La metà del mondo vista da un'automobile/XVI

CAPITOLO XVI. — Tomsk la dotta

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XV XVII

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CAPITOLO XVI.


TOMSK LA DOTTA

Sulla via di Marinsk — «Dov’è la versta?» — Nel fango — I nostri amici i «mujik» — A sbalzi — Scoraggiamento — La «grossa bestia» — Affondati nel bosco — Tomsk — Verso Kolywan — L’Obi e le sue paludi — Kolywan.


L’automobile aveva affondato con le ruote posteriori. Ettore, che stava al volante, osservò in tono di rammarico:

— Se fossi andato più veloce forse sarei passato!

E, persuaso d’avere torto, voleva disincagliarsi senza aiuti, facendo agire il motore a impeti, a strattoni, ora avanti, ora indietro. Ma le ruote scivolavano, giravano negli alveoli, affondavano di più; e, a noi che tentavamo di spingere l’automobile, ci gettavano spruzzi di fango nero addosso e sulla faccia. Ne eravamo mascherati.

— È inutile! Ci vuole aiuto. — esclamò Borghese.

L’ufficiale fece voltare il tarantas e galoppò verso la città in cerca d’uomini e di travi. Un’ora dopo arrivavano dei gendarmi, dei soldati portati via da qualche corpo di guardia, tutti armati, comandati da un colossale sergente barbuto come uno zappatore napoleonico. Ed arrivarono anche dei barcaiuoli del Tschulym con delle tavole. Ci vollero due lunghe ore perchè il valido rinforzo riuscisse a sollevare la macchina e a trarla fuori dal fango. [p. 352 modifica]

Quanta gente diversa avevamo visto lavorare all’automobile, spingerla, tirarla, alzarla! Quante lingue avevano espresse le stesse idee nell’ansimo della fatica, quante volontà s’erano unite alla nostra! Il gruppo di quei soldati russi dai grossi caratteristici cappotti a cappuccio come tonache di frati, dai tradizionali berretti a piatto, dagli alti e rozzi stivali, con le cartucciere alla cintola, la lunga sciabola al fianco, tutti intenti intorno a quella gran macchina grigia, pronti al comando del gigantesco sergente, attaccati ai raggi delle ruote, quel gruppo aveva l’apparenza d’un quadro di guerra. Faceva pensare ad un qualche episodio di battaglia, al salvataggio d’uno strano cannone.

Attraversammo senza altri incidenti la vasta pianura, ed entrammo in un immenso ondulare di collinette, ora nude, ora boscose. A mano a mano che avanzavamo la strada diventava meno praticabile: tutta buche, solchi, fossi. Essa era abbandonata dalle teleghe e dai carri, che s’erano ricercati altri passaggi, e avevano formato capricciosi e numerosi sentieri scavati a zig-zag attraverso i prati e le boscaglie. Questo significava che era meglio passar per tutto piuttosto che sulla via. I ponti però erano sempre buoni, e alle loro imboccature tutti i sentieri, serpeggiando, correvano a riunirsi per attraversare insieme e separarsi al di là. L’antica strada maestra si è coperta di erbe e di sterpi, e sarebbe quasi sparita, divenuta invisibile, se non si vedessero ancora le tracce dei suoi fossati, e se lungo i suoi bordi non sorgessero sempre, da versta a versta, i caratteristici pali dipinti a fascie spirali bianche, rosse, e nere, e portanti la scritta delle distanze dalle stazioni postali: indicazioni solitarie che nessuno più legge. Quei pali ci guidavano. Ci dicevamo sempre:

— Dov’è la “versta„?

E se non la trovavamo tornavamo indietro a cercarla. Abbiamo percorso stradicciuole campestri, strisciando fra gli sterpi, lasciando i solchi delle ruote sull’erba. Passavamo dall’una all’altra, per quell’illusione continua dell’uomo la quale fa credere che il posto dove non si è sia sempre migliore. L’invidia probabilmente nasce da [p. - modifica]Guadando un confluente dell'Iro [p. 353 modifica] questa illusione. Talvolta perdevamo la via, e dovevamo ritornare all’ultimo villaggio a ricercarla. Ci sosteneva sempre la speranza di sbucare da un momento all’altro in quella buona via maestra che tutte le carte topografiche ci promettevano, e che andavamo cercando da duemila chilometri: duemila chilometri di disillusione. Più la cercavamo, inutilmente, e più la credevamo vicina; nella grande distanza percorsa senza incontrarla, trovavamo un inconfutabile argomento per dimostrarci la sua prossimità.

Il paesaggio diveniva di un’eguaglianza accasciante, tutto a praterie, con ciuffi di salici e di betulle, e piccoli stagni. Qualche volta il sentiero era fiancheggiato da siepi di fiori gialli: in quei tratti presentava un aspetto fantastico che ci faceva dimenticare e perdonare tutte le noie. In uno di quei punti fioriti avemmo bisogno di fermarci per cambiare una pneumatica; e si adunarono alcuni mujik intorno a noi — che passavano in quel mentre con le loro teleghe. Essi presenziavano con molto interesse l’operazione; palpavano le gomme, discutevano, tornavano a palpare; il gonfiamento per mezzo della pompa fu approvato da loro con espressioni convinte. Ascoltandoli apprendemmo la più straordinaria opinione sull’automobile, dopo quella del cavallo rinchiuso dei cinesi: un’opinione che trovammo poi, in altre circostanze, essere una delle più naturali alla mentalità del mujik. Dell’automobile, la cosa che più colpisce il mujik è la grossezza delle gomme, e nelle gomme egli vede tutto il segreto del moto. Nelle gomme è la forza, la velocità; esse rinserrano la macchina prodigiosa che fa girare le ruote: sono così grandi per questo. Il cinese è astruso, lo slavo è semplice; uno imagina di più, l’altro di meno. Il mujik è sempre più vicino al verosimile; si direbbe che egli intuisca la dinamo.

