Atto III

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Atto II Atto IV

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Fabrizio, poi Marianna.

Fabrizio. Siamo all’ora di pranzo, e Lindana non mi ha niente ancora ordinato. Ella è solita sempre farmi dir ciò che vuole. È capace non ricordarsene, e star a digiuno. Non vo’ mancar di fare il mio debito. Vo’ sentir dalla cameriera... Ehi! Marianna. (battendo alla camera)

Marianna. Che comandate, signor Fabrizio? (esce)

Fabrizio. Oggi la vostra padrona non pensa voler mangiare?

Marianna. A quel ch’io vedo, per oggi non se ne parla.

Fabrizio. Ditele qualche cosa.

Marianna. Gliel’ho detto; e s’inquieta s’io gliene parlo. Ha avuto questa mattina tre o quattro incontri, che l’hanno sturbata infinitamente; e per dirvela in confidenza, io dubito ch’ella voglia uscire dal vostro albergo. [p. 216 modifica]

Fabrizio. Spero non mi farà questo torto.

Marianna. Da una parte la compatisco. Vedete bene: l’occasione del caffè rende troppo pubblica questa sala. È venuto poc’anzi un impertinente...

Fabrizio. Lo so, lo so; mi fu detto di m. la Cloche. Ha colto l’occasione ch’io non c’era. Se c’era io, sarebbe andata la cosa diversamente. Ma a questo si rimedierà. Di sopra ho due appartamenti: ne assegnerò uno alla vostra padrona; ditele che non parta da me; che non mi dia questo dispiacere, ch’io non credo di meritarlo.

Marianna. Voi siete di buonissimo cuore; ma conoscete il di lei carattere. Non accetterà l’appartamento che le offrite, perchè da quello voi potete ricavar molto più; ed ella non è in grado di accrescere la pigione.

Fabrizio. Non parliamo di questo.

Marianna. Caro signor Fabrizio, voi avete della famiglia; e non è giusto che pregiudichiate i vostri interessi.

Fabrizio. Sì, dite bene. Vivo di questo, e non deggio togliere ai miei figliuoli per dare ad altri; ma sappiate, per parlarvi da galantuomo, che mi sono restate nelle mani le cinquanta ghinee del signor Friport; e queste, in buona coscienza, le ho da impiegare per lei.

Marianna. S’ella lo sa, non facciamo niente.

Fabrizio. Non è necessario ch’ella lo sappia. Farò che mia moglie la persuada ad accettare l’appartamento. Diremo, fin che mi resta disoccupato; e ci starà fin che vuole.

Marianna. Non so che dire; fra le nostre disgrazie il vostro buon amore è per noi una provvidenza.

Fabrizio. Andate a domandare che cosa vuole da pranzo; o almeno dia a me la permissione di far per lei qualche cosa.

Marianna. Fate voi senz’altro. Regolatevi secondo il solito. Non so che dire. Se le sue afflizioni le impediscono poter mangiare, sono afflitta ancor io; ma il mio stomaco ha bisogno di refrigerio.

Fabrizio. Bene: so quello ch’io devo fare. Voi di che cosa avreste piacere? [p. 217 modifica]

Marianna. Oh, se volessi badare a quel che mi piace, troppe cose mi piacciono. Sono avvezza anch’io a star bene. A casa mia non si pensava1 di niente. Mio padre era mastro di casa; figuratevi se ci dava ben da mangiare. Mio padre è morto; ed io colla speranza di star meglio, sono andata a servire. Oh sì davvero, che ho trovato una padrona con cui si tripudia. Ma non so che dire. Le voglio bene, e mi contento di mortificare la gola. Pazienza. Il cielo provvederà. (parte)

SCENA II.

Fabrizio, poi un Servitore.

Fabrizio. Povera figliuola! mi fa compassione. Ma ella poi non è tanto scrupolosa, come la sua padrona; si degna qualche volta di ricevere qualche piatto, ed io glielo do volentieri.

Servitore. Padrone.

Fabrizio. Ebbene? L’hai trovato quel forestiere?

Servitore. L’ho trovato, ed è venuto con me.

Fabrizio. Dov’è? Perchè non l’hai fatto entrare?

Servitore. Dubitava che ci fossero delle persone. Egli non vuol esser veduto da chi che sia. Ha preso una carrozza; si è chiuso dentro, e vi sta ancora, fin ch’io l’avvisi che può venire liberamente.

Fabrizio. Va; digli che ora non c’è nessuno.

Servitore. Vado subito. (parte)

SCENA III.

Fabrizio, poi il Conte.

