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V. L'Orlando Furioso - 3. La Discordia

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3. — La discordia.

Nel Cervantes il ridicolo della Cavalleria è tolto non dalla sua essenza, ma dal suo contrasto co’ tempi prosaici; tutto quel romanzo è una lunga antitesi. L’Ariosto ha sviluppato nella Cavalleria un germe di dissoluzione che è al di dentro di lei, nella sua natura. La Cavalleria, come sviluppo rigoglioso di forze individuali, è sublime, è Rodomonte a Parigi; ma in questo è ancora il suo debole, il comico. Sono forze mancanti di centro, eslegi, indisciplinate, che rendono impossibile una seria azione epica.

Se gl’individui si trincerano nel loro voglio, l’epica è disciolta, la società è disgregata. Vi sono discordie qua e là in [p. 112 modifica]tutti i poemi cavallereschi, ma senza significato; sono risse introdotte per rappresentare battaglie o duelli. Vi sono dispute nell’epopee che rafforzano l’elemento epico, che servono ad equilibrare le forze, come l’ira di Achille e l’ira di Rinaldo. Nell’Ariosto la Discordia è la baia del poema epico; scioglie tutto l’elemento cavalleresco pagano irremissibilmente; toghe il contrasto; dissolve l’azione sociale in azione individuale. Il romanzo succede alla epopea, la battaglia degenera in duello (Rinaldo e Ruggiero; i tre cristiani contro i tre pagani). La Discordia rappresentata dall’Ariosto ha un senso profondo: è la caricatura della Cavalleria.

La decadenza dell’epico, che era giunto al sommo interesse nel combattimento di Rodomonte, è preparata con mezze tinte e tatto squisito: il ridicolo non giunge improvviso.

Rinaldo vince ed assedia nei loro campi i guerrieri pagani. I cavalieri pagani lasciano le loro avventure particolari e ritornano al campo per difendere il loro signore. Sono in due drappelli che si succedono a mezz’ora d’intervallo, e forano l’esercito cristiano: il primo è composto di Rodomonte, Mandricardo, Gradasso e Sacripante; il secondo di Marfisa e Ruggiero. L’invenzione è presa dal Boiardo; l’Ariosto l’ha resa poetica. Il Boiardo ha avuto il torto di particolareggiare e di fermarsi su’ particolari, di non rappresentar la cosa con la rapidità del fulmine; ci tira pe’ capelli nella realtà e divien ridicolo. L’Ariosto ha capito che tutto dev’essere un giuoco d’immaginazione.

Le rovine cagionate da un fulmine in una casa ponno essere rappresentate direttamente, ed anche indirettamente descrivendo le impressioni del padron di casa nel vederle. L’Ariosto, avendo a rappresentar due azioni simili, i due assalti de’ due drappelli, ha rappresentata la prima indirettamente. Carlo armato esce e chiede ragione del tumulto. Nessuno sa di che si tratti; va innanzi e trova de’ fuggiaschi che non danno retta né alle sue minacce, né alle sue esortazioni: procede e trova feriti, trova cadaveri; era la «riga» di sangue lasciata da’ guerrieri nel traversar l’esercito cristiano: [p. 113 modifica]
     Il magno Imperator, fuorché la testa,
È tutto armato, e i Paladini ha presso:
E domandando vien che cosa è questa
Che le squadre in disordine gli ha messo:
E minacciando, or questi or quegli arresta;
E vede a molti il viso o il petto fesso.
Ad altri insanguinare o il capo o il gozzo,
Alcun tornar con mano o braccio mozzo.
     Giunge più inanzi, e ne ritrova molti
Giacere in terra, anzi in vermiglio lago,
Nel proprio sangue orribilmente involti.
Né giovar lor può medico né mago;
E vede dagli busti i capi sciolti,
E braccia e gambe con crudele imago;
E ritrova, da i primi alloggiamenti
A gli ultimi, per tutto uomini spenti.

In questa ottava magnifica, con una unità periodica tutta sua, vi presenta prima lo spettacolo indeterminato d’un lago di sangue, che poi analizza, e quindi vi mostra l’estensione del danno.

Ruggiero e Marfisa sopravvengono dall’altra parte. L’autore rappresenta direttamente, ma senza particolari, il loro operato: non pensano a far prodezze, ma solo a camminar verso il campo pagano.

     Per lungo e per traverso a fender teste
Incominciaro, a tagliar braccia e spalle
Delle turbe che mal erano preste
Ad espedire e sgombrar loro il calle.
Chi ha notato il passar de le tempeste,
Ch’una parte d’un monte o d’una valle
Offende e l’altra lascia, s’appresenti
La via di questi duo fra quelle genti.

