avete vinto? (a don Mauro, mescolando le carte)

Mauro. Ho perduto.

Florida. La testa.

Mauro. Obbligatissimo.

Eustachio. Alzate, signora. (a donna Florida)

Florida. Finiamola questa partita. (alzando)

Eustachio. Chi vince alla bassetta? (a don Mauro)

Mauro. Don Riminaldo.

Eustachio. Al solito. E don Ciccio?

Mauro. Perde. [p. 22 modifica]

Eustachio. Perdo anch’io sei partite.

Mauro. Donna Florida è buona giocatrice.

Florida. Brava seccatrice, vorrete dire.

Mauro. Don Eustachio è troppo civile per pensar così delle dame.

Florida. È bene altrettanto incivile don Mauro.

Mauro. A me, signora?

Florida. A lei per l’appunto.

Mauro. Non mi pare di meritarlo.

Eustachio. Scartate, se vi piace. (a donna Florida)

Florida. Oh, per iscartare son fatta a posta. Principio da don Mauro.

Mauro. Scarta me donna Florida? Che carta sono io?

Florida. Una cartaccia che non conta niente.

Mauro. Finezze solite di una mia padona.

Florida. Non dubitate che vi tormenti più, che non vi è pericolo. Non andate a perdere i danari alla bassetta, per istar lontano da me, che già io non ho bisogno di voi.

Mauro. Che linguaggio è questo, signora?

Florida. Non vi è bisogno che andiate dicendo: gioco per liberarmi dal tormento di donna Florida. Se vi cerco più, possa essere scorticata.

Mauro. (Don Eustachio mi fatto la finezza di dirglielo. A me poco importa; ma la sua non è buona azione). (da sè)

Eustachio. (Sono stato pur sciocco io a fidarmi). (da sè)

Mauro. Lo sapete, se ho per voi del rispetto... (a donna Florida)

Florida. Oh, lasciatemi un po’ giocare.

Mauro. Desidero giustificarmi...

Florida. Quando voi giocate, io non vi vengo a seccare; fate lo stesso con me.

Mauro. Benissimo. Sarete servita. (Don Eustachio è un amico da non fidarsene). (da sè, scostandosi, e va vicino a donna Lavinia)

Eustachio. Brava, donna Florida!

Florida. Mi avete dato due volte la mano. Rimescoliamo le carte, che tocca a me..

Eustachio. Chi non si confonderebbe, trovandosi in un impegno per cagion vostra? [p. 23 modifica]

Florida. Io non ho parlato di voi.

Eustachio. Ma egli ha capito benissimo...

Florida. Se non tacete, vi pianto.

Eustachio. (Cattivo impicciarsi con certe tali). (da sè)

Mauro. Che legge di bello donna Lavinia? (accostandosi a lei)

Lavinia. Leggo un libro che mi dà piacere: La Primavera. Poema in Versi martelliani.

Mauro. Di chi è?

Lavinia. Di Dorino3. Di un poeta che stimo per la sua virtù e per la sua modestia.

Mauro. Dove trovasi questo libro?

Lavinia. È stampato in Venezia; ma se gradiste di leggerlo, vi posso servire di questo.

Mauro. Vi sono critiche? Dice mal di nessuno?

Lavinia. Non signore. Quando fosse di tal carattere, non lo leggerei.

Mauro. Dite bene. Ma il libro, se non critica, non averà molto spaccio.

Lavinia. Dovrebbe averlo appunto per questo, perchè alla buona filosofia ha congiunta la più discreta morale.

Mauro. Permettetemi che ne legga uno squarcio.

Lavinia. Servitevi.

Florida. Ha trovato di divertirsi il signor don Mauro.

Eustachio. Quindici, e sei vent’uno, e tre assi ventiquattro...

Florida. Via, via: picchetto d’ottanta, e niente. Quattro partite. Restano due. Faremo pace un’altra volta. (s’alza)

Eustachio. Eccovi due partite. (mettendo la mano in tasca)

Florida. No, no, un’altra volta. (5’accosta verso don Mauro)

Eustachio. Favorite... (seguendo donna Florida)

Florida. Che bel libro, signor don Mauro?

Mauro. Un libro, che mi ha favorito donna Lavinia.

Florida. Donna Lavinia è una dama virtuosa, che divertirà il signor Mauro molto meglio di me. [p. 24 modifica]

Mauro. Ma voi, signora...

Florida. Io non sono buona che per tormentarvi: però vi consiglio a non venirmi d’intorno. Che s’io vi secco, voi mi avete inaridito da capo a piedi. (parte)

Lavinia. (Si sdegna per poco quella signora). (da sè)

Eustachio. (Meglio è ch’io vada, per isfuggire un rimprovero dall’amico). (da sè, e parte)

SCENA II.

Donna Lavinia, don Mauro, Don Riminaldo, don Ciccio che giocano.

Mauro. (Don Eustachio sa la sua coscienza). (da sè)

Lavinia. Donna Florida mi scandalizza, don Mauro.

Mauro. Io credo ch’ella abbia avuto in animo di scherzare.

Lavinia. Mi spiacciono in casa mia queste scene.