Fabrizio. Questa premura di non esser veduto mi mette in qualche apprensione. Ma finalmente io faccio il mio interesse, e non m’imbarazzo di altro; e poi il signor Friport non è capace d’introdurmi persona di mal affare. Eccolo. [p. 218 modifica]

Conte. Siete voi il padrone di quest’albergo?

Fabrizio. Per obbedirvi, signore.

Conte. Mi ha detto il signor Friport, che qui da voi si sta bene; che avete delle comode stanze; che siete un albergatore onesto e discreto...

Fabrizio. Signore, io non faccio che il mio dovere. Ogni uomo ha obbligo di essere onesto e discreto.

Conte. Quei pochi giorni ch’io resto in Londra, desidero di albergare da voi.

Fabrizio. Spero, signore, che non resterete di me scontento. Qui potrete avere tutte le vostre comodità. Una camera propria; una buona tavola rotonda, se ciò vi aggrada; e libertà di mangiar solo, se più vi piace.

Conte. Non amo la compagnia. Mi farete preparare nella mia camera.

Fabrizio. Sarete servito.

Conte. E vorrei la camera disobbligata. Senza ricevere, e senza dar soggezione.

Fabrizio. Ho capito. Ehi! portatemi le chiavi della stanza al numero sei. (verso la scena)

Conte. Avete ora molte persone nel vostro albergo?

Fabrizio. Non c’è nessuno.

Conte. Tanto meglio.

Fabrizio. Non c’è che una sola giovane forestiera colla sua servente, che abita colà in quell’appartamento terreno.

Conte. E chi è questa forestiera?

Fabrizio. Non lo so, signore. Sta incognita, e non la conosco. Vi dico bene, che non avrete veduto la più bella, la più amabile e la più virtuosa donna nel mondo.

Conte. Non la vedrò, e non mi curo vederla.

Fabrizio. Veramente anch’ella vive ritiratissima, e non tratta, si può dir, con nessuno. Ma si potrebbe dare per accidente...

Conte. Sapete di che paese ella sia?

Fabrizio. Sì, signore, è scozzeze.

Conte. Scozzese? (con ammirazione) [p. 219 modifica]

Fabrizio. Senz’altro, lo so di certo.

Conte. (Oh cieli! che mai vuol dir questo movimento del cuore?)

Fabrizio. Perdonate. Siete voi pure di Scozia?

Conte. No; sono oriundo di Portogallo, ed ho nel Brasile la mia famiglia. (Convien celarmi; i miei timori mi accompagnano da per tutto).

Fabrizio. Questa chiave si trova, o non si trova? (alla scena)

Conte. (Ho sempre in cuore la povera mia figliuola. Or che ha perduta la madre, chi sa a qual partito la può condur la disperazione?)

Fabrizio. Scusate, signore, cercano la chiave; la troveranno.

Conte. Sapete il nome di questa incognita forestiera?

Fabrizio. Sì, signore, ella si chiama Lindana, e la sua cameriera Marianna.

Conte. (Ah! non è dessa. A quale strano pensiere mi trasportava l’amor paterno!)

Fabrizio. E voi, signore, s’è lecito, come vi chiamate?

Conte. Don Pedro della Conchiglia d’Asseiro. (Guai a me, se mi conoscessero pel conte Sterlingh!)

Fabrizio. Signore, mi rincresce di vedervi star qui in disagio; permettetemi che vada io stesso a rintracciar questa chiave. (parte)

SCENA IV.

Il Conte solo.