Ariosto non s’interessa. Prende la cosa dal lato ridicolo. Rappresenta gl’infelici che, scappati da’ primi, mentre ringraziavano Dio della prontezza delle loro gambe, davano di muso in Ruggiero e Marfisa; ma questo comico è amareggiato dal pensiero della fatalità di quelle morti. [p. 114 modifica]

     Molti che dal furor di Rodomonte
E di quegli altri primi eran fuggiti,
Dio ringraziavan ch’avea lor sí pronte
Gambe concesse, e piedi si espediti;
E poi, dando del petto e della fronte
In Marfisa e in Ruggier, vedean, scherniti,
Come l’uom né per star né per fuggire
Al suo fisso destin può contraddire.

Byron e Leopardi parlerebbe qui della inesorabilità del destino. Ariosto scherza con questa idea, vi mette innanzi il paragone della volpe. Questo poter scendere a paragoni, questo non curarsi che di mettervi innanzi il fato vivacemente è il carattere della immaginazione.

L’Ariosto non ha per buon gusto descritta la battaglia che segue, rinforzato il campo pagano: vi sente mancanza d’interesse e realtà. A’ Cristiani non rimane che Brandimarte; è una strage, non una battaglia. La narra in un’ottava. Ammucchia in sei versi i sei guerrieri irresistibilmente impetuosi che hanno Carlomagno a fronte. Carlomagno si raccomanda ridicolamente a san Giovanni e san Dionigi, e finalmente scappa in Parigi. L’ottava comincia col fragor della tempesta e finisce in una fischiata.

     La forza del terribil Rodomonte,
Quella di Mandricardo furibondo.
Quella del buon Ruggier, di virtú fonte,
Del re Gradasso si famoso al mondo
E di Marfisa l’intrepida fronte,
Col re Circasso a nessun mai secondo,
Feron chiamar san Gianni e san Dionigi
Al re di Francia, e ritrovar Parigi.

Dov’è la traccia del sublime rappresentato in Rodomonte? L’epica che si sta sciogliendo a poco a poco, diverrà materia da Aristofane nella Discordia. Quando s’è vinto, cessa la subordinazione: Agramante non è più curato d’un frullo; Mandricardo [p. 115 modifica]avea lite con Ruggiero, con Rodomonte e Marfisa; Rodomonte avea lite inoltre con Ruggiero; e ciascuno vuol essere il primo a combattere. Agramante li induce a ricorrere alla sorte.

     Fe’ quattro brevi porre: un Mandricardo
E Rodomonte insieme scritto avea;
Ne l’altro era Ruggiero e Mandricardo;
Rodomonte e Ruggier l’altro dicea;
Dicea l’altro Marfisa e Mandricardo.
Indi all’arbitrio de l’instabil Dea
Li fece trarre: e ’l primo fu il Signore
Di Sarza a uscir con Mandricardo fuore.
     Mandricardo e Ruggier fu nel secondo;
Nel terzo fu Ruggiero e Rodomonte;
Restò Marfisa e Mandricardo in fondo;
Di che la donna ebbe turbata fronte.
Né Ruggier più di lei parve giocondo:
Sa che le forze dei duo primi pronte
Han tra lor da finir le liti in guisa.
Che non ne fia per sé, né per Marfisa.

Si può dire che il comico non si sia fin qui sviluppato: manca la rappresentazione. Si fa lo steccato. Mentre le turbe aspettano impazientemente che s’incominci, si sente un baccano, un gridio venir dal padiglione in cui Gradasso armava Mandricardo. Gradasso, nel dargli la spada, la riconobbe per Durindana e gli chiese come l’avesse. Mandricardo gli risponde alla stordita; Gradasso non l’ascolta neppure.

     E dimandògli se per forza o patto
L’avesse tolta al conte, e dove e quando.
E Mandricardo disse ch’avea fatto
Gran battaglia per essa con Orlando;
E come finto quel s’era poi matto,
Cosi coprire il suo timor sperando,
Ch’era d’aver continua guerra meco,
Fin che la buona spada avesse seco.
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     E dicea ch’imitato avea il castore,
Il qual si strappa i genitali sui.
Vedendosi alle spalle il cacciatore.
Che sa che non ricerca altro da lui.
Gradasso non udí tutto il tenore.
Che disse: — Non vo’ darla a te né altrui.
Tanto oro, tanto affanno e tanta gente
Ci ho speso, che è ben mia debitamente.
     Cercati pur fornir d’un’altra spada;
Ch’io voglio questa, e non ti paia nuovo.
Pazzo o saggio Ch’Orlando se ne vada,
Averla intendo, ovunque io la ritrovo — .

