La leggenda di Tristano (1942)/Appendice/Dalla Tavola Ritonda

Appendice - Dalla Tavola Ritonda

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Appendice Appendice - Dal Tristano Corsini

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DALLA TAVOLA RITONDA

1. — Nascita e cavalleria di Lancilotto.

Conta la vera storia che stando lo re Bando nella corte dello re Artú ed essendo ritornato dall’assedio della cittá di Lionis e dimorando in tale allegrezza, allora gli venne uno messaggio e contòlli sí come lo re Arandus e Brandino, con loro lignaggio, avevano assediata sua cittá di Benoich e sí come assai baroni e castella se gli erano ribellate. Allora el re Bando, con gran dolore e senza nissuna tardanza, montò a cavallo, nella compagnia di sua dama e di trenta cavalieri, e andonne inverso ’l suo paese. E cavalcando in tale maniera ed essendo gionti in cima della gran montagna e cavalcando inverso il piano, vidde che Benoich, sua cittá, tutta ardeva. E vedendosi prima in tanta altezza ed allora, per quello, éssare divenuto in tanta bassezza, insuperbí di sé medesimo e per la grande malinconia e dolore, el sangue se gli strinse al cuore; sí che la caldezza della superbia e ’l freddo della malinconia consumò il calore naturale, e combattendo il cuore sí che la virtú mancò, e cadde da cavallo tramortito e poco stante morí quasi di subito. E la reina Gostanza, veggendo lo suo marito e signore trapassato di questa vita, ed essendo a quel punto ella gravida di sette mesi, per lo gran dolore che le ricercava la corporatura, in quell’ora parturí e fece uno bello fanciullo; e dopo il suo parto visse tre giorni ed appresso morí. La Dama del Lago, suoro della Fata Morgana, avendo trovato per l’arte di nigromanzia sí come dello re Bando n’era rimasto uno figliuolo e doveva éssare uno pro’ [p. 300 modifica] cavaliere, fu di questo molto allegra; imperò che ella aveva portato sempre grande amore al suo padre re Bando. Ed allora tanto adoparò che ella fece venire il fanciullo alle sue mani, e fecelo battezzare e poseli nome Lancilotto (ciò volse dire ‘cavaliere di lancia e di spada assai saggio e dotto’); e fecelo nutricare bene e lialmente, avenga dio che nissuna persona sapesse che lei l’avesse alle sue mani, se non solamente la balia. E lo re Artú e lo re di Gaules e gli altri di suo lignaggio, morto o vivo che si fusse, poco se ne curavano, perché a lui succedeva el reame. Ed essendo giá il fanciullo, cioè Lancilotto, d’etá di quindici anni, la Dama del Lago chiamò a sé quattro donzelle, e comandone che loro menino Lancilotto davanti alla corte dello re Artú, e preghinlo per la sua parte che lo facci cavaliere, sapendo che per lui sará difesa tutta cavallaria. Ed a quel punto, le quattro donzelle montarono a cavallo e vanno al loro cammino; ed essendo ne lo reame di Longres presso alla cittá di Camellotto, egli scontrarono tre cavalieri armati di tutte armi; e l’uno era misser Calvano, e l’altro misser Gheus lo siniscalco, e ’l terzo era misser Arecco. E a quel punto il tempo era bello e ’l sole feriva sopra all’armadura de’ cavalieri e facevali tutti lustrare e rispréndare, sí che era troppo bella cosa a vederli, chi non gli avesse mai piú veduti; cioè arme e cavalieri. E Lancilotto gli mirava, e gittossi allora a terra del cavallo, e inginocchiossi e cominciò a fare sua preghiera davanti alli tre cavalieri. E li cavalieri salutarono allora le donzelle cortesemente, e domandaronle chi elle erano ed il perché lo donzello s’era cosí inginocchiato. E