Conte. Non vorrei frattanto, che alcuno sopraggiungesse. Temo sempre di essere riconosciuto. (siede al tavolino) Quest’albergatore è ben provveduto di fogli pubblici. (osservando le gazzette) Veggiamo se nella data di Londra vi è qualche novità. (legge) Ha preso luogo per la prima volta nel Parlamento il Lord Murrai... Oh cieli! il mio nemico, il mio persecutore, il barbaro sterminatore della mia famiglia. Ah! il destino che non cessa di tormentarmi, mi fa cader sotto gli occhi l’oggetto de’ miei spasimi, de’ miei furori. Perfido! sono in Londra; son prossimo a [p. 220 modifica] rinvenirti; sono a portata di vendicarmi. Vissi abbastanza. La mia età, le mie estreme disavventure non mi fanno desiderar più oltre di vivere; ma la memoria delle tue ingiustizie mi anima, mi sollecita a morir vendicato. No, non valerà a sottrarti dall’ira mia il posto che occupi nel Parlamento... Ma inavveduto ch’io sono! Milord Murrai non era egli del Parlamento sei anni sono, e molto prima ancora ch’egli ottenesse la mia rovina? Parlerà il foglio di qualcun altro della famiglia. Veggiamo. (legge) Ha preso luogo per la prima volta nel Parlamento il Lord Murrai, figlio del defunto Guglielmo. Ah! è morto dunque lo scellerato. Sì, pagato ha il tributo della natura, e quello delle sue ingiustizie. La morte ha prevenuto il colpo delle mie mani. Ma vive il figlio; sussiste ancora la viva immagine del mio avversario, e posso spargere di quel sangue che ha macchiato l’onore della mia famiglia. Sì, figlio indegno, pagherai tu la pena dei delitti del padre. Satollerò nel tuo seno la mia vendetta. Oh cieli!2 E la povera mia figliuola? Non ho io abbandonato l’America; non ho io accumulato co’ miei sudori dell’oro per l’unico fine di rivederla, di soccorrerla, di darle stato? Non son io venuto ad espormi al pericolo di essere riconosciuto e decapitato, per aver nuova di lei? Per penetrare in Iscozia, se fia possibile, e condurla meco nell’Indie? Ed ora mi compiaccio dello spirito di vendetta, abbandonando quell’infelice al deplorabile suo destino? Ah! il nome del mio nemico ha suscitato il mio sdegno. Deh! vaglia la memoria del sangue mio a disarmar le mie collere, ed a procurare la sua salvezza.

SCENA V.

Fabrizio e detto.

Fabrizio. Signore, ecco qui le chiavi; se non andava io, non si trovavano.

Conte. Andiamo. (s’alza) Ditemi: conoscete voi milord Murrai? [p. 221 modifica]

Fabrizio. Sì, signor, lo conosco. Viene qui da noi qualche volta.

Conte. Viene da voi? Per qual fine?

Fabrizio. Vi dirò: è l’unica persona, cui ammette alla sua conversazione la forestiera che abita in quelle stanze.

Conte. (Ah! destino, dove mi hai tu condotto?)

Fabrizio. Per altro lo riceve sì onestamente....

Conte. Andiamo. Avvertite ch’io non voglio veder nessuno.

Fabrizio. Per conto mio non temete.

Conte. A milord Murrai non diceste mai, che fu da me nominato.

Fabrizio. Non vi è pericolo.

Conte. (Ah! l’occasione potrebbe farmi precipitare). Vien qualcheduno. Partiamo. (parte con Fabrizio)

SCENA VI.

Marianna, poi Milord Murrai.

Marianna. Fabrizio ha dell’amore per noi; ma si è scordato che siamo al mondo. Non si vede ne egli, ne alcuno della famiglia a portar il pranzo. La padrona non ci pensa; ma io ci penso. Vo’ un po’ vedere in cucina.... Oh diamine! un altro imbroglio. Ecco qui Milord. A quest’ora? Questa è la giornata delle stravaganze.

Milord. (No, non mi soffre il cuore di abbandonarla. O vo’ morire dinanzi a lei, o ch’ella mi ridoni la grazia sua. Finalmente qual colpa ho io nella condotta del mio genitore?)

Marianna. (O è cieco, o finge di non vedermi).

Milord. Ardir, mio cuore.... Voi qui, Marianna?

Marianna. Sì, signore. Non mi avevate veduta?

Milord. No certo. (Il mio dolore mi trae fuor di me stesso).

Marianna. Volete voi parlare alla mia padrona?

Milord. Sì, lo bramerei, s’ella mei concedesse.

Marianna. Lo sapete: ella non vi riceve mai sola. E a quest’ora io credo che le genti di casa sian ite a pranzo.

Milord. Per questa volta almeno, ditele che mi conceda di favellarle colla sola vostra presenza. [p. 222 modifica]

Marianna. Dite la verità: avreste in animo di farle sapere quel che vi ho detto?

Milord. No, non tradirò il segreto: non vi paleserò certamente; ma coi lumi che ho da voi ricevuti, se mi riuscirà che da se stessa si scopra, può essere che da un solo colloquio ne derivi la nostra comune felicità.

Marianna. Signore, io non vi consiglio per ora....

Milord. E perchè?

Marianna. Perchè, perchè.... Basta, la padrona è più del solito sconcertata. (Non gli vo’ dir nulla di miledi Alton. Ho fatto male a parlar una volta; non vorrei la seconda far peggio).

Milord. Ho qualche cosa da dirle, che potrebbe forse rasserenarla.

Marianna. Il ciel volesse; ma non lo credo.

Milord. Avvisatela.

Marianna. Non ardisco.

Milord. Non fate che la vostra apprensione sia dannosa agl’interessi della vostra padrona. I momenti sono preziosi. Se arriva gente, è finita. Credetemi che può perder molto, se non mi ascolta.