Ad un certo punto abbiamo scorto un gruppo d’uomini fermi in mezzo alla strada che ci facevano da lontano dei segnali agitando i berretti. Erano contadini, i quali, vedendoci arrivare, correvano ad avvertirci che un ponticello era crollato. Fortunatamente si trattava di un piccolo ponte sopra un fosso, e, con il [p. 354 modifica] loro aiuto, adoperando le tavole cadute, potemmo rapidamente costruire una passerella, e proseguire il cammino dopo pochi minuti.

Alle cinque di sera attraversavamo sopra una chiatta, avanti alla città di Marinsk, il Kija. Con tutte le sue arie da gran fiume il Kija non è che un tributario del Tschet, che è un tributario del Tschulym, che è un tributario dell’Obi. Si trattava proprio di un fiume valvassore; ma era in piena, e ci parve rispettabile. L’altra riva era gremita dalla popolazione. Avanti a tutti il Pristaf, un bel vecchio decorato della croce di S. Andrea, il quale ci accolse e ci salutò solennemente, e dopo averci dato il benvenuto, ci pregò di andare adagio nell’interno del paese, molto adagio. Borghese lo rassicurò: non sarebbero avvenute disgrazie.

— No, no; lo so. — disse il Pristaf con un sorriso cerimonioso. — Vi raccomando di andare adagio soltanto perchè i miei amministrati possano ammirarvi con tutto comodo.

La raccomandazione della paterna autorità era affatto inutile, perchè le vie di Marinsk si trovavano in tali condizioni da costringerci ad un’andatura processionale e solenne. La folla ci circondava, i ragazzi in prima linea; e tra la folla a piedi trottavano iswoshchik portanti la parte aristocratica della popolazione, e uomini a cavallo. Fummo accompagnati in una Zemstwoskaya Dom, una di quelle case che hanno il dovere di accogliere i funzionari in viaggio nei paesi dove manca l’albergo. La casa era decente, gli ospiti si mostrarono premurosi, il pranzo fu discreto. La polizia rintracciò la nostra benzina, e la macchina ebbe rifornimento e riposo sotto un grande hangar attiguo alla casa.

La folla rimase a guardare per qualche ora le nostre finestre aspettando chi sa quale sorpresa, poi si dissipò lentamente.

Dalla mattina alle tre e mezza, fino alla sera alle cinque e mezza, cioè in 14 ore continue di marcia assidua, avevamo percorso 160 chilometri. Meno di undici chilometri e mezzo all’ora.

È vero che il giorno dopo dovevamo correre anche meno. [p. 355 modifica]

Ci alzammo alle due, e partimmo alle tre. Eravamo andati sempre più anticipando l’ora della partenza per profittare del notturno sereno (perchè continuava a far bel tempo alla notte), e della luce perenne. Quel giorno, 10 Luglio, volevamo giungere verso l’una o le due a Tomsk, lontana 237 chilometri, e concederci così quasi una mezza giornata di riposo. Ma il destino aveva disposto altrimenti, e i suoi decreti, è noto, sono irrevocabili.

La strada cominciò per essere discreta e finì con l’essere orribile. Ho detto altrove che non si può imaginare quanto sia cattiva la strada siberiana sotto la pioggia; e pure, dal punto di vista dell’automobile, v’è qualche cosa di peggio: ed è la strada siberiana dopo la pioggia. Mi spiego: Quando piove, il fango è alto ma è molle, fluido; passarvi sopra somiglia al guadare; le ruote vi scivolano, vi scartano, vi pattinano, vi fanno di tutto meno che correre, ma non vi restano afferrate. Quando ha cessato di piovere, e la strada comincia a prosciugarsi, il fango diviene consistente; da viscido si fa vischioso, e l’automobile vi affonda e vi resta presa, tenuta, imprigionata. Affondare è molto più grave dello scivolare. Noi avevamo classificato gl’incidenti meno piacevoli del viaggio in quattro categorie, per ordine d’importanza: rovesciarsi, affondare, arrenare, e pattinare. L’affondamento era la disgrazia di secondo grado. Su quella strada di Tomsk avemmo non meno di otto disgrazie di secondo grado. Colpa del sole.

Precisamente. Alla mattina salutammo con gioia un cambiamento di tempo. Il vento da ponente girò al settentrione, e poi a levante. Le nuvole che sorgevano all’orizzonte furono lacerate, trascinate via a brandelli bianchi per il cielo sereno, e il sole sorse, splendido, puro, caldo. Verso le cinque il fango già cominciava a minacciarci. Sentivamo gli sforzi della macchina per non lasciarsi prendere, e non trovavamo altro rimedio preventivo che la velocità. Andavamo a sbalzoni. Ma nell’interno dei villaggi, dov’è impossibile correre a causa degl’ingombri, delle tavole [p. 356 modifica] messe di traverso, degli animali vagabondi, e dove il fango è profondissimo, affondavamo con una frequenza esasperante, e rimanevamo a lungo impantanati fra le isbe.