loro risposero al loro saluto allegramente, dicendo che erano di lontano paese; ma il perché lo donzello sí fusse inginocchiato, elle non sapevano niente. Ed allora misser Calvano si trae avanti, dicendo: «Ditemi, damigello, per qual cagione voi vi sete inginocchiato?». Ed egli rispose: «Se io mi so’ inginocchiato, non è da maravigliare; imperò che mia Dama e similmente queste donzelle m’hanno spesse volte detto che Iddio nostro signore è la piú bella cosa del mondo. E veramente io credo che voi [p. 301 modifica] sia’ desso, e sete la piú bella cosa che io vedessi giá mai in questo mondo». Ed allora li cavalieri e le donzelle, avendo inteso il damigello, cominciarono a ridare fortemente, dicendo: «Damigello, noi non siamo né Iddio né Angeli; anzi siamo cavalieri, li quali andiamo per li lontani paesi dimostrando nostra prodezza, acciò che torto non si facci ad alcuna persona». — «Per mia fé, disse Lancilotto, che da poi che li cavalieri sono tanto belli a vedere, io volontieri sarei cavaliere, se io potessi éssare». Ed appresso il donzello domanda li cavalieri che loro li debbino dire e divisare la maniera dell’armi; e misser Calvano gli disse sí come l’elmo, lo scudo e lo sbergo erano per loro difesa. «Ma queste donzelle dicano che vi meneranno a corte dello re Artú, ed egli vi donará arme e cavallo e farávi cavaliere». E di tali parole lo fèro assai allegro. E a tanto si dipartano l’uno dall’altro. E le donzelle e Lancilotto tanto cavalcarono che egli furono alla cittá di Camellotto, lá dove manteneva corte lo re Artú. Ed essendo nel palagio, andòrno ne la sala, dove trovarono lo re e la reina Ginévara e molti altri baroni e cavalieri; e le donzelle salutarono el re da parte della Dama del Lago, dicendo sí come ella lo mandava pregando che quello donzello facesse cavaliere. E lo re rispose che ciò fará volontieri. E dimorati un poco, le tavole furono messe e tutta gente assettate al mangiare, e Lancilotto sedette a tavola de’ cavalieri di men pregio. E mangiando eglino in tale maniera, una donzella della corte, la quale non parlava niente ed era appellata «la donzella senza mentire», ché mai non aveva detto né vero né bugia; e allora la donzella prese Lancilotto per mano, dicendo: «Sta su, damigello, lo quale fusti figliuolo dello re Bando di Benoich, e venuto se’ a stare a tavola del li cavalieri erranti»; e mai la detta donzella non parlò piú in questo mondo. E sapendo lo re, che questo era lo donzello che aveva custodito la Donzella del Lago, che era nato dello re Bando, fu assai allegro, e fálli grande onore ed apparecchiasi di farlo cavaliere. E tutta quella notte vegghiò Lancilotto nella gran chiesa, sí come era usanza di fare, e [p. 302 modifica] al mattino lo re lo fe’ cavaliere; ma non gli cinse la spada a quel punto, imperò che a nissuno non la cigneva se non era in tempo di xxv anni. E dèlli arme e cavallo e tutte insegne divisate, sí come portava lo re Bando suo padre; ciò è il campo azzurro e una banda d’argento. E la reina Ginévara vedendo lo cavaliere novello tanto bello, tantosto innamorò di lui ed egli di lei; e l’uno disiava per amore l’altro, e volentieri si servivano l’uno l’altro, e volontieri si sarebbeno voluti ritrovare insieme: ma, per temenzia e sospetto che avevano che non fusse chi se n’avvedesse, si restavano e rimanevansi con loro volere. Ma pure s’amavano di buon core, e ciascuno di lo’ era dato tutto ad amore, e celatamente si servivano di quello che potevano. (Cap. VI).

2. — Nascita di Tristano.