Marianna. Non so che dire. Anderò ad avvertirla, e cercherò anche di persuaderla. (Già in rovina ci siamo: che cosa ci può accadere di peggio?) (parte)

SCENA VII.

Milord solo.

Se non parliamo liberamente, continuerà ella ad odiarmi, ed io non potrò sperare d’aver pace. Non so se ancor viva l’infelice suo genitore. Bramo da lei saperlo. Mi conterrò per altro con tal cautela, da non esporre a’ suoi sdegni l’amorosa sua cameriera. Un uomo ch’è prevenuto, può valersi dell’artifizio per isvellere da una donna un segreto. [p. 223 modifica]

SCENA VIII.

Lindana, Marianna ed il suddetto.

Lindana. (Dimmi: sa egli nulla ch’io sia informata degl’impegni suoi con miledi Alton?) (piano a Marianna)

Marianna. (A quel che mi pare, io credo non sappia niente).

Lindana. (Perfido! verrà con animo di seguitare a tradirmi).

Marianna. (Se lo dico! la vogliam finir male).

Lindana. Milord, a che venite a quest’ora insolita ad onorarmi?

Milord. Spronato dal desiderio di rivedervi.... Poichè stamane non ebbi l’onore delle grazie vostre.... (Ah! non so ben quel ch’io dica).

Lindana. Non veggio nel vostro volto la solita ilarità: mi parete confuso.

Milord. Non sarebbe fuor di proposito la mia confusione, veggendo voi estremamente turbata.

Lindana. (Io dubito che da Miledi medesima sia stato avvertito e rimproverato). (piano a Marianna)

Marianna. (Potrebbe darsi). (a Lìndana, piano)

Lindana. (Ritirati). (piano a Marianna)

Marianna. (Permettetemi ch’io vada a dire una cosa alla padrona di casa). (piano a Lindana)

Lindana. (Sì, vanne, e ritorna presto). (piano a Marianna)

Marianna. (Sì, signora). (Nasca quel che sa nascere, io non voglio morir di fame). (parte)

Milord. (Vuol restar sola! che novitade è mai questa?)

Lindana. Pare dunque a’ vostri occhi, che io sia oltremodo agitata?

Milord. Ah! sì, pur troppo. Sparita è da’ vostri lumi quella dolcezza, che empiea di giubbilo chi vi mirava. Non siete quella de’ primi giorni, in cui brillava la serenità del sembiante; ed è da’ vostri labbri sbandito l’amabil riso consolatore.

Lindana. Non sono mai stata lieta: ho principiato a piangere assai per tempo, e la mestizia non si è allontanata mai dal mio animo. Pure col lungo uso di tollerare le mie disgrazie, avea imparato qualche volta a dissimulare; e mi vedeste [p. 224 modifica] sovente ammettere sulle labbra il riso, mentre il cuor si doleva del suo destino. Sono ora arrivate le mie sventure a tal segno, che più non vaglio a superare me stessa, e la crudeltà e la perfidia mi costringono ad abbandonarmi all’arbitrio della più dolorosa passione.

Milord. Deh! svelatemi la trista fonte del vostro cordoglio. Confidate in chi v’adora.

Lindana. Perfido! E avete cuore di dirmi ch’io mi confidi? Voi me lo dite? Voi da cui derivano le mie pene?

Milord. No, Lindana, non mi crediate a parte della più nera azione del mondo. Compatisco le vostre disavventure; detesto in ciò la memoria del mio genitore medesimo; e intendo di rendervi quella giustizia che meritate, risarcendo io medesimo i vostri danni, e cancellando l’onte del nome vostro e della vostra famiglia.

Lindana. (Oh cieli! Qual ragionamento è mai questo?) Che dite voi, signore, del nome mio e della mia famiglia?

Milord. Pur troppo mi è noto, con quanta ingiustizia ha il padre mio perseguitata la vostra casa. Piansi l’esilio del vostro buon genitore; e desidero che ancor viva, per procurargli io stesso la libertà, i suoi beni, la compagnia della cara figlia....

Lindana. Ah! son tradita. (si getta a traverso del tavolino)

Milord. Deh! se v’intenerisce il nome del padre, vi dia animo e vi conforti un cavaliere che vi ama....

Lindana. Milord, son fuor di me stessa, (alzandosi con agitazione)

Milord. Consolatevi, o cara....

Lindana. Oh numi! chi vi ha svelato chi sono? (agitata)

Milord. Non vi svelate da voi medesima? I rimproveri vostri non mi accusano di complicità con mio padre? Di qual altra colpa potevate voi accusarmi?