Mauro. Per conto mio, non credo di aver dato motivo.

Lavinia. No, don Mauro, voi siete un cavalier savio e gentile; ma in verità, al giorno d’oggi compatisco quei che s’astengono dall’usare a noi altre donne delle attenzioni. Siamo troppo difficili, per dir il vero.

Mauro. Non tutte, signora mia, sono tagliate a un modo. In quanto a me, pongo fra il numero delle felicità l’onore di onestamente servire una discreta dama.

Lavinia. Ne avete voi trovate delle discrete?

Mauro. Se tutte somigliassero a voi, la servitù sarebbe un piacere.

Lavinia. Non è da vostro pari l’adulazione.

Mauro. Perchè vorreste voi che mi compiacessi adularvi? Per introdurmi con questo mezzo all’onor di servirvi? Siete impepegnata con don Paoluccio, e non farei un torto ad un amico per tutto l’oro del mondo.

Lavinia. Nè io son capace di usare ingratitudine con chi non la merita. Don Paoluccio mi ha onorato tre anni della sua amicizia. Ha pensato di voler far il giro d’Europa; me ne ha richiesto consiglio, ed io l’ho animato a porre ad effetto un [p. 25 modifica] sì ottimo pensamento. In due anni ch’ei manca, non potrà dire nessuno avermi veduta due giorni in compagnia di uno più che d’un altro. In città, in villa, tratto tutti con indifferenza, e se don Paoluccio vorrà continuarmi le sue finezze...

Mauro. Non è egli ritornato alla patria?

Lavinia. Sì certamente. Mi ha avvisata del suo ritorno in città tre giorni sono; e a momenti l’aspetto qui, a terminare con noi la villeggiatura.

Mauro. Può ben egli dirsi felice, servendo una dama che, fra gli altri pregi, ha quello della costanza.

Lavinia. Io la credo necessarissima in una donna ch’è nata nobile.

Mauro. Beato il mondo, se tutti pensassero come voi.

Lavinia. Don Mauro, non vorrei che donna Florida avesse occasione di pensare diversamente di me.

Mauro. Volete dire ch’io m’allontani, non è egli vero?

Lavinia. Non fate ch’ella abbia a dolersi di voi.

Mauro. Ma se più ch’io faccio, meno sono aggradito!

Lavinia. Regolatevi con prudenza.

Mauro. Dubito che non ci potrò durar lungamente.

Lavinia. Vi prego durarla almeno fino che siete qui. Non amerei che in casa mia nascesse uno scioglimento, che dai bei spiriti si mettesse poi a mio carico.

Mauro. Soffrirò in grazia vostra assai più di quello ch’io sia disposto a soffrire.

Lavinia. Vi sarò obbligata, don Mauro.

Mauro. Andrò a divertirmi col vostro libro, se mi permettete.

Lavinia. E perchè no colla dama?

Mauro. Perchè prevedo ch’ella sarà meco sdegnata.

Lavinia. E non vi dà l’animo di placarla? Colle donne convien essere un poco più tollerante.

Mauro. Lo sarei con chi sentisse ragione. Lo sarei, se avessi l’onor di servire... Basta, vado per obbedirvi, e vi assicuro che donna Florida averà più obbligo a voi, che a me, delle mie attenzioni. (parte) [p. 26 modifica]

SCENA III.

Donna Lavinia; don Riminaldo e don Ciccio che giocano.

Lavinia. In fatti par impossibile che il temperamento di don Mauro possa adattarsi a quello di donna Florida. Ella è inquieta sempre, è sempre malcontenta, e pretende troppo. Ogni anno ella viene da noi, e la vedo sempre con visi nuovi. Non ha mai durato con lei una stagione intera un servente. Io non la posso lodare, ed è una di quelle amicizie che non m’importerebbe di perdere. Quest’anno non l’ho nemmeno invitata a venir con noi; ma ci viene da sè. È in possesso di venir qui; e le pare che sia casa sua questa. Ha un marito che non ci pensa, che la lascia andar dove vuole. Ma! il mio pure fa lo stesso con me. Viene in campagna meco, ma è come se non ci fosse. Il suo divertimento è la caccia. Le sue conversazioni le fa con i villani e colle villane: cosa che mi dispiace infinitamente, perchè mio marito, benchè avanzato un poco in età, lo amo e lo stimo, e non mi curerei di altro, s’egli si compiacesse di stare un poco con me. Signori miei, avete da giocar tutto il giorno? Non volete prendere un poco d’aria? Oggi abbiamo una bella giornata. Prima che venga l’ora di desinare, andiamo a fare due passi. (Spiacemi questo gioco. Don Ciccio non ne ha da perdere, e don Riminaldo guadagna sempre). (da sè)

Riminaldo. Sono a servire donna Lavinia.

Ciccio. Mantenetemi gioco.

Riminaldo. Un’altra volta. Oggi, questa sera.

Ciccio. Un punto ancora. Questo po’ di resto.

Lavinia. Via, caro don Ciccio. Siate buono, e contentatevi così.

Ciccio. Sì, che mi contenti! dopo che ho persi i danari.

Lavinia. Avete perduto molto?

