Atto IV

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Atto III Atto V

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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

Madama e Tognino.

Madama. Ehi Tognino.

Tognino.   Madama.
Madama.   Immantinente
Vammi a cercar Ridolfo, e fa che tosto
Venga da me.
Tognino.   Sì presto?...
Madama.   Impertinente,
Che vorresti tu dire?
Tognino.   Mi ho riposto
Le parole nel gozzo.
Madama.   Parla via.
Tognino. Volea dir, che va in tavola l’arrosto.

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Madama. A me che preme?

Tognlno.   Se a vossignoria
Non importa ii mangiar, sia con rispetto.
È una stoccata per la gola mia.
Quando ritorno, ritrovar mi aspetto
Divorati in cucina infino gli ossi:
Pare che lo facciate per dispetto. (via)
Madama. Gran mala cosa, che da sè non puossi
Far sue faccende senza di costoro,
Che han propriamente pel bastone i dossi,
E vonno esser pagati a peso d’oro;
E se tarda il salario, o la derrata,
I monellacci pagansi da loro.
Mi ha cotesto birbone inquietata;
Bramo di riveder Ridolfo mio,
E temo sempre d’esser corbellata.
Non ho per questo di mangiar desio;
Mangerò, quando avrò vicino al desco,
Se la sorte lo vuol, lo sposo anch’io.
Il mio germano in verità sta fresco,
Se crede che per tutti i giorni miei
Voglia star sola a ridere in cagnesco.
Che venisse Ridolfo i’ bramerei:
Frattanto che alla tavola sen stanno,
Il tempo e il loco stabilir potrei.
Filippino e Rosalba cosa fanno
Soli colà dagli altri dipartiti?
Parleranno d’amore, e non m’inganno.
Pare che sian rimasti intimoriti,
Perch’io li ho discoperti. In mia presenza
Esser non pon soverchiamente arditi.
Vengono a questa volta; indifferenza
Mostrerò seco loro, e vo’ vedere
Se usan meco rispetto, o escandescenza.

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SCENA II.

Filippino, Rosalba e detta.

Filippino. (Se il fine nostro premesi ottenere,

Adularla conviene). (piano a Rosalba)
Rosalba.   (È poco male,
Se amica nostra la possiamo avere). (a Filippino)
Filippino. Madama, che in bontà non ha l’eguale,
Da voi venghiamo a domandarvi aiuto.
Rosalba. So la vostra protezion, che vale.
Madama. Esponete l’istanza.
Filippino.   Un dardo acuto
Per Rosalba m’impresse amor nel seno.
Madama. (Oh vuol da tutti il tristarel tributo!)
Rosalba. Per Filippino anch’io mi struggo e peno;
Come la cera mi consumo al fuoco.
Madama. (Arde il mio cor, del vostro cor non meno).
Filippino. La padrona voi siete in questo loco.
Rosalba. I scolar del fratel son servi vostri.
Madama. (Mi fan tai detti insuperbir non poco).
Filippino. Eccomi al vostro piè...
Madama.   Non vo’ si prostri
Uomo dinanzi a me; non son sì altera;
Basta che l’umiltà del cor si mostri.
Quel che in me si confida, in van non spera.
Che ho da fare per voi?
Filippino.   Pronuba dea
Stringere i nostri cor.
Rosalba.   Ma innanzi sera.
Madama. Piacemi in ver la spiritosa idea.
Darmi, perch’io vi faccia la mezzana,
Lo specifico onor di Citerea.
Filippino. Venni grazia a impetrar dalla sovrana.
Rosalba. Grazia senza di voi serbar non lice.

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Madama. Orsù, mi avrete generosa e umana.

Un no il germano ad un mio sì non dice:
Seguitate ad amarvi, io pur ne godo,
E sarà il vostro cor per me felice.
Di far le nozze troverassi il modo,
Se ’l negasse il maestro, io vel prometto,
Preparate le destre al dolce nodo.
Ma sappiate ch’io pure ardo d’affetto;
E altri sponsali tollerar non voglio
Prima delle mie nozze in questo tetto.
E sia questa giustizia, oppure orgoglio,
Se la Venere son dei vostri amori,
Così comanda di Citerea il soglio. (via)
Filippino. Bella, bella davvero. I nuovi ardori
Quando son nati di madama in seno?
Rosalba. E soffrire dovranno i nostri cuori!
Filippino. Stiasi veder per qualche giorno almeno.
Rosalba. Non v’incresce aspettar? chiaro si vede
Che non penate, come dentro io peno.
Filippino. Ma se il maestro dell’amor s’avvede,
E la germana non abbiam seconda.
Dirà che al patto noi manchiam di fede.
E quel cervel che di rigori abbonda,
Troverà il modo di gettare il sasso,
E di nasconder la maligna fronda.
Rosalba. Anzi ch’ei possa giungere a tal passo,
Se i cori unisce il marital legame,
Non lo scioglie monsieur, nè satanasso.
Filippino. Soddisfare saprò le vostre brame...
Chi viene?
Rosalba.   Giuseppina, anch’essa credo
Abbia nel sen lo stesso bulicame.