Lindana. Ah! voi caricate menzogne sopra menzogne. Io non intendea rimproverarvi che d’avermi celati gl’impegni vostri con miledi Alton, ch’è venuta a insultarmi. No, il mio ragionamento non poteva mai farvi credere ch’io fossi quella che sono, e che a mio dispetto sono costretta ora a svelarmi. [p. 225 modifica] Sapeste altronde il mio nome, le mie contingenze. Prevenuto di ciò, o interpretaste i miei detti, o vi adopraste con arte per cogliermi alla sprovvista. Se siete quell’uomo d’onore che vi vantate di essere, confessatemi la verità. Voi siete stato avvertito.

Milord. Sì, vel confesso, sono stato avvertito.

Lindana. E da chi?

Milord. Impegnatevi in parola d’onore di perdonare a chi ha inteso farvi del bene, e lo saprete immediatamente.

Lindana. Non occorre ne ch’io prometta, ne che voi più oltre vi affatichiate. So donde viene l’infedeltà: dalla perfida mia cameriera.

Milord. Non la trattate sì male: ella vi ama teneramente. Alla fine se ha palesato a me l’esser vostro, lo ha confidato a persona che vi ama, e che vi può rendere tranquilla. Ella non sapeva ch’io fossi il figlio di quello, cui giustamente odiate: e se saputo l’avesse, perchè avrebbe ella dovuto credere ereditaria nel sangue mio l’inimicizia col vostro? No, Lindana; ma che dich’io Lindana? No, miledi Sterlingh, non temete ch’io nutra nel seno l’antico sdegno delle nostre famiglie; e se l’avessi un dì concepito, bastano i vostri begli occhi per cancellarlo. Ringraziate il cielo, che ad onta vostra vi ha condotta per una strada, ch’è l’unica forse che vi può render felice. Niuno meglio di me può contribuire alla salvezza di vostro padre, s’è ancora in vita; all’onore della di lui memoria, se fosse estinto. Di più per ora non posso dirvi. Assicuratevi della sincerità del mio animo; siate certa della tenerezza dell’amor mio; fidatevi, o cara, fidatevi di chi vi adora. Gradite le mie attenzioni; e in ricompensa di quell’amore e di quella fe che vi giuro, chiedovi questo solo: credetemi; e non più.

Lindana. Che io vi creda? Ah! come mai posso credere ad uno che mi offerisce un cuore non libero, un cuore che con altra donna è impegnato?

Milord. Ah! sì, v’intendo. Miledi Alton mi perseguita, e vi spaventa. Ma non temete di lei. Promisi, forzato dal violento [p. 226 modifica] mio genitore. Sono ora padron di me stesso. Detesto il di lei carattere. Lo sa, gliel’ho detto; ne ho informato la Corte; ne ho prevenuto i parenti; ed ella si fonda invano sopra uno scritto, che sarà forzata di rendermi suo malgrado. Non oserei di offrirvi il cuore, se non fossi certo di potervelo offrire. Deh! serenatevi, credetemi, ed accettatelo con bontà.

Lindana. In qualunque stato che il vostro cuor si ritrovi, non isperate ch’io mi determini ad alcuna risoluzione. Rendetemi il padre mio, che mi è stato tolto dal vostro; ed allora ascolterò forse le vostre proposizioni.

Milord. Voglia il cielo che il vostro genitore ancor viva, e ch’io sia in grado di dimostrargli la stima ch’io faccio di lui, e l’amore che m’interessa per voi. Ma in ogni evento vi giuro perpetua fede, pronto a rinunziare alla dolce speranza di successione, se voi non siete quella che mi destinano i numi per mia compagnia.

Lindana. (Il sagrifizio è grande; ma non basta al cuor d’una figlia).

SCENA IX.

Marianna e detti.

Marianna. (Oh! oh! mi pare che le cose non vadano tanto male).

Lindana. Sei qui eh?

Marianna. Son qui, signora. (timorosa)

Lindana. Non hai confidato niente a Milord!

Marianna. Per carità, vi supplico, non mi mortificate d’avvantaggio; lo sono bastantemente, e sono così pentita....

Lindana. Permettetemi ch’io mi ritiri; ho necessità di riposo. (a Milord)

Milord. Servitevi. Calmate il vostro spirito; e vivete tranquilla sugl’impegni onorati dell’amor mio. (parie)

Lindana. (Oh amore che mi lusinga! Oh padre che mi rattrista! Oh barbaro mio destino non sazio ancora di tormentarmi!) (parte, e Marianna la segue)

Fine dell’Atto Terzo.


Note

  1. Ed. Zatta: non pensava.
  2. Nell’ed. Zatta si legge soltanto: Oh!