Mandricardo, lieto d’una nuova battaglia, risponde con calma

— Piu dolce suon non mi viene all’orecchia
(Rispose alzando il Tartaro la fronte),
Che quando di battaglia alcun mi tenta;
Ma fa che Rodomonte lo consenta.
     Fa che sia tua la prima, e che si tolga
Il re di Sarza la tenzon seconda;
E non ti dubitar ch’io non mi volga,
E ch’a te et ad ogni altro io non risponda — .
Ruggier gridò: — Non vo’ che si disciolga
Il patto, o piú la sorte si confonda:
O Rodomonte in campo prima saglia,
O sia la sua dopo la mia battaglia.
     Se di Gradasso la ragion prevale.
Prima acquistar che porre in opra l’arme;
Né tu l’aquila mia da le bianche ale
Prima usar dei, che non me ne disarme:
Ma poi ch’è stato il mio voler giá tale.
Di mia sentenza non voglio appellarme,
Che sia seconda la battaglia mia.
Quando del Re d’Algier la prima sia.
     Se turbarete voi l’ordine in parte,
Io totalmente turberollo ancora.
Io non intendo il mio scudo lasciarte.
Se contra me non lo combatti or ora — .
[p. 117 modifica]Mandricardo s’infuria e si conduce da facchino:
Se l’uno e l’altro di voi fosse Marte
(Rispose Mandricardo irato allora).
Non saria l’un né l’altro atto a vietarme
La buona spada o quelle nobili arme — .
     E, tratto da la collera, avventasse
Col pugno chiuso al re di Sericana;
E la man destra in modo gli percosse.
Ch’abbandonar gli fece Durindana.
Gradasso, non credendo ch’egli fosse
Di cosí folle audacia e cosí insana.
Colto improvviso fu, che stava a bada,
E tolta si trovò la buona spada.
     Cosí scornato, di vergogna e d’ira
Nel viso avvampa, e par che getti fuoco;
E piú l’affligge il caso e lo martira,
Poiché gli accadde in si palese loco.
Bramoso di vendetta si ritira,
A trar la scimitarra, a dietro un poco.
Mandricardo in sé tanto si confida,
Che Ruggiero anco alla battaglia sfida.


Mandricardo sfida i due a battaglia, e quelli si disputano per sapere chi debbe essere il primo:

     — Venite pure inanzi amenduo insieme,
E vengane pel terzo Rodomonte,
Africa e Spagna e tutto l’uman seme;
Ch’io son per sempre mai volger la fronte — .
Cosi dicendo, quel che nulla teme.
Mena d’intorno la spada d’Almonte;
Lo scudo imbraccia, disdegnoso e fiero,
Contra Gradasso e contra il buon Ruggiero.
     — Lascia la cura a me (dicea Gradasso)
Ch’io guarisca costui de la pazzia — .
— Per Dio (dicea Rugger) non te la lassso;
Ch’esser convien questa battaglia mia.
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Va’ indietro tu; — Vavvi pur tu; — né passo
Però tornando, gridan tuttavia;
Et attaccossi la battaglia in terzo,
Et era per uscirne un strano scherzo.

Agramante accorre per riconciliarli. Frattanto comincia un altro fracasso nell’altro padiglione dove Sacripante armava Rodomonte ed aveva riconosciuto in Frontino il suo Frontalatte. Egli dice a Rodomonte: — Il cavallo è mio; ma te lo presterò per gentilezza— . Rodomonte gli risponde mettendosi sei piedi al di sopra di lui.

     Rodomonte, del quale un piú orgoglioso
Non ebbe mai tutto il mestier de l’arme,
Al quale in esser forte e coraggioso
Alcuno antico d’uguagliar non parme,
Rispose: — Sacripante, ogn’altro ch’oso,
Fuor che tu, fosse in tal modo a parlarme.
Con suo mal si saria tosto avveduto
Che meglio era per lui di nascer muto.
     Ma per la compagnia che, come hai detto,
Novellamente insieme abbiamo presa,
Ti son contento aver tanto rispetto,
Ch’io t’ammonisca a tardar questa impresa,
Fin che de la battaglia veggi effetto.
Che fra il Tartaro e me tosto ha accesa;
Dove porti un esempio inanzi spero,
Ch’avrai di grazia a dirmi: Abbi il destriero— .


Sacripante s’arrabbia:

     — Gli è teco cortesia Tesser villano
(Disse il Circasso pien d’ira e di isdegno);
Ma piú chiaro ti dico ora e piú piano.
Che tu non faccia in quel destrier disegno
Che te lo difendo io, tanto ch’in mano
Questa vindice mia spada sostegno;
E metterovvi insino l’ugna e il dente,
Se non potrò difenderlo altrimente— .
     Venner da le parole alle contese,
Ai gridi, alle minacce, alla battaglia...
[p. 119 modifica]Agramante accorre. Sacripante racconta il furto. Marfisa si ricorda della spada, riconosce Brunello, lo ghermisce, lo conduce innanzi a Sacripante, e comincia con un «voglio»:
     — Io voglio questo ladro tuo vassallo
Con le mie mani impender per la gola,
Perché il giorno medesmo che ’l cavallo
A costui tolle, a me la spada invola.
Ma s’egli è alcun che voglia dir ch’io fallo,
Facciasi inanzi, e dica una parola;
Ch’in tua presenza gli vo’ sostenere
Che se ne mente, e ch’io fo il mio dovere — .

Quest’è l’ultima discordia, che serve di compimento. Questo canto è l’Iliade che finisce nel Don Chisciotte.