Ciccio. Mi par di sì; non mi son restati che dieci soldi.

Lavinia. Bravo, don Riminaldo, glieli avete guadagnati tutti al povero don Ciccio. [p. 27 modifica]

Riminaldo. In tre ore che si gioca, quanto credete voi ch’io gli abbia guadagnato?

Lavinia. Non saprei.

Ciccio. Non mi ha mai dato un punto.

Lavinia. Capperi vuol dir molto. Gli averete guadagnato qualche zecchino.

Riminaldo. In tutto e per tutto dodici lire.

Ciccio. Mi ha cavato dodici libre di sangue.

Lavinia. E un giocator della vostra sorte sta lì tre ore per un sì vile guadagno? (a don Riminaldo)

Ciccio. E non mette i dodeci zecchmi che ha guadagnato a don Mauro.

Lavinia. Compatite, signore, ve l’ho detto altre volte. Siete padrone di tutto, ma in casa mia non ho piacere che si facciano di questi giochi. Veniamo in campagna per divertirci, e non v’è cosa che guasti più la conversazione, oltre il giocar d’impegno. Anch’io ho perduto vari zecchini... Basta, non dico altro.

Riminaldo. Io non invito nessuno. Mi vengono ad istigare; ma vi prometto che dal canto mio sarete servita. Al faraone non gioco più.

Ciccio. Oh, questa è bella. Non mi potrò ricattare io?

Lavinia. La perdita non è poi sì grande...

Ciccio. L’ho sempre detto: in questa casa non ci si può venire.

Lavinia. Nessuno vi ci ha invitato, signore.

Ciccio. Si perde i suoi danari, e non si può giocare.

Lavinia. Fatelo in casa vostra, e non in casa degli altri.

Ciccio. Volete venir da me a giocare? (a don Riminaldo)

Riminaldo. Verrò a servine, se me lo permette donna Lavinia.

Lavinia. Per me, accomodatevi pure. Bastami che non si giochi da noi.

Ciccio. Prendiamo le carte. (prende le carte dal tavolino)

Lavinia. V’ho da mantenere a carte anche in casa vostra?

Ciccio. Gran cosa! un mazzo di carte usate! Siete ben avara. Quando avremo giocato, ve lo riporterò. [p. 28 modifica]

Lavinia. No, no. Servitevi pure. Non v’incomodate di ritornare.

Ciccio. Siete in collera? Faremo pace: con voi non voglio collera. So che avete un piatto di funghi preziosi. Ne voglio anch’io la mia parte.

Lavinia. No, signor don Ciccio: non vi prendete tanta libertà in casa mia.

Ciccio. Ho inteso. Bisogna lasciarvi stare per ora. Andiamo a giocare. (a don Riminaldo)

Riminaldo. Ma avvertite, che sulla parola non gioco.

Ciccio. Giocheremo danari.

Riminaldo. Mi diceste poco fa non aver altro che dieci soldi.

Ciccio. Guadagnatemi questi, e poi qualche cosa sarà.

Riminaldo. Un’altra volta, signor don Ciccio. Non voglio disgustare donna Lavinia. Ella ha piacere che non si giochi, ed io, per obbedirla, non gioco. (parte)

Lavinia. Caro signor don Ciccio, risparmiateli quei dieci soldi. Siamo fra voi e me, che nessuno ci sente. Voi non ne avete da gettar via.

Ciccio. Se non ne ho da buttar via, non verrò da voi per un pane.

Lavinia. Lo so che non avete bisogno nè di me, ne di alcuno. Lo avete detto per ischerzo di voler venire a desinare da noi. Non sarebbe decoro vostro venir in un luogo, dove vi fanno le male grazie.

Ciccio. Eh, so che si scherza; so che mi vedono volentieri. Ci verrò per i funghi che mi piacciono, perchè la mia cuoca non li sa cucinare. E poi, che serve? Con don Gasparo siamo amici. Amico del marito, servitor della moglie; vengo qui di buon cuore, come se venissi da miei parenti. Ma che dico da miei parenti? Ho tanto amore per questa casa, che ci vengo come se venissi a casa mia propria. (parte)

SCENA IV.

Donna Lavinia, poi Zerbino.

Lavinia. Veramente è una gran finezza che ci vuol fare. Don Ciccio è un di quei poveri superbi, che credono di onorare la casa, quando vengono a mangiare il nostro. Gran cosa! che [p. 29 modifica] in una villeggiatura non s’abbiano ad aver solamente quelle persone che piacciono; ma che si debbano soffrire ancora quei che dispiacciano. Se don Gasparo volesse fare a mio modo... ma egli non si cura di niente. Non bada a chi va e chi viene. Tanti giorni non sa nemmeno chi mangi alla nostra tavola. Egli non pensa ad altro che alla sua caccia, e a divertirsi con i suoi villani. Bel marito che mi ha toccato in sorte! Ehi, chi è di là?

Zerbino. Signora.

Lavinia. È ritornato ancora il padrone?

Zerbino. Non signora, non si è ancora veduto.

Lavinia. A che ora è partito questa mattina?

Zerbino. Appena, appena si vedeva lume. Quei maledetti cani da caccia mi hanno destato, ch’io era sul primo sonno.