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SCENA III.

Giuseppina e detti.

Giuseppina. Amici, in compagnia spesso vi vedo;

Che sì, che amore il tristarel v’impania?
Rosalba. Noi siam due quaglie nello stesso spiedo.
Filippino. Ambi ci ha colti l’amorosa smania.
Amor pietoso ci promette il frutto;
Ma temo vi si sparga la zizzania.
Giuseppina. E voi studiate prevenire il lutto:
Molte cose non fatte han suoi perigli;
Ma quando è fatto, si rimedia a tutto.
Finalmente non siam nepoti o figli
Di costui, che ci tiene al giogo stretti,
E possiam scapolar dai fieri artigli.
Rosalba. Sentite? (a Filippino)
Filippino.   Superar voglio i rispetti.
Andiamo uniti a meditare il modo.
Liberi siamo, e non a lui soggetti. (via)
Rosalba. Così mi piace. Giuseppina, io godo.
Non vedo l’ora di saper chi sia
Questo dolce d’amor perpetuo nodo. (via)
Giuseppina. È diversa da lor la sorte mia;
Essi son nati per natura eguali:
Io mi lusingo entrare in signoria.
Il Conte è un cavalier de’ principali,
E i segni che mi dà d’affetto vero,
Sono segni patenti e modernali.
Alla prima, per dirla, avea in pensiero
Di tirare un po’ d’acqua al mio molino
Come fan tante di questo mestiero,
E poi scrivere il nome al tavolino
Nella lista di tanti protettori
Scordati affatto dal mio cervellino.
Ma capisco che i suoi non sono amori

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Passaggieri volanti, e da dozzina;

Ma mi fanno sperar cose maggiori.
Quello che disse a me questa mattina,
Quando finsi per lui lasciar la paga
Di mille rubli, fa veder che inclina
A starci meco, e che di me si appaga:
S’ella è così, lo vo’ provar di botto,
Finchè calda nel seno è ancor la piaga.
Eccolo, che ver me sen vien di trotto;
Nell’orecchie l’avea più che nel core;
Ma amor col tempo pagherà lo scotto.

SCENA IV.

Il Conte e detta.

Conte. Eccola qui; non è mendace amore:

Mi disse amor la troverei soletta.
Giuseppina. Lo starmi sola è il mio piacer maggiore.
Conte. Dunque la compagnia non vi diletta?
Giuseppina. Sì, ma non tutte.
Conte.   La riserva approvo:
Sempre non dassi compagnia perfetta.
Or per esempio, che con voi mi trovo,
Piacerebbevi meglio di esser sola?
Giuseppina. Per me da voi questo parlar vien nuovo.
Merito forse, povera figliola.
Esser da voi mortificata a segno
Che mi tolga il respiro e la parola?
Conte. No, Giuseppina: non diss’io per sdegno;
Godo sentirmi replicar sovente
Che vi son caro, e non d’amore indegno.
Di questa mane mi ritorna in mente
Il sagrifizio che per me faceste:
Son cavaliere, e un cavalier non mente.
Deensi rimeritar le opere oneste:

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Mille rubli per me lasciar vi piacque?