A Tomsk, un funzionario degno di fede raccontava a Pietro Leroy-Beaulieu, il noto studioso della Russia contemporanea, di un bue che si era annegato nel fango avanti alla porta di casa sua all’epoca del disgelo. Cito un’autorità perchè il fatto potrebbe sembrare incredibile, mentre non ha proprio nulla di eccessivamente straordinario. Basta attraversare la Siberia per accorgersene. Nel fango dei villaggi annegava la nostra pazienza. Gli abitanti, per formarsi un transito, mettono delle passerelle di tavole lungo le case, dei marciapiedi caratteristici, indispensabili; e per facilitare il passaggio ai veicoli, gettano sulla mota delle fascine, dei rami d’albero, della paglia; ma questi riempiticci, se sostengono il piccolo peso delle carrette siberiane, cedevano completamente sotto la mole dell’automobile. Certe strade, le migliori senza dubbio, hanno tronchi d’albero messi di traverso, gli uni vicino agli altri, una pavimentazione primordiale che trovavamo talvolta anche lontano dai villaggi, sulla quale la nostra povera macchina sussultava e pareva dovesse sfasciarsi ad ogni istante. Nei villaggi, per fortuna, vicino al male trovavamo il rimedio, e il rimedio era la popolazione, sempre benigna verso di noi, volonterosa, pronta ad aiutarci.

Se veramente i mujik fossero quei ladri che si dice, avrebbero potuto tranquillamente svaligiarci cento volte. Noi abbiamo trovato in loro degli amici pieni di bonarietà, di abnegazione, di semplicità, intelligenti e infaticabili. Vedendoci a spingere la macchina, s’univano a noi, senza incoraggiamenti, e spingevano. Si chiamavano l’uno con l’altro per darsi man forte. In cinque minuti tutta la popolazione era intorno all’automobile — della quale non si vedeva più, fra la calca, che la sommità del bagaglio e la bandiera, al disopra d’una confusione di copricapo di pelo, di berretti a piatto, di capigliature bionde. Qualche donna opinava che il nostro carro fosse mosso dal diavolo e si faceva ripetuti [p. 357 modifica] segni di croce col pollice sulla radice del naso; ma gli uomini non mostravano d’aver paura del diavolo, specialmente accorgendosi che il diavolo offriva loro il modo di guadagnare qualche rublo.

— Andate, andate! — si sentiva dire da voci piene di buon senso — Se è il demonio che lo muove, perchè il demonio non lo tira fuori dal fango?

Già, perchè? L’argomento era persuasivo; e i mujik, anche i più timidi, arrivavano in massa, diguazzando nella mota con In Siberia. — A bordo di un ferry-boat. i stivaloni mastodontici, e spingevano cantando, per aiutarsi nel rude lavoro. Non mancava legname, e quando la forza degli uomini non bastava, comparivano lunghe travi, portate dalla moltitudine come catapulte, e costruivamo con esse le nostre poderose leve che sollevavano la macchina e ci permettevano d’incastrare sassi o ceppi sotto alle ruote. Questi lavori di disincaglio duravano sempre qualche ora. In alcuni villaggi, dopo gli uomini sopraggiungevano le donne; e spesso le fanciulle più belle, riunite in coro, cantavano in nostro onore, chi sa per quale antica usanza verso gli ospiti, per quale patriarcale e poetica consuetudine. [p. 358 modifica]

Lontano dai villaggi, senza speranza d’essere soccorsi prontamente, la nostra posizione era angosciosa. Percorrevamo dei sentieri orribili, che forse sarebbero stati buoni il giorno dopo. Il terreno era tutto fango sconvolto, indurito sui rilievi, molle nelle affossature. Avremmo dovuto andare lentamente per evitare scosse pericolose, e dovevamo invece inoltrare a tutta forza per non affondare. L’automobile spesso cozzava contro ostacoli nascosti, sassi, radici, tronchi sepolti, e oscillava bruscamente, si sollevava, ricadeva di traverso. Dovevamo in certi momenti tenerci ben forte per non essere lanciati sulla via; urtavamo con violenza l’uno contro l’altro. Le molle cedevano, e lo chassis batteva continuamente dei gran colpi secchi sull’asse del differenziale che ci facevano rimbalzare dai sedili. Il bagaglio spezzava le cinghie, le corde, e cadeva; ma non potevamo fermarci finchè non eravamo fuori dal mal passo, perchè fermarsi significava affondare; e perdevamo degli oggetti. Perdemmo un binoccolo, un tub, un astuccio da toilette, e altre cose.

Eravamo storditi, indolenziti; temevamo di udire lo schianto di qualche rottura irreparabile: ci aspettavamo lo spezzarsi delle molle. Tutta l’automobile era talmente ricoperta di fango, che l’aereazione del radiatore s’era fatta impossibile. Il motore costretto ad un intenso lavoro, si riscaldava e mandava vampate ardenti; pareva volesse fondersi. Fra tanta mota non trovavamo acqua per riempire il radiatore che soffiava e gettava buffi di vapore dalla vite di chiusura. Quando quella vite veniva aperta, nella speranza di rinfrescare la circolazione intorno ai cilindri, ne saliva un’altissima colonna d’acqua bollente e fumante, un vero geyser che ci faceva arretrare coprendoci il viso con le braccia. Dovevamo scavare con la pala nel fango, fare delle buche, ed aspettare che vi colasse un po’ d’acqua terrosa per raccoglierne un bicchiere alla volta; e con quella fanghiglia riempivamo il radiatore. Il consumo di benzina era enorme; l’acceleratore doveva funzionare continuamente; eravamo sempre avvolti da nuvole di fumo bianco ed acre. [p. 359 modifica]

Passavamo di slancio i fossati, temendone il fondo sommerso nella mota; allora l’automobile si rizzava con le ruote anteriori sollevate, e si abbatteva in iscorcio. In uno di questi salti udimmo una lacerazione metallica. La parte posteriore dell’automobile aveva battuto sul suolo con tanta forza che il serbatoio della benzina, strisciando a terra ne aveva avuto la fodera di ferro schiavata, strappata via come una buccia d’arancio. Per lunghe ore tacevamo. Una prima vaga ombra di dubbio passava sulle nostre speranze di vittoria.