Lavinia. Che indiscretezza! partir dal letto senza dirmi nemmeno addio.

Zerbino. Non le ha detto niente, prima di levarsi dal letto?

Lavinia. Non l’ho sentito nemmeno.

Zerbino. È molto che non l’abbia sentito, perchè, quando s’alzò il padrone, poco tempo poteva essere passato da che ella erasi coricata.

Lavinia. Così credo ancor io; ma il sonno mi prese subito.

Zerbino. Tutti due dunque si sono portati benissimo. Ella coricandosi ha lasciato dormire il marito, ed egli alzandosi non ha disturbato la moglie.

Lavinia. Gran dire! che con don Gasparo non si vada d’accordo mai.

Zerbino. Anzi mi pare che vadano d’accordo bene. Se ciascheduno fa a modo suo, non ci sarà che dire fra loro.

Lavinia. Sarà andato alla caccia dunque.

Zerbino. Sì signora. Ha preso seco i suoi cani, il suo schioppo, un uomo con del pane, del salame e del vino, e camminava come se fosse andato a nozze.

Lavinia. Eh, quando andò a nozze, non camminava sì presto!

Zerbino. Sento i cani che abbaiano. Il padrone sarà tornato. [p. 30 modifica]

Lavinia. Sarà capace di non venir nemmeno a vedermi.

Zerbino. Vorrà prima riposare un poco.

Lavinia. Va a vedere s’egli è tornato. Digli che favorisca di venir qui.

Zerbino. Lo vuole subito?

Lavinia. Subito.

Zerbino. Puzzerà di selvatico.

Lavinia. Spicciati; non mi stordire.

Zerbino.(Poverina! la compatisco. Vorrebbe ora l’addio che non le ha dato questa mattina4). (da sè, e parte)

SCENA V.

Donna Lavinia, poi don Gasparo da cacciatore, collo schioppo in spalla.

Lavinia. Non so s’egli lo sappia, che oggi si aspetta don Paoluccio. Vorrei che gli si preparasse un accoglimento onorevole. È un cavalier che lo merita, ed ha per me una bontà assai grande. Oh, se mio marito avesse tanta stima di me, quanta ne ha don Paoluccio, sarei contentissima!

Gasparo. Eccomi qui ai comandi della signora consorte. Per venir presto, non mi ho nemmeno levato dalle spalle lo schioppo.

Lavinia. Eh, voi quel peso lo soffrite assai volentieri.

Gasparo. Sì certo. Tanto a me piace lo schioppo, quanto a voi un mazzo di carte.

Lavinia. Io gioco per mero divertimento.

Gasparo. Ed io vado a caccia per mera soddisfazione.

Lavinia. Non so come facciate a resistere. Ogni giorno faticare, camminare, sudare! Non siete più giovinetto.

Gasparo. Io sto benissimo. Non ho mai un dolore di capo.

Lavinia. Fareste molto meglio a starvene a letto la mattina, come fanno gli altri mariti colle loro mogli.

Gasparo. Allora non istarei bene, come sto. [p. 31 modifica]

Lavinia. Già, chi sente voi, la moglie è la peggiore cosa di questo mondo.

Gasparo. La moglie è buona e cattiva secondo i tempi, secondo le congiunture.

Lavinia. I tempi e le congiunture fra voi e me sono sempre simili.

Gasparo. Perchè non c’incontriamo nell’opinione.

Lavinia. Il male da chi deriva?

Gasparo. Non saprei. Io vado a letto alle quattro. Ci sto fino alle dodici. Ott’ore non vi bastano?

Lavinia. E chi è, che da questi giorni voglia andare a letto alle quattro?

Gasparo. E chi è colui, che ci voglia stare sino alle sedici?

Lavinia. Non c’incontreremo mai dunque.

Gasparo. Mai, se seguiteremo così.

Lavinia. La sera non posso abbandonare la conversazione.

Gasparo. La mattina non lascierei la caccia per la più bella donna5 di questo mondo.

Lavinia. Per la moglie non si può lasciare la caccia?

Gasparo. Per il marito non si può lasciare la conversazione?

Lavinia. Bene. Lasciate voi la caccia, ch’io vedrò di sottrarmi dalla conversazione.

Gasparo. Verrete voi a dormire, quando ci anderò io? Verrete voi a letto alle quattro?

Lavinia. Sì, ci verrò. E voi starete a letto sino alle sedici?

Gasparo. Diavolo! dodici ore si ha da stare nel letto?

Lavinia. Dunque vi anderemo più tardi.

Gasparo. Dunque ci leveremo più presto.

Lavinia. Già, quando si tratta di stare meco, vi pare di essere nel fuoco.

Gasparo. Dodici ore di letto? Altro che andare a caccia!

Lavinia. Ma io non posso la mattina levarmi presto.

Gasparo. Ed io non posso la sera stare levato tardi.

Lavinia. Pare siam fatti apposta per essere d’un umore contrario. [p. 32 modifica]

Gasparo. Divertitevi dunque, e lasciatemi andare a caccia.

Lavinia. E dopo la caccia, in conversazione con i villani e colle villane.