Manifesto vi sia che, tornato che fue lo re Meliadus alla cittá di Lionis con sua dama, tutta gente mostrava grande allegrezza, sí per la pace fatta e sí perché lo re Meliadus avea presa dama: ché troppo erano piú contenti d’essere sotto lo re Meliadus e di chi di lui discendesse, che essere suggetti ad altro sire; però che lo re loro era benigno e cortese signore. E a quello punto, come fue piacere di Dio, la reina Eliabella si ingravidoe: di ciò tutta maniera di gente ne mostraron grande allegrezza. E dimorando per piú tempo, lo re Meliadus sí andò a cacciare con molti altri baroni, sí come erano usati. E cacciando in tale maniera per lo grande diserto di Medilontas, lo re solo sí prese a seguitare uno cerbio: tanto gli andò dirietro sí a lungo, ch’egli si smarri da sua compagnia. E allora egli se n’andò alla fontana del Dragone, e quivi dismontò e si riposa; e donò da bere al suo cavallo. E riposato ch’egli fue uno poco quivi, sí v’arivò una bella donzella; la quale dice allo re: «Sire Meliadus, Cristo nostro Sire sí vi doni buona vita». Lo re rispuose: «Dama, voi siate la ben venuta». E quella dice: «Re Meliadus, io vi [p. 303 modifica] foe certo che, se io credessi che voi foste tanto prode quanto altri vi tiene, io vi metterei alla piú alta ventura e alla piú nobile, che giá mai niuno cavaliere traesse a fine». E lo re dice: «Dama, io per me non sono prode; ma, se a voi piace, io verrò con voi e, per vostro amore, sí faroe mio podere d’arme». E la dama dice che molto le piaceva. E allora lo re Meliadus se ne vae colla donzella; e tanto cavalcano per uno picciolo sentiero, che, a mezza notte, furo arrivati a uno bello castello, il qual era appellato la Torre dello Incantamento; ed era di questa dama, che era appellata la Savia Donzella. Ed essendo smontati, la donzella sí prende lo re per la mano, e sí lo mena in una camera, la quale era fatta per tale incantamento che, essendovi dentro lo re, non si ricordava della reina Eliabella sua dama, né non si ricordava di niuno suo barone, né cavaliere, né ancora di suo reame; e tutto il suo pensiere sí era nella donzella, la qual’egli si vedea davanti; e prendea di lei tutto suo diletto e piacere, e a nulla altra cosa ponea cura, né avea pensiero. E li baroni suoi, cioè coloro ch’erano stati con lui alla caccia, l’andavano cercando e chiamando per lo diserto; e, non trovandolo, si chiamavano i piú tristi del mondo e non finivano di lamentarsi, dandosi malinconia molta; e tutta quella notte stettono in grande pianto: e cosí l’andorono cercando tre giorni. Non ritrovandolo, fanno uno grandissimo lamento e pianto, e sí ritornano alla cittá. E la reina Eliabella era, per lo suo caro signore, la piú trista dama del mondo, e non finiva di fare lamento, e tutta quella notte stette in tormento e ’n pianto. Al mattino, in compagnia d’una donzella, se ne va al diserto per sapere s’ella potesse trovare del suo signore novella, o s’egli era vivo o morto. E andando in tale maniera cercando assai di lui, non ne truova né trasegna né novella niuna, avvegna non di meno che l’andavano cercando tutti i suoi baroni e cavalieri di quello reame, chi in qua e chi in láe, in ogni guisa; ma non lo possono i’ niuno modo trovare, però che la torre, lá ov’egli era andato, si era nel profondo del diserto. Vero è che a quel tempo la maggiore [p. 304 modifica] parte del mondo era in deserti. Anche la Savia Donzella aveva fatta quella torre e quello abituro in tale valle del diserto, che niuna persona vi poteva andare se non per un picciolo sentiere; e quello ricopriva con piantature spinose per tal modo e sí bene, che lo sentiero non si vedeva, né non se ne sapeva altri accorgere. E cavalcando la reina con sua donzella per l’aspra selva, ella continuamente andava facendo grande pianto; e molto si duole del suo sire perché non trovava persona, che a lei novella niuna gliene contasse, e non sapeva s’egli era vivo o morto. E cavalcando ella per una grande costa dello diserto, e mirando davanti per la grande erta, viddesi innanzi uno cavaliere tutto disarmato, il quale cavalcava a guisa di grande varvassoro. Essendosi scontrati, ella sí lo salutò cortesemente, e dissegli appresso: «Sire, saprestemi voi dire o insegnare alcuna novella dello re Meliadus, lo quale è perduto in questa selva?». E lo cavaliere, lo quale era appellato Merlino lo profeta, sí rispuose: «Sappiate, reina, che le cose perdute non si possono giá mai ritrovare. Ma io vi