Avevamo avuto fino allora l’illusione che ogni difficoltà, ogni pericolo che si presentava fosse l’ultimo. Credevamo di aver cominciato dal peggio; ci sembrava che andando avanti tutto dovesse essere più facile. Ci accorgevamo allora che gli ostacoli aumentavano sempre più. Non avevamo mai trovato una strada tanto cattiva, ed eravamo appena nel mezzo della Siberia. Ogni giorno, senza concederci un momento di riposo, per sedici, per diciotto ore continue lavoravamo instancabilmente a superare meschine distanze. Avremmo continuato con tenacia e con ostinazione a prodigare ogni nostra energia: ma sarebbero bastate la nostra forza, la nostra volontà? L’automobile, avrebbe essa resistito ad una fatica per la quale non era stata creata? La macchina sembrava intatta ancora, ma la carrozzeria, negli urtoni e nei sobbalzi, s’era spaccata, allentata nelle sue parti, oscillava tutta; sentivamo sotto i nostri piedi il disgregamento delle tavole schiodate, i serbatoi parevano minacciare di separarsi dai sedili. Io chiesi a Borghese:

— Si può continuare a lungo così?

— No — mi rispose.

— Per quanto ancora l’automobile può resistere a questa strada?

— Per cinquecento chilometri al massimo.

In quegl’istanti di scoraggiamento eravamo persuasi che ci aspettassero migliaia di chilometri di sentieri così cattivi. Era dunque finita! [p. 360 modifica]

Noi vigilavamo il funzionamento dell’automobile con un timore che non era scevro d’affetto. Avevamo finito per voler bene a quella docile macchina che ci portava. La consideravamo quasi un essere vivente; la chiamavamo la «nostra grossa bestia»; le gridavamo «brava!» quando superava le difficoltà, la compassionavamo quando restava impigliata nel fango, la spronavamo con parole incoraggianti nelle ripide salite, come fosse stata un cavallo. Da un mese non la lasciavamo un istante, vivevamo della stessa vita e le nostre stanchezze ci pareva dovessero essere anche le sue stanchezze. Tanta intimità ce l’aveva fatta conoscere così bene, che tutti i rumori e i suoni dei suoi movimenti ci erano familiari, e ci accorgevamo subito della minima inesattezza. Ascoltavamo sempre il rombo del motore con la maggior ansia, spiando il temuto primo sintomo di qualche malattia.

Alle sette di sera trovammo un breve tratto di strada buona. Non avevamo ancora perduto la speranza di giungere a Tomsk. Riprendevamo coraggio. Tomsk era a cinquanta verste. Alle nove, alle dieci, potevamo essere in uno dei suoi grandi alberghi. Ci si presentò un piccolo pantano in fondo ad un largo solco. Non v’era modo di evitarlo. A destra e a sinistra v’era un folto bosco di betulle e di abeti — singolare ritorno della taiga. Il Principe scese per esaminare il terreno, entrò nel pantano, sentì i piedi impigliarsi nella mota. Non v’era altro da fare che tentare il passaggio con velocità.

L’automobile arretrò, prese lo slancio, scese il fossato tagliando il fango con le ruote anteriori, risalì con uno dei suoi terribili balzi felini. Ci credevamo liberati dal pericolo, quando ci trovammo fermi, col motore ruggente. La macchina non era passata tutta: le ruote posteriori erano affondate fino ai mozzi. Si trovarono afferrate e tenute come in una morsa, e non vi fu sforzo di motore o di braccia che riuscì a smuoverle.

A tre verste doveva esservi un villaggio: Turunta-yeva. Borghese lasciò noi a guardia dell'automobile, e si allontanò in cerca di soccorso. Dopo un’ora lo vedemmo ricomparire accompagnato [p. 361 modifica] da dieci mujik che conducevano quattro cavalli. I contadini alle sue prime richieste non volevano seguirlo, ma egli aveva mostrato allo Starosta quei tali documenti miracolosi....

I cavalli furono attaccati, e tirarono, e gli uomini tirarono con loro, ma ogni tentativo fu inutile. Bisognava risollevare prima l’automobile per mezzo di leve. I mujik si dispersero allora nel bosco per abbattervi alberi dei quali fare delle travi.

Erano le nove, ma il sole ancora alto sull’orizzonte, e In un villaggio siberiano. — Un alt per attingere acqua. gigantesco, rosso, accendeva le vette delle foreste. Risuonavano nel vasto silenzio i colpi d’ascia sui tronchi, e udivamo ogni tanto lo schianto d’un albero che cadeva, accompagnato dal lungo fruscio dei rami schiantati e delle fronde. Accendemmo il fuoco in una radura, e accoccolati intorno alla pentola che bolliva, aspettavamo che il lavoro ciclopico si compisse. Pensavamo, assorti, alle distanze che dovevamo percorrere, distanze che ci sembravano infinite, insuperabili. Ci pareva che la Siberia ci tenesse e non dovesse lasciarci più. [p. 362 modifica]

Verso le nove e mezza ci rimettemmo al lavoro. Con l’aiuto delle leve il disincaglio fu facile. In poco più di mezz’ora potemmo riprendere il cammino. Una lunga discesa pavimentata di tronchi d’albero ci condusse al villaggio di Turunta-yeva, dove passammo la notte, ospitati da una vecchia contadina che non aveva altro da venderci che del pan nero e del latte. Ad onta dell’ora tarda venne il pope del villaggio a vedere l’automobile. Era il primo pope siberiano che non mostrasse orrore per quella macchina; un giovane biondo, dall’aria nazarena. Ci salutò con un gesto contegnoso, riandò via senza dire una parola.

Ci sdraiammo a dormire sul pavimento dell’isba. Ma da qualche giorno non dormivamo più tranquillamente; i nostri sonni erano agitati; la stanchezza non bastava a farci gustare il riposo. Ogni ora d’immobilità ci pareva un’ora perduta. Avremmo desiderato di correre sempre. Non per avere un record ma per andar lontano, per ritrovare la nostra vita e la nostra terra.