Gasparo. Io con i villani, e voi con i cavalieri. Se non v’impedisco di fare a modo vostro, perchè volete impedirmi di fare al mio?

Lavinia. Bene, bene. Lo sapete che oggi si aspetta don Paoluccio?

Gasparo. Ben venga don Paoluccio, don Agapito, e don Martorio, e tutta Napoli, se ci vuol venire.

Lavinia. Voi forse non lo vedrete nemmeno.

Gasparo. Lo vedrò a desinare; non basta?

Lavinia. Un cavaliere amico di casa, che torna dopo tre anni, merita che gli si faccia un accoglimento grazioso.

Gasparo. Ehi! viene per trovar me, o viene per ritrovar voi?

Lavinia. Non è amico di tutti due?

Gasparo. Sì; ma circa all’accoglimento pensateci voi, cara donna Lavinia.

Lavinia. Qual camera, qual letto gli vogliamo noi dare?

Gasparo. Basta che non gli date il mio.

Lavinia. Spropositi! il vostro ed il mio non è il letto medesimo?

Gasparo. Per questo diceva...

Lavinia. Voi avete voglia di barzellettare.6

Gasparo. Sono allegro questa mattina. Ho preso sei beccaccie, quattro pernici, ed un francolino.

Lavinia. Ho piacere che vi sia del selvatico. Se viene don Paoluccio...

Gasparo. Oh, del mio selvatico don Paoluccio non ne mangia.

Lavinia. E che ne volete fare dunque?

Gasparo. Mangiarmelo con chi mi pare.

Lavinia. Colle villane?

Gasparo. Colle villane.

Lavinia. Si può sentire un gusto più vile? [p. 33 modifica]

Gasparo. Consolatevi, che voi avete un gusto più delicato.

Lavinia. Se non foss’io che sostenessi l’onore della casa...

Gasparo. Veramente vi sono obbligato. Se non ci foste voi, non averei la casa piena di cavalieri.

Lavinia. E che cosa vorreste dire?

Gasparo. Zitto; non andate in collera.

Lavinia. Se stesse a me, quanti meno verrebbono a mangiar il nostro. Don Ciccio per il primo non ci verrebbe.

Gasparo. Guardate che diversità d’opinione! Ed io quello me lo godo infinitamente.

Lavinia. Fra voi e me non si va d’accordo perfettamente.

Gasparo. Ehi, ps, ps. (chiama verso la scena)

Lavinia. Chi chiamate?

Gasparo. Chiamo quelle ragazze.

Lavinia. Che cosa volete da loro?

Gasparo. Quello che vogl’io, non lo avete da saper voi.

Lavinia. Andate lì; che bisogno c’è che le facciate venire in sala?

Gasparo. Non ci possono venire in sala? Avete paura che dai piedi delle contadine sia contaminata la sala della vostra nobile conversazione?

Lavinia. Quando ci sono io, non ci devono venire le contadine.

Gasparo. Il ripiego è facile, cara consorte.

Lavinia. Come sarebbe a dire?

Gasparo. Non ci devono essere, quando ci siete voi; io voglio che ci sieno, dunque andatevene voi.

Lavinia. Ho da soffrir anche questo?

Gasparo. Soffro tanto io.

Lavinia. Non occorr’altro; sarà questo l’ultimo anno che mi vedete in campagna.

Gasparo. Oh, il ciel volesse che mi lasciaste venir da me solo!

Lavinia. Indiscretissimo.

Gasparo. Tutto quel che volete.

Lavinia. Nemico della civiltà.

Gasparo. Sfogatevi pure.

Lavinia. Senza amore per la consorte. [p. 34 modifica]

Gasparo. C’è altro da dire?

Lavinia. Ci sarebbe pur troppo. Ma la prudenza mi fa tacere. Parto per non vi dire7 di peggio; perchè l’onore non vuole ch’io faccia ridere la brigata di me, di voi, e del vostro modo di di vivere e di pensare. Divertitevi colle villane; meritereste ch’io vi amassi come mi amate, e che insegnassi ad un marito indiscreto come si trattano le mogli nobili, le mogli oneste, (parte)

SCENA VI.

Don Gasparo, poi la Menichina e la Libera.

Gasparo. Servitor umilissimo. (dietro a donna Lavinia) Ehi, venite, ragazze, che non c’è nessuno.

Libera. È andata via la signora?

Gasparo. Sì, è partita. Venite pure liberamente. Non abbiate paura.

Libera. Paura di che? Non ho paura di nessuno io.

Menichina. E io? Non ho paura di mia madre; figuratevi se avrò paura di lei.

Gasparo. Lo sapete; quando ella c’è, non vorrebbe che ci veniste voi.

Libera. E io ci voglio venire. Son nata qui; son figlia di un lavoratore di qui; son moglie dell’ortolano; ci sono sempre stata, e ci voglio venire.

Menichina. Quando ci veniva la padrona vecchia, ero sempre qua io, e mi voleva bene. Che cosa è di più questa signora sposa, che non mi vuole?

Gasparo. Lasciamo andare, lasciamo andare. Finalmente sono padrone io. Quando vi chiamo io, veniteci; quando c’è la signora, sfuggitela.