Mille doppie di Spagna ecco son queste.
Giuseppina. Oimè, signor, qual fantasia vi nacque
Sopra di me? Di povera donzella
A qual tristo pensier l’onor soggiacque?
Ma, mi direte voi, non sei tu quella
Che mi chiese stamane arditamente
Qualche piccolo dono in tua favella?
È vero, è vero, ed il mio cor risente
D’amara pena e di vergogna il foco:
Perdon vi chiede, e dell’ardir si pente;
Ma alla fin fine i’ non chiedea che poco,
E il picciol don d’un cavalier d’onore
A sinistro desir non apre il loco.
Mille doppie di Spagna è tal favore.
Che innocente non sembra, ed in pensarlo
Si gela il sangue, e mi s’aggruppa al core.
Franca, signor, senza rimorsi io parlo:
Faccio questo mestier per mia sfortuna;
Ma son chi sono, e con onor vo’ farlo.
Se nell’animo vostro il genio aduna
Qualche tristo pensier, vel dico aperto,
Andate pur senza speranza alcuna.
Conte. Quanto accresce quest’ira il vostro merto.
Mille doppie di Spagna è tal rifiuto,
Che vi guadagna fra le donne il certo.
Ma non pertanto il mio pensier non muto;
Fu dell’onor, non dell’amore un pegno,
Questo al merito vostro umil tributo.
E se il basso metal vi move a sdegno,
Senza premio virtù perciò non vada;
La mia stima per voi sale in impegno.
Ditelo in faccia mia, che più vi aggrada?
Giuseppina. Chi un infelice consolar aspira,
Sa da se stesso ritrovar la strada.

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Conte. (Ah sì, lo vedo, le mie nozze ha in mira.

Chi le porge il consiglio, amore od arte?) (da sè)
Giuseppina. (Gli scotta il colpo, e per amor sospira). (da sè)
Conte. Bramereste il ballar lasciar da parte?
Giuseppina. Abborrisco un mestier che per il mondo
Tristi menzogne di chi l’usa ha sparte.
Conte. Vi farebbe uno sposo il cor giocondo?
Giuseppina. Uno sposo, signor? Tutti gli sposi
Non hanno in cor della virtude il fondo.
Conte. Come spiriti in voi sì generosi
La bell’alma nutrì?
Giuseppina.   Natura istessa
Ha i semi in tutti di virtude ascosi.
Donna volgar, dalle sventure oppressa,
Per ciò non perde di ragione il lume,
Nè dalla sorte l’anima è depressa.
L’onestà, la prudenza, il buon costume
Solo non è dei nobili retaggio;
Parte siam tutti dello stesso nume.
Tra la folla del volgo, un cuor ch’è saggio
Si distingue dagli altri, e contro il fato
Sa, se il fato l’insulta, aver coraggio.
Conte. (Ah, un nobil cor di tanti pregi ornato
Chi amar non puote, e posseder non chera?)
Giuseppina. (Deh non sia meco il mio destino ingrato!)
Conte. Donna gentil, parlatemi sincera:
Il vostro cor, che nel mio cor penetra,
Sopra dell’amor mio che cosa spera?
Giuseppina. Spero, signor, mercè di lui, che all’etra,
E alla terra, ed al mar la legge impone,
Ch’ogni tristo pensier da voi s’arretra.
Spero che di fortuna al paragone
L’onestà messa, e il femminil decoro,
Degna sia della vostra compassione.
Spero offerto da voi siami il tesoro

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D’amor,1 della fede... oimè, fin dove

I pensier vanno a contrastar fra loro!
Un: va, mi dice, a delirare altrove;
L’altro mi ferma nel desire ardito;
E dal ciel la speranza in sen mi piove.
Conte. Il desir vostro senza sdegno ho udito.
Ogni disuguaglianza amore uguaglia,
Voi meritate un nobile partito;
Perchè vediate se di voi mi caglia,
Ecco pronta la destra.
Giuseppina.   Ah no signore,
L’improvviso splendor sovente abbaglia.
Tempo donate al conceputo ardore;
Esaminate, se di voi son degna;
Tardi si pente, chi ha ceduto il cuore.
Se l’amor vostro a mio favor s’impegna,
Fatelo sì che non risenta il grado
Il peso un dì della catena indegna.
Quando ha varcato dell’amore il guado
Il nocchier stanco sull’opposto lido,
Il goduto piacer canta di rado.
No, non v’inganni il seduttor Cupido,
Vi do tempo a pensar; di un primo foco,
Perdonate, signore, io non mi fido.
Vi lascio sol, ritornerò fra poco.
E dirò, se l’amor persiste e dura,
Che mi amate davvero, e non da giuoco. (v/a)
Conte. Il giusto ciel che ha le bell’alme in cura,
Per me questa riserbi; io non mi pento:
Vince la sua virtù sangue e natura;
D’una donna sì degna io son contento. (via)

Fine dell’Atto Quarto.


Note

  1. Così il testo dell’ed. Zatta. È facile correggere Dell’amor ecc.