Quel giorno avevamo compito il primo mese di viaggio.


Lasciammo Turunta-yeva alle tre del mattino.

Dopo una ventina di verste, arrivammo in un grosso villaggio: Khaldeyeva. Prima di attraversarlo volemmo esplorarne il fango. Lo trovammo impassabile. Piuttosto che tentare l’impossibile impresa di forzarci la via col motore, era meglio chiedere un aiuto anticipato. Il villaggio dormiva ancora. Bussammo all’isba dello Starosta, e lo pregammo di fornirci cinque forti cavalli da traino. Il brav’uomo si alzò ed andò a requisirli. Khaldeyeva fu in rumore. Vennero i cavalli e gli abitanti, fra i quali molti kirghisi, così simili ai buriati e ai mongoli da poterli definire dei mongoli maomettani.

I cavalli furono attaccati con le lunghe funi all’automobile: due mujik, antichi artiglieri cosacchi, che s’erano battuti anche nell’ultima guerra, montarono i cavalli di testa alla postigliona, conducendoli all’attacco mirabilmente con un trotto disteso, e fustigandoli con le nagaike. Tutta la popolazione assisteva alla bizzarra corsa attraverso il paese. [p. 363 modifica]

In quel mentre sopraggiunse un tarantas tirato da due cavalli, e ne saltò a terra un ufficiale di polizia che ci domandò con premura che cosa fosse successo.

— A Tomsk — ci disse — è giunta la voce che eravate stati assaliti. Il governatore, colonnello barone De Nolcken, mi ha fatto comunicare questa notte l’ordine di partire immediatamente alla vostra ricerca. Ed eccomi qui, trottando da villaggio a villaggio. Sono felice che siate sani e salvi.

— Tutta colpa delle strade.

— Eh sì, le strade sono pessime.

— Che cosa ne fanno dei denari che ci prendono — mormorò un mujik vicino a noi — se non accomodano nemmeno le strade? Mangiano come lupi....

Pareva che la macchina stesse per uscire dal pantano senza incidenti, quando la vedemmo improvvisamente abbassarsi, e fermarsi con le ruote quasi sepolte. Inutilmente i cavalli frustati e aizzati con grida puntavano le zampe e tendevano i muscoli: la macchina era immobile. Dovemmo far portare delle travi, ripetere la vecchia manovra delle leve, sollevare l’automobile così. Poi attaccammo allo chassis altre corde per tirare anche a braccia; più di trenta uomini vi si attaccarono; altri spinsero l’automobile e infine, lentamente, la macchina potè essere condotta in salvo, fuori del villaggio, dove riprendemmo il cammino sempre difficile.

Due ore dopo eravamo in vista delle scintillanti cupole di smalto e d’oro di Tomsk, che si levavano sullo sfondo cupo della foresta. Incontrammo degli agenti a cavallo spediti ad incontrarci, i quali scorgendoci da lontano tornarono indietro a gran galoppo per annunziare il nostro arrivo. La guarnigione era accampata fuori della città, secondo l’uso dell’esercito russo nei brevi mesi dell’estate, ed una folla di soldati accorreva a vederci.

Il capo della polizia, circondato dai suoi ufficiali, ci aspettava all’ingresso di Tomsk e ci salutò cordialmente.

— Il governatore vi aspetta —. ci disse poi — Desidera vedervi subito. [p. 364 modifica]

— Così? — ed accennammo al nostro costume infangato e al viso coperto di polvere.

— Così, così! Vuol darvi il benvenuto. Vi conduco io. Seguite la mia vettura.

E montò in uno splendido equipaggio che aspettava poco discosto, guidato dall’enorme cocchiere in kaftan azzurro alla moda russa. Quel tragitto fu tremendo. Le vie della Capitale morale della Siberia non avevano niente da invidiare a quelle di Khaldeyeva, e vi rischiammo più volte delle panne vergognose. Ma, ad onta della perfidia delle sue strade, Tomsk ci appariva meravigliosa, elegante, grandiosa, forse anche per il contrasto con la monotonia della taiga. Passavamo per mercati pieni di folla, come quelli d’Irkutsk; ma a mano a mano che scendevamo verso il centro della città, essa perdeva le caratteristiche di città siberiana, si raffinava, vedevamo dei palazzi alla europea, grandi magazzini, dei cantieri, e poi un sontuoso albergo moderno dove più tardi prendemmo alloggio.

Tomsk non ci sembrava diversa da tante grandi città della Russia europea, e il suo movimento ci dava quasi l’illusione di trovarci in qualche sobborgo di Pietroburgo. Passavano le rapide iswoshchik dal piccolo sedile senza spalliera, sul quale quando si è in due bisogna cingersi la vita col braccio, e passavano furgoni, biciclette. Sui marciapiedi, apparizione inaspettata, delle signore eleganti in toilettes estive. Tomsk ci pareva meritasse veramente la fama che gode di città aristocratica.

La ferrovia transiberiana l’ha lasciata lontana da sè, danneggiandola forse nel commercio. Ma Tomsk vive di una vita più eletta: è il grande centro intellettuale della Siberia. Ad essa accorre tutta la gioventù studiosa, alla sua bella università, che, simile a certe università americane, è isolata in un pittoresco bosco di betulle fra i cui rami s’intravvedono le piccole abitazioni degli studenti, graziose come châlets. E accorre da tutta la Siberia la gioventù alla sua moderna scuola tecnologica, alla sua biblioteca grandiosa. La chiamano anche “Tomsk la Dotta„. [p. 365 modifica]

Il governatore ci accolse con espansione amichevole, c’invitò a colazione e a pranzo. E nella giornata trascorremmo lunghe ore nel suo palazzo, i cui saloni avevano i grandi camini accesi come in pieno inverno, sentendoci riposare della solitudine rude nell’affabilità cordiale del colonnello De Nolcken e della sua famiglia. Egli ci mostrò i suoi orsi nel giardino; suo figlio ci presentò i suoi splendidi cavalli, tipi di razza locale famosa in Russia; e la baronessa De Nolcken ci fece ammirare i suoi daini In Siberia. — Tipi di Mujiks. che venivano a prenderle il cibo sulla mano. Al cancello del palazzo si aggruppavano i postulanti, degli zingari feriti in rissa, dei mujik che avevano reclami da fare, una piccola folla cenciosa, silenziosa, paziente ed ostinata, che non voleva saperne di parlare con funzionari e con ufficiali, che voleva vedere il governatore, ed aspettava l’ora della giustizia. Il governatore s’appressava alla soglia, ascoltava quei lagni, rimandava tutti a casa dicendo: Vedremo! — e il gruppo si disperdeva contento d’aver parlato con lui.

Il barone De Nolcken, un simpatico tipo di gentiluomo, di [p. 366 modifica] origine, credo, tedesca, ha il volto coperto di cicatrici. Sono un ricordo dei rivoluzionari. Due anni fa egli era vice-governatore a Varsavia, ricevette lettere minatorie, trovò sul suo tavolo la condanna a morte decretatagli dalla rivoluzione, e una sera fu aggredito, colpito, lasciato per morto sulla via. Aveva ricevuto quarantadue ferite. Guarì, e a questo fatto deve la nomina a governatore della provincia di Tomsk — un dominio grande come l’Impero germanico. I governatorati in Siberia, che una volta erano considerati posti di punizione, sono ora i più ambiti, e si danno per premio. Sono pericolosi anche loro — il governatore di Omsk fu ammazzato l’anno scorso in mezzo alla strada insieme a due gendarmi della scorta — ma sempre meno pericolosi di quelli della Russia europea, dove si fa strage di governatori. Anche il capo della polizia di Tomsk ha riconosciuto i pericoli del nichilismo. Viene egli pure da Varsavia.

— Si starebbe bene a Varsavia — ci diceva raccontandoci dei suoi casi — ma, che volete, in quel benedetto paese sparano troppe fucilate, troppe!

E aveva l’aria di voler dire: qualcheduna, passi....!

Domandammo al governatore informazioni sulle strade fra Tomsk e Omsk. Ce ne diede di poco incoraggianti. Egli credeva che, almeno per due terzi del percorso, le avremmo trovate cattive come quelle della vigilia. La notizia, ahimè, veniva da fonte ufficiale.

Poco lontano dalla sede del governatore, v’è un grande palazzo bruciato. Era un magnifico teatro regalato alla città da un ricchissimo negoziante. Fu bruciato due anni or sono da soldati in rivolta. Non potendo distruggere il palazzo del governatore, incendiarono un suo vicino. Vi fu un momento, dopo la guerra, in cui parve che tutto l’Impero si sfasciasse. Il mondo non ebbe che un’eco imprecisa e breve di quel principio di rovina. A Irkutsk, a Krasnojarsk, a Tomsk, a Omsk, il telegrafo e la posta non funzionavano più, i treni erano condotti da soldati rimasti fedeli: le truppe reduci dalla Manciuria portavano sul suolo della [p. 367 modifica] patria i furori della guerra, i commerci erano sospesi, tutti i negozi e le case barricati, le grandi città parevano morte. E tutto questo, laggiù, non per un trionfo d’ideali, per una lotta politica; non era rivoluzione quella; era un fenomeno molto meno complesso; si trattava di questo fatto: che centinaia di migliaia d’uomini avevano alla guerra imparato ad ammazzare e a distruggere, e, dopo le battaglie, seguitavano.

Alla sera, tardi, tornando all’albergo, nella via deserta, illuminata dal pallore rosato della notte, incontrammo dei reggimenti che venivano dal campo. I soldati cantavano in coro marciando, e nelle canne dei fucili portavano legati mazzi di fiori campestri.


Lasciammo Tomsk alle quattro del mattino del giorno dopo, 12 Luglio, con un tempo sempre minaccioso. Ci precedevano, al galoppo, due cosacchi mandati dal governatore ad indicarci la strada per uscire dalla città. Un gruppo di velocipedisti e motociclisti ci scortava.

In quel momento non speravamo più al ritorno del sole. Arrivare ad Omsk, lontana 960 chilometri, non importa in quanto tempo, ci sembrava un ideale quasi irraggiungibile. Dal colonnello De Nolcken ci eravamo fatti indicare i principali villaggi sulla nostra strada nei quali avremmo potuto far tappa. Calcolavamo di non poter percorrere più di 150 chilometri al giorno. Chi avrebbe immaginato che un sole, dapprima timido, pallido, esitante, uno di quei soli che tornano a nascondersi subito appena apparsi, ci avrebbe accompagnati al principio, per farsi poi più ardito, ardente fino a divenire torrido, fino a prosciugare il fango, indurire la strada, prepararci un sicuro terreno per la nostra corsa? No, alla partenza aspettavamo la pioggia.

Correvamo per le vie deserte di Tomsk appresso ai nostri cosacchi. Volti assonnati apparivano dietro ai vetri, attirati dall’insolito rumore dei cavalli al galoppo, del motore, dei campanelli.

Il singolare corteo lasciò la città, e andò a fermarsi, pochi [p. 368 modifica] minuti dopo, sulla riva destra del Tom, vasto come un canale marittimo, velato dalla bruma.

Halte! Regardez ici, Messieurs! — ci comandò una voce imperiosa.

Era un fotografo, dall’aspetto di ufficiale di cavalleria in ritiro, il quale, coadiuvato dalla moglie aveva messo in batteria un’enorme macchina fotografica, e ci attendeva al varco chi sa da quale ora. Guardammo ici. Egli cambiò la lastra ordinandoci:

Ne bougez pas!

— Ma abbiamo fretta!

Moi aussi!

Finì la sua operazione preliminare, ci rifotografò, e poi additando la macchina ci disse solennemente:

C’est la gloire! Adieu!

Traversammo il Tom sopra il più bizzarro battello del mondo, mosso da quattro cavalli che, trotterellando in giro sulla prora come in un molino, comunicavano il movimento a delle primitive ruote a pale, cigolanti e pigre.

Alle cinque lasciavamo questa stravagante navigazione ippica, e cominciammo a correre al sud, lungo la sponda sinistra del Tom. Dopo una ventina di verste per una campagna collinosa e triste, c’internammo in una magnifica foresta di abeti giganteschi, ultimo lembo della taiga tenebrosa, imponente e sinistra. Ci urgeva di abbandonarla. Per un certo tratto la nostra strada, quella per la città di Kolywan, lontana 230 chilometri da Tomsk e dove speravamo di giungere alla sera, è comune con la strada che scende a Barnaul, al sud, vicino alle sterminate steppe di Barabas, e cercavamo il bivio per volgere a ponente. Interrogammo i rari mujik che passavano con le loro teleghe, ma essi ignoravano la direzione per Barnaul e Kolywan. Non conoscevano che il loro villaggio e la via di Tomsk.

Tememmo ad un certo punto di aver sbagliato la strada, di esserci completamente perduti. Ci sembrava che la foresta ci avesse afferrati e ci tenesse legati nell’intrigato labirinto dei suoi [p. 369 modifica] sentieri. Passarono così quattro ore. Finalmente le ombre fosche nelle quali correvamo si dischiusero, e dopo un po’ scorgemmo dritto sull’erba un palo portante un numero sbiadito: era l’atteso segno della buona strada (da non confondersi con la strada buona). Ci ritrovavamo sul “Moscowsky Trakt„, su quell’antica via maestra che univa Mosca a Irkutsk, le due capitali — la madre e la figlia. Del Trakt non ritrovammo altro segno che Attraversando un fiume siberiano. — L’automobile imbarcata. quei pali, e dei solchi appena visibili fra l’erba lasciati da un traffico estinto, diretti dall’oriente all’occidente.

La taiga si allontanava, e correvamo sotto la luce d’un sole nuovo e tenue. I gruppi d’alberi si facevano sempre più rari, e, sparsi sull’eguaglianza verde delle praterie, facevano pensare alle ultime nuvolaglie d’un temporale passato. La campagna si appianava, si eguagliava, diveniva quasi deserta. Trovammo pochi villaggi, circondati da mulini a vento. Noi che giudicavamo il paese dal solo punto di vista della strada, ci rallegravamo della scomparsa del pittoresco.

Improvvisamente ecco apparire lontano un gruppo di [p. 370 modifica] cavalieri che si dirige galoppando verso di noi, quasi per tagliarci la strada. Noi osserviamo, e crediamo di rivedere dei mongoli. Infatti i cavalieri indossano un costume simile a quello dei mongoli, hanno il loro aspetto, e come i mongoli cavalcano con la sella quasi sul collo del cavallo. Sono dei Kirghisi nomadi. Essi hanno un non so che di selvaggio e di combattivo. Ci fanno pensare a delle scolte, a delle estreme avanguardie spinte avanti da qualche esercito asiatico in marcia dalle steppe del sud.

Giuntici vicino hanno fermato di colpo i cavalli osservando attentamente l’automobile, curvi sulla sella; poi sono scoppiati in una risata lunga e gioviale; trovavano la cosa estremamente divertente. Ripartirono galoppando, dopo averci salutato, e si voltarono più volte ridendo a guardarci. I kirghisi sono anch’essi nemici del pittoresco. Vivono a preferenza dove non sono alberi e dove non sono colline; la pianura è la loro patria; amano i vasti orizzonti, la libertà di correre ovunque senza incontrare ostacoli; vogliono sentirsi padroni dello spazio illimitato; hanno, sul continente, degl’istinti di marinaio.

Quel giorno ricorreva una non so quale festa slava. Nei villaggi le popolazioni sfoggiavano abiti vistosi; uomini e donne adunati sulle soglie cantavano in coro, accompagnandosi con le balalaike e le fisarmoniche. Quando passavamo, i canti cessavano, e si levava un urlo di sorpresa contenta e di festosità, come al passaggio d’un bel carro mascherato in un giorno di carnevale. Ma l’urlo delle folle, pure se è lieto, ha sempre un tono che par minaccioso; vi è troppa forza in esso; è formidabile anche quando vuol essere scherzoso, e noi ci volgevamo a guardare se i volti ridevano od erano seri. Ridevano. Eravamo rincorsi da gente che ci gridava:

— Aspetta! Aspetta! Lasciami salire!

— Portami a spasso, e ti pago un bicchiere di vodka!

Giungemmo sulla sponda destra dell’Obi, più vasto, più lento, più pigro e malinconico del Tom. L’altra riva è tanto lontana che sembra una striscia verde all’orizzonte. Il battello, anch’esso a [p. 371 modifica] cavalli, impiegò lungo tempo a trasportarci. I barcaiuoli ci avvertirono che avremmo trovato trenta verste di palude non ancora prosciugata, prodotta dall’Obi. Abbiamo attraversato quella insidiosa zona di acquitrini in modo singolare, straordinario.

Sulla riva ci aspettava il Pristaf di Kolywan venuto per ordine del governatore a farci da pilota. Un tarantas attaccato a troika, guidato da un cocchiere kirghiso, lo aspettava. Egli vi salì e ci pregò di seguirlo con la più grande attenzione.

— Se deviate di un passo — ci disse — correte il rischio di affondare. Vi assicuro che sarete condotti velocemente.

Infatti il kirghiso, impellicciato come fosse inverno e coperto da un berrettone di pelo, frustò i cavalli senza misericordia; la troika partì a carriera sfrenata, e noi dietro. Pareva un disperato inseguimento in mezzo ad erbe alte, fra le quali scintillavano larghe distese d’acqua immobile. Dopo cinque minuti vedemmo un sentiero vicino a noi che ci parve molto migliore del nostro; vi entrammo. E affondammo.

Per fortuna eravamo ancora vicino all’Obi, e, riuscito inutile ogni tentativo di disincagliare la macchina facendola tirare dai tre cavalli del tarantas, il cocchiere kirghiso tornò rapidamente al fiume e chiamò degli uomini. Vennero mujik e battellieri, e in meno di mezz’ora fummo fuori dal pantano.

— Ve lo avevo detto, Kniatz Borghese — esclamò il Pristaf — di seguirmi!

Da quell’istante lo seguimmo con fedeltà da cane. La troika faceva giri fantastici; a momenti spariva dietro a cespugli, a ciuffi di piante palustri, di salici nani, di giuncaglie; ci guidava allora il tintinnare del campanello appeso all’arcuato dugà, sotto al quale il cavallo mediano tendeva il collo nella corsa, e ci guidavano la frusta e il berretto di pelo del kirghiso che vedevamo passare come in un volo sulla sommità delle piante. Spesso l’acqua spruzzava sotto le ruote e sentivamo l’automobile affondare lievemente; ma ci salvava la velocità. Quella fuga furibonda aveva del romanzesco. Noi provavamo quasi il piacere d’una caccia. [p. 372 modifica]

Ogni dieci verste la troika trovava cavalli freschi e un nuovo cocchiere. Il cambio veniva operato fulmineamente; quasi non aspettavamo. Tutto era preparato in modo da non attendere un istante. Traversammo un fiumicello, confluente dell’Obi, sopra una vecchia barca sconnessa, e dovemmo lavorare duramente, insieme a dei mujik e al Pristaf, per rafforzare la passerella d’imbarco che aveva minacciato di spezzarsi sotto l’automobile. Al di là del piccolo flume il terreno cominciava ad ondularsi. Le paludi erano finite. Verso le sette scorgemmo dei campanili aguzzi sulla linea bassa dell’orizzonte. Mezz’ora dopo arrivavamo a Kolywan.

La popolazione ci aspettava, come a Marinsk. Era uscita dal paese a piedi, a cavallo, in telega. Il capo della polizia era là, in mezzo ad un gran vuoto rispettoso. Appena ci vide si avanzò per riceverci. Ma improvvisamente il nostro solenne ingresso venne turbato da un incidente unico.

Centinaia di buoi tornavano dai campi alle loro stalle, con la fretta di animali casalinghi, quando.... Ma è bene spiegare prima un uso particolare dei buoi siberiani, i quali dimostrano la migliore educazione sociale. I pascoli in Siberia sono quasi tutti comunali, proprietà collettive. Al mattino gli abitanti schiudono le stalle, e i buoi vanno a ruminare insieme l’erba municipale; alla sera la gran mandria rientra tutta unita al paese, come fanno i ragazzi che tornano dalla scuola, e quando è nell’abitato ogni bue si distacca dai compagni e va a casa sua, tranquillamente, da sè; trova la stalla aperta, rientra, e la mandria si assottiglia fino a che non rimane che un solo bue, l’ultimo, il quale sparisce nell’ultima casa del villaggio. Noi arrivavamo a Kolywan precisamente durante la rentrée serale dei buoi cittadini. Spaventati dall’automobile, si precipitarono nell’abitato, s’ingolfarono nella strada principale insieme a noi. La gente fuggiva. Il capo della polizia era scomparso con mezzo saluto rientrato. Ci trovammo avvolti da un gran polverone, circondati da una selva di corna, in mezzo allo scalpitìo, ai muggiti, alle grida. Potevamo crederci al centro della più [p. 373 modifica] straordinaria corrida. Finimmo per giungere alla Zemstwoskaya Dom accompagnati da quel corteggio.

Dopo un po’ il capo della polizia ci raggiunse e potè emettere la fine del suo saluto così malamente interrotto. S’intrattenne poi con noi a narrarci le sfortune di Kolywan.

— Una città finita! ci diceva — Era ricca, ed ora è povera; era popolosa, ed ora è deserta!

— Di chi la colpa? La macchina affondata in vicinanza di Tomsk.

— Della ferrovia. Kolywan è stata lasciata al nord dalla ferrovia; abbandonata. E tutti emigrano alla vicina stazione ferroviaria, a Nowi-Nikelajewsk, che raccoglie le attività commerciali di Kolywan e di Tomsk, e diventa una grande città, e tra qualche anno sarà più bella anche di Tomsk. Ha già ventimila abitanti! Le “città fungaie„ non sorgono soltanto in America. La Siberia ha molti esempi di questo significativo fenomeno.

La padrona della casa, una donna dal fare energico e dalle proporzioni vaste, ci prese sotto la sua efficace protezione. [p. 374 modifica] Allontanò i visitatori importuni e poi ci disse, senza aspettare i nostri ordini, da persona ricca di senso pratico:

— Ho immaginato che aveste fame. Perciò ho fatto subito preparare il pranzo. Sarà pronto fra poco.

— Grazie, signora.

— Uno shi, delle cotolette, dei polli arrosto, pane bianco, birra, thè....

Oh Kolywan, paese di delizie....!