Menichina. Lo so io, per che cosa è in collera meco.

Gasparo. Perchè? che cosa le avete fatto?

Menichina. Un giorno sono andata nella sua camera, ch’ella non c’era. Ho trovato sul tavolino un vasetto con certa [p. 35 modifica] polvere rossa; vi era la sua cagnolina; ed io, sapete che ho fatto? l’ho tinta tutta di rosso. È venuta la signora, la mi voleva dare uno schiaffo. Ho gridato: la cagnolina si è spaventata; è fuggita via; e tutta la villa ha detto che la cagnolina era dipinta come la sua padrona.

Gasparo. Avrei riso anch’io, se ci fossi stato.

Libera. E con me se sapeste per che cosa è sdegnata!

Gasparo. E perchè è sdegnata con voi?

Libera. Perchè vede che tutti quelli che vengono qui, mi vedono volentieri. Per bontà loro mi fanno delle finezze. Vengono a ritrovarmi a casa. Mi vogliono a ballar con loro.

Menichina. E io dirò come dice il signor don Eustachio, sono l’idolo di questa terra.

Libera. Il signor don Riminaldo m’ha detto cento volte, che se non ci fossi io qui, non ci verrebbe nemmeno lui.

Gasparo. Ehi, donne mie, a che gioco giochiamo? Non vorrei così bel bello venir qui io a farvi il mezzano. Mi è stato detto che si divertono con voi questi signori che mi favoriscono.

Libera. Signor don Gasparo, che dic’ella? Io sono una donna che, non fo per dire, ma nessuno può dire...

Menichina. Io sono stata allevata da mia madre, che certo era una donna che per allevare...

Libera. E ponno fare con me, e ponno dire, che non c’è da dire...

Menichina. Io sono una fanciulla, che non c’è da pensare...

Libera. Se venissero coll’oro in mano...

Menichina. Né meno se mi dessero non so cosa...

Libera. E ho da fare con un marito...

Menichina. Ho una madre, che per diana...

Libera. Qui ci si viene così, così...

Menichina. Si viene, perchè si viene...

Gasparo. Avete finito?

Libera. Se mio marito se lo potesse pensare...

Menichina. Se io sapessi che si dicesse...

Gasparo. Non ancora?

Libera. Posso andare così io, colla faccia mia, sì signore. [p. 36 modifica]

Menichina. e chi dicesse ch’io... per questo... non lo potrebbe dire...

Libera. E sono conosciuta da tutta questa villeggiatura...

Menichina. E la Menichina può stare in conversazione...

Libera. E domandatelo...

Menichina. E sì signore.

Gasparo. Ma finitela una volta. Tenete; voglio regalarvi un poco della mia caccia.

Libera. Chi mi vuole, mi prenda; e chi non mi vuole, mi lasci.

Menichina. Non c’è pericolo ch’io dica...

Gasparo. Tenete. (dà qualche salvatico alla Libera)

Libera. Non sono una donna... che si lasci... così per poco...

Gasparo. Tenete voi. (fa lo stesso colla Menichina)

Menichina. Se qualcheduno vuol dire, che cosa può dire? (prendendo il salvatico con disprezzo)

Gasparo. Questo è bello. Tenete. (alla Libera, poi alla Menichina)

Libera. Sono stomacata di queste cose. (come sopra)

Menichina. Certe bocche non si ponno soffrire.

Gasparo. Ma voi mi avete stordito.

Libera. Chi è, che di me possa dire?

Gasparo. Nessuno.

Menichina. Chi può vantarsi che io...

Gasparo. Nessuno.

Libera. Chi l’ha detto?

Gasparo. Nessuno.

Menichina. Chi ha parlato?

Gasparo. Nessuno.

Libera. L’averà detto la signora.

Menichina. L’illustrissima l’averà detto.

Gasparo. Oh povero me!

Libera. E se l’ha detto lei...

Menichina. E se è venuto da quella parte...

Libera. Anch’io potrò dire.

Menichina. Anch’io mi potrò sfogare.

Gasparo. Non posso più. [p. 37 modifica]

Libera. Che ne so di belle di lei.

Menichina. E di lei, e di lui, e di loro.

Gasparo. Vado via.

Libera. E di loro, per cagione di lei.

Menichina. E di lei, per cagione di loro.

Gasparo. E di lei non ci penso, e di voi sono stanco. Vado via: mi avete fatto tanto di testa. (parte)

Libera. Vado a dirlo al signor don Eustachio.

Menichina. Vado a raccontarlo al signor don Riminaldo.

Libera. E gli voglio donare queste beccaccie. (parte)

Menichina. Ed io gli voglio donare questa pernice. (parte)

SCENA VII.

Donna Lavinia e donna Florida; poi Servitore.

Florida. Che voglia è venuto a don Mauro di giocare al trucco a quest’ora? Per causa sua tutti ci hanno lasciate sole.

Lavinia. È meglio che giochino al trucco, piuttosto che al faraone.

Florida. Fa cose don Mauro, che non si possono tollerare.

Lavinia. In che mai può mancare un cavaliere così compito, che ha tutti i numeri della civiltà e del buon garbo?

Florida. Cara amica, non sapete niente. Lo difendete, perchè non lo praticate. L’uomo non ho veduto più disattento di lui. È capace di uscire dalla sua camera due ore dopo di me. Conoscerà ch’io non ho voglia di discorrere, e mi darà una seccatura terribile con istorielle che non importano niente affatto. Se siamo in camera soli, avrà l’abilità di prendere un libro, porsi a leggere, e lasciarmi dormire; e poi, quel ch’è peggio, se gli dico una parola, se gli do un rimprovero, si ammutolisce, non dice niente, mi lascia taroccar da me sola, che è una cosa che mi fa la maggior rabbia di questo mondo.

Lavinia. In verità, donna Florida, siete assai delicata: queste non mi paiono cose da farvelo dispiacere.

Florida. Ne sono stufa, stufìssima, che non ne posso più.

Lavinia. Ho paura che vi piaccia mutar spesso i serventi. [p. 38 modifica]

Florida. Se non se ne trova uno, che sappia servire.

Lavinia. Non so che dire. Don Mauro mi pareva il caso vostro.

Florida. No, no; non è il mio caso per niente.

Lavinia. Ma perchè dunque lo continuate a tener soggetto?

Florida. Perchè non voglio star senza. Se qui ci fosse un altro che mi desse nel genio, vorrei farvi vedere a piantarlo caldo, caldo, di bel domani.

Lavinia. Povero cavaliere, gli vorreste fare un bel tratto.

Florida. Eh, non piangerebbe no per questo; e poi, se piangesse, ci sarebbe chi gli asciugherebbe la lagrime.

Lavinia. Chi mai, donna Florida?

Florida. Chi mai? Cara donna Lavinia, non entriamo in questo discorso.

Lavinia. Capisco benissimo che cosa volete dire, e l’ho capito poc’anzi ancora, quand’egli venne vicino a me per osservare quel che leggeva: ma v’ingannate assaissimo, non mi conoscete davvero. Stimo don Mauro, ma non vi è pericolo che ve l’usurpi. Prima di tutto, sono impegnata con don Paoluccio...

Florida. Stimo assai, che l’abbiate aspettato due anni.

Lavinia. E anche sei l’avrei aspettato. Non ho motivo di trattar male con chi meco ha trattato bene. Non lo lascierò per un altro; e senza questo ancora, assicuratevi, donna Florida, che non ho l’abilità d’insidiare nessuno, che rispetto le amiche, e male azioni non sono capace di farne.

Florida. Certamente, quantunque sia annoiata di don Mauro, mi spiacerebbe ch’ei fosse il primo a lasciarmi.

Lavinia. Per conto mio statene pur sicura.

Servitore. Signore, è arrivato in questo punto il signor don Paoluccio.

Lavinia. Perchè non viene innanzi?

Servitore. Parla con il padrone.

Lavinia. Digli che l’aspetto, per dargli il benvenuto. (servitore parte)

Florida. Donna Lavinia, mi rallegro con voi.

Lavinia. Per dir vero, son contenta del di lui arrivo.

Florida. Eccolo ch’egli viene correndo. [p. 39 modifica]

SCENA VIII.

Don Paoluccio e dette; poi Servitore.

Lavinia. Ben ritornato, don Paoluccio.

Paoluccio. Ben ritrovata, donna Lavinia. Servitore di donna Florida.

Lavinia. Avete fatto buon viaggio?

Paoluccio. Buonissimo. La fortuna ha preso impegno di favorirmi. I miei viaggi, le mie dimore, tutto è stato piacevole, e per compimento di due anni di vero bene, ho l’onore di riverirvi.

Florida. Molto compito don Paoluccio.

Paoluccio. Mi rallegro, donna Florida, vedervi in compagnia di donna Lavinia. La vostra amicizia è sempre la stessa, costante, singolare, esemplare. (verso donna Lavinia)

Lavinia. La costanza della mia amicizia vi dovrebbe esser nota. (a don Paoluccio)

Paoluccio. È vero, ho prese anch’io le prime lezioni sotto una sì gentile maestra; ma! non saprei: l’aria del gran mondo guasta il cuore degli uomini. Lo credereste? Dacchè manco dal mio paese, la mia costanza non ha avuto periodo lungo più di quindici giorni.

Florida. Veramente è una cosa comoda quel variare.

Lavinia. Dunque don Paoluccio non ha per me la bontà solita, non ha la solita stima.

Paoluccio. Sì certamente. Ho tutto il rispetto per donna Lavinia. Voi meritate di essere adorata. Ho sempre riputati felici i primi giorni della mia libertà che a voi ho sacrificata; e l’unico rammarico mio fu sinora, non sapere chi sia stato il mio successore nel possedimento della grazia vostra.

Lavinia. Voi mi offendete, dubitando che possa avere mancato con voi al dovere dell’amicizia.

Paoluccio. Questo è un dovere, che non impegna a vivere solitari. Voi mi farete arrossire, se mi parlerete di cotali eroismi. So che lo dite per farmi insuperbire, ma non lo credo. Donna Florida, con realtà, in confidenza, chi è il cavalier servente di donna Lavinia? [p. 40 modifica]

Florida. Ch’io sappia, non ne ha nessuno.

Paoluccio. È oculata a tal segno? Non vuole che le sue inclinazioni traspirino? (verso donna Lavinia)

Lavinia. Arguisco dal vostro modo di dire, che giudicate in altri impossibile quella costanza di cui non siete capace.

Paoluccio. Facciamo a parlar chiaro, donna Lavinia. Torno al mio posto, se la piazza è disoccupata; ci ritorno a costo di riceverla dalle mani dell’ultimo posseditore: ma non mi obbligate a comparirvi dinanzi coll’impostura di una fedeltà romanzesca. Sarei stato costante, se avessi creduto necessario di esserlo; ve lo saprei dare ad intendere, se vi credessi pregiudicata a tal segno: ma io tengo per fermo, che la semplice servitù abbia più limitato il confine.

Florida. Dice benissimo. In distanza non obbliga la servitù. Non fa poco, chi si mantiene in vicinanza costante, e mi piace infinitamente quella limitazione di una quindicina di giorni.

Lavinia. Sarebbe meglio per voi, don Paoluccio, che non aveste viaggiato.

Paoluccio. Anzi, compatitemi, io credo d’avermi procurato un gran bene. Oh, se sapeste di quanti pregiudizi liberato mi sono! In proposito dell’amore, ho scoperto de’ grandi errori.

Lavinia. Avrete inteso a dir da per tutto, che l’onore impegna la parola del cavaliere.

Paoluccio. Eh, che non s’interessa l’onore in queste picciole cose.

Florida. Questa è una franchezza ammirabile. Dove l’avete appresa, don Paoluccio?

Paoluccio. Dove l’ho appresa, l’esercitano con troppo fuoco: l’ho temperata sotto un clima più docile. Ho fatto un misto di cose, che qualche volta mi hanno fatto del bene. Spero non mi renderanno indegno della grazia di donna Lavinia.

Lavinia. Per quindici giorni non prendo impegno.

Florida. È meglio quindici giorni di servitù polita, che un anno di servitù male aggraziata.

Paoluccio. Signora, voi avete sopra di me l’antico potere. La mia soggezione sarà illimitata. [p. 41 modifica]

Lavinia. Se questo mio da voi chiamato potere, non ha avuto forza di conservarsi in distanza, non posso lusingarmi di riacquistarlo sì presto. Questa sincerità che mi ha confessato la vostra incostanza, potrebbe ora essere tradita dalla soggezione. Però pensateci, che vi è tempo. Compatitemi, ci rivedremo. (in atto di partire)

Paoluccio. Voi andate a consigliarvi col mio rivale. Ci scommetto che il favorito è qui, senza che nessuno lo sappia.

Lavinia. Mi maraviglio che pensiate sì bassamente di me.

Florida. Eppure, eppure si potrebbe dare che faceste l’astrologo. (a don Paoluccio)

Lavinia. Donna Florida, voi mi offendete.

Paoluccio. Ecco qui i pregiudizi nostri; noi prendiamo sovente le galanterie per offese.

Servitore. Quando comandano, si dà in tavola. (parte)

Lavinia. Andiamo, se vi contentate.

Paoluccio. Permettetemi ch’io vi serva. (a donna Lavinia)

Lavinia. La sala della tavola non è lontana: vi rendo grazie. (parte)

Paoluccio. Ma voi altre italiane siete pur puntigliose. (a donna Florida)

Florida. Oh, io non lo sono certo.

Paoluccio. Sempre più mi confermo, che donna Lavinia abbia la sua passione.

Florida. Anch’io ho de’ sospetti.

Paoluccio. Due anni senza passione? Una donna costante in lontananza due anni? Non me lo dia ad intendere, che non lo credo. (parte)

Florida. Dice bene, non è da credere. In due anni io ne ho cambiati sette. Quando sono in campagna, non mi ricordo più niente di quelli della città; quando sono in città, non mi ricordo più niente di quelli della campagna. Sono amante della novità, e quando arrivi ad essere costante un anno, faccio subito testamento. Posso però vantarmi, che nessuno ancor mi ha piantato; che se ho la facilità di lasciar chi voglio, ho anche [p. 42 modifica] l’abilità d’incatenar chi mi preme. E s’io da per me stessa non li disciolgo, si disperano, si tormentano, ma stanno lì finch’io voglio, finchè mi piace; fremono, ma stanno lì. (parte)

Fine dall’Atto Primo.


Note

  1. Così nel testo.
  2. Ed. Zatta: Fatal destino.
  3. Orazio Arrighi Landini (1718-1775) accademico Agiato: vedasi vol. VIII, pp. 313, 406-7. Il poemetto usciì, pare, nel sett. del 1755, e vi si lodava il Goldoni.
  4. Mancano queste ultime parole nell’ed. Zatta.
  5. Zatta ha invece: per tutto l’oro ecc.
  6. Nell’ed. Zatta si legge soltanto: «Lavinia. Spropositi! Voi avete voglia di barzellettare».
  7. Zatta: dirvi.