foe certa che lo re Meliadus si ritroverráe ancora; non per tanto che voi mai lo riveggiate». E dette queste parole, egli si diparte e vassene a suo cammino. E la reina pensa molto molto alle parole che questo profeta dette l’avea. Ed essendo in cima della grande montagna, ella si dismonta, ché di lá era una grande valle della foresta. E la reina cominciò forte a lamentarsi. La donzella dice: «Reina, che è quello, per che voi tanto vi lamentate per tale maniera? Voi siete da ora in qua tanto iscolorita». La reina risponde e dice: «Compagna mia, io ho paura che noi non cambiamo novelle: però che la criatura, che io ho in corpo, mi si va molto travolgendo, e molto si travolge». E per tale, allora dismontan da cavallo, e si riposano alquanto faccendo tuttavia pianto e lamento. Appresso cominciò fortemente a stridere, e a chiamare e a raccomandarsi alla sua santa benedetta Madre, che la aiutassi; imperò ch’egli era venuto il tempo del parto suo, sí come di donna gravida. E la donzella molto la conforta dicendo: «Non potreste voi cavalcare tanto, che noi [p. 305 modifica] fossimo fuori di questa foresta, a tanto che noi trovassimo alcuno abitaggio?». La reina rispondeva affannata, come quella, ch’era gravida e giugnevale l’angoscia, e disse di no: «Vedi, in neuno modo io non potrei». E in tale modo, come donna, cominciò a gridare e raccomandarsi a Dio e alla Reina di paradiso. E stando alquanto in tale travaglio, che guari non durò come piacque al Criatore, la reina partorí uno molto bello figliuolo maschio. Ella, veggendolo tanto bello, cominciò a ringraziare e a lodare la Reina del cielo; e priega la donzella che glielo ponga in braccio, e, avendolo, con molte lagrime e sospiri cosí prese a dire: «Caro mio figlio, veggio che tu se’ nobile e bella criatura quando dir si puote al mondo. Io vi benedico, e ’l Signore Gesú Cristo vi benedica, e sí vi faccia grazioso in questo mondo, valente, saggio e ardito: ché io per te sono la piú trista dama che al mondo sia; e per voi in grande dolore debbo morire, e io vi ho partorito sanza veruno conforto in cosí selvaggio luogo. Sicché, per ricordanza del mio dolore e della mia morte, ch’ella mi viene e io lo sento, io sí vi voglio porre nome, e voglio che in tal guisa tu sia appellato Tantri: ma chi ponesse il Tri dinanzi ai Tano, sarebbe piú bello nome, e per tale, arebbe nome Tritan». Allora riporge il fanciullo in braccio alla donzella, e molto glielo raccomanda. Appresso priega Iddio e la sua benedetta Madre che le abbia misericordia delle sue offese; e a quel punto l’anima si parti dal corpo. Ora è la reina passata di questa vita, e la donzella sí grida vedendo la reina sua dama morta, con sí grande pianto del mondo, tale che, per le strida, che ella metteva, tutto quello diserto facia risonare. (Cap. XII).

3. — Prime imprese di Tristano.

Gli maestri delle storie pongono che, dimorando Tristano nella corte dello re Marco, egli non dimorò grande tempo, che lo Amoroldo di Irlanda fece raunare a Londres, sua cittá, [p. 306 modifica] grande moltitudine di cavalieri e di pedoni, dicendo in fra gli suoi baroni: «Signori, voi sapete, che per ambasciata, che io mandata aggia allo re Marco di Cornovaglia, egli ancor non s’è mosso a mandarmi lo tributo, lo quale pagare mi dee per nove anni passati; e ciò addiviene, perch’egli mi tiene a vile, e non si cura di me. Imperò io sono fermo di passare il mare, e d’essere in quello reame, e porvi assedio alla cittá di Tintuille, e mai non me ne partire sanza lo detto tributo raddoppiato». E gli baroni suoi s’accordano a ciò. Allora eglino s’acconciano di biscotti e di cervogia, e di navi e di galee e di legni; e fae sonare le trombe e nacchere e cennamelle, e dare nelle campane a martello; e tutta la gente allora montano sulli navili i quali furono per numero trenta milia sette cento cavalieri e sessanta milia pedoni. E appresso danno alle vele. E lo tempo fue buono; sicché per la potenzia di scirocco, in sedici giorni furono allo porto di Cornovaglia a Tintuille. E allora tutta la gente dismonta delle navi; e attendarsi alla marina, presso alla cittá a mezza lega. E appresso, l’Amoroldo chiamò a sé due grandi baroni, e mandogli allo re Marco per ambasciadori, e si gli comandoe. che de li a trenta giorni dovesse avere pagato lo tributo raddoppiato, lo quale egli dovea pagare per nove anni passati, sotto pena della metá di loro persone. Ed essendo gli due cavalieri dinanzi allo re Marco, contarono e dispuosero loro ambasciata; e lo re di tale novella fu lo piú tristo signore del mondo; e tutti gli baroni mostravano grande doglienza. E Tristano, vedendo la corte tutta cosí turbata, fassene di ciò grande maraviglia, e domanda allora uno antico cavaliere, dicendo: «Onde è venuto tanto dolore, cosí novellamente?». E lo cavaliere conta a Tristano tutto lo convenente, sí come lo re Felice gli avea sottomessi a quello d’Irlanda; e sí come Amoroldo era venuto per lo tributo, lo quale dovea ricevere di nove anni. E Tristano disse: «Debbelo egli avere ragionevolemente?». E lo cavaliere disse: «Niuna ragione ne assegna, se non la sua grande possanza; però ch’elli sí è uno delli piú prodi cavalieri del mondo, e hae sotto di sé uno possente e [p. 307 modifica] grande reame, e cogli migliori cavalieri del mondo». E Tristano disse: «Sire cavaliere, da poi che lo Amoroldo non ha diritta ragione, come non si difende per battaglia? Giá ci veggio io tanti cavalieri in questo reame e tanta bella gente e grande baronia e grandi ricchezze». E l’antico cavaliere disse: «Ora sacciate certanamente, che ’n tutto lo reame di Cornovaglia non è cavaliere tanto ardito, che contro a l’Amoroldo entrasse in campo per tutto l’oro del mondo. Ma non voglio dire uno solo cavaliere; ma se fossoro trenta, non potrebbero la battaglia inverso di lui solo: imperò che lo Amoroldo è uno degli piú pro’ cavalieri del mondo, e sí è cavaliere errante, e per sua prodezza egli è stato nello collegio degli cavalieri della Tavola Ritonda». E Tristano disse: «Da poi che Iddio v’hae fatti tanti vili, che non vi vogliate della ragione difendere voi medesimi, avete a fare ragione di pagare». E piú non disse: se non ch’egli se n’andòe davanti a Governale, dicendo: «Maestro, lo Amoroldo d’Irlanda, sí come voi vedete, addomanda allo re Marco lo tributo; ed émini detto, ched’egli non lo debbe avere di ragione, ma per sua grande possanza e ardire; e lo re e’ suoi baroni, per loro grande viltade, s’acconciano a pagarlo. E ho inteso, che per uno solo cavaliere si puote difendere; sicché io mi sono fermato di volermi fare cavaliere, e di volere contastare lo detto tributo: non per amore della vile gente di questo reame, ma per amore del mio lignaggio». E Governale disse: «Oh, come, Tristano, enterresti tu in campo incontro allo Amoroldo, lo quale è uno dei migliori cavalieri del mondo, e voi siete uno giovine fantinello?». E Tristano disse: «Governale, se lo Amoroldo è prode cavaliere, io vorrei egli fosse ancor migliore: perché, se io sarò vincitore della battaglia, egli mi sarebbe vie maggiore onore, che s’egli fosse comunale cavaliere. In questa prima battaglia conoscerò io se io debbo valere niente per arme; e se io non debbo esser pro’, meglio m’è di morire combattendo con uno franco cavaliere, che di vivere in viltá». E Governale disse: «Figliuolo, dappoi che ti piace d’essere cavaliere e di provare tua persona, e a me [p. 308 modifica] piace». E a quel punto Tristano se ne va dinanzi allo re Marco, dicendo: «Sire, io sono stato nella vostra corte, sí come voi sapete: non per tanto ch’io v’abbia servito da domandarvi guiderdone, ma solo per vostra cortesia v’addomando in grazia voi mi facciate cavaliere». E lo re disse: «Damigello, elli mi sarebbe molto piaciuto, che di ciò voi vi foste indugiato, imperò che ora al presente non sono in tempo di mostrare allegrezza; ma da poi ch’io veggio il vostro volere, io vi farò cavaliere». E tutta quella notte vegghiò Tristano nella grande chiesa, sí come era usanza di fare, e di pregare Iddio, che gli desse grazia di portare sua cavalleria con giustizia e con leanza e con prodezza; e fue in quella notte accompagnato da molti baroni e cavalieri. E venendo al mattino, e Tristano se ne vae nella grande piazza della cittá; e quivi lo re lo bagna, e quivi Tristano prese lo giogo e lo nome della cavalleria; cioè, ch’egli s’innòbriga d’essere pro’, ardito e sicuro, liale e cortese e giusto, e difendere ogni persona menipossente alla quale fosse fatta alcuna cosa contra ragione; e rinunzia a ogni mercatanzia e arte, o vero sollecitudine, la quale appartenesse ad avanzare mondano; e di ciò giura e fánne sagramento, sí come faceva ogni novello cavaliere. E appresso lo re gli cinse la spada, e diégli la gotata, pregando Dio che gli donasse ardire e prodezza e cortesia, acciò ch’egli vivesse con ragione, con cortesia e con giustizia, che difendesse il dritto dal torto.

Manifesta la vera storia, che essendo Tristano cavaliere, egli dimorò da tre giorni che gli ambasciadori dello Amoroldo tornaron alla corte, dicendo allo re Marco: «Sire, come v’apparecchiate voi del fatto dello tributo? Non vi accorgete voi, che lo termine è molto brieve?». E lo re a tali parole non rispondeva, anzi lagrimava fortemente. E niuno altro barone a quella parola non rispondeva: perché lo tributo era troppo grande, che pagare si doveva. E allora messer Tristano, vedendo che niuno altro barone non rispondea, sí si drizza in piè, dicendo agli ambasciadori: «Se gli nostri anticessori hanno pagato nessuno tributo a quegli d’Irlanda, non l’hanno [p. 309 modifica] pagato per ragione, né con giustizia, ma hánnolo pagato per paura, e per forza ch’è stata fatta loro. Sí che, domandando l’Amoroldo lo tributo per sua possanza, e non per altra ragione che egli abbia, noi non lo vogliamo pagare, né osservare la legge antica degli imperadori, che per loro forza e potenzia signoreggiavano il mondo; ma osservare vogliam la legge di Dio, al quale piace, non per potenzia ma per ragione e per giustizia si posseda, ma non per forza o per rapina, faccendo obrigare le genti e’ paesi indegnamente. E se lo Amoroldo altro volesse dire, io lo appello alla battaglia; e mostrerògli per forza d’arme, che niuno tributo da noi non debbe ricevere: ma quello, il qual’egli hae alito per tempo passato, lo debbe ristorare e rendere». E gli ambasciadori dissono: «Messere, quello che ha detto lo vostro donzello dicelo egli con vostra volontá?». E lo re disse: «Certo sí». E gli ambasciadori dissono a Tristano: «Cavaliere, chi siete voi, che contro a l’Amoroldo prendete battaglia? imperò ch’egli non interrebbe in campo se non contro a cavaliere di legnaggio». E Tristano disse allora: «Signori, sacciate che per tale convellente la battaglia non puote giá rimanere: ché se l’Amoroldo è cavaliere, e io sono cavaliere; e s’egli è figliuolo di re, e io figlio di re per tale manera, ché lo re Meliadus fue lo mio padre». E a quel punto gli ambasciadori tornarono a l’Amoroldo, e contarongli l’ambasciata: sí come uno cavaliere novello volea difendere lo tributo per battaglia. E lo Amoroldo disse: «Sed egli è novello cavaliere, io novellamente lo farò morire. E perché io la battaglia allegramente accetto, sí gli appresenterete da mia parte questa spada, la quale sí è la migliore del mondo: e fue da prima dello grande Tartaro, e io la conquistai nelle lontane isole, quando trassi a fine lo grande gigante Terturiale, il quale la portava al suo costato. E ditegli, che per lo suo amore e ardire io gliele presento: imperò ch’io non credeva, che nello reame della viltade fosse cavaliere che di battaglia si travagliasse; e ditegli dove gli piace che nostra battaglia sia». E sappiate che l’Amoroldo donò sua spada a Tristano, perché ella era troppo pesante, faccendo egli questa [p. 310 modifica] ragione: «Lo cavaliere si è giovane: non la potrá balire (e in ciò pensava saviamente) però ché gli parrá piú pesante colle armadure gravi, che disarmato». E tornando gli due ambasciadori a Tristano, con loro ambasciata gli appresentarono la spada, e Tristano volentieri la ricevè, imperò ch’ella era di sforzata gravezza incontro a forza e grandezza. Tristano disse agli ambasciadori, sí come a lui pareva il meglio che la loro battaglia fosse nell’isola Sanza Avventura; «e se io perderò, lo re Marco gli raddoppierá lo tributo, e io sí sottometterò lo reame di Lionis: e s’egli perde, rinunzierae lo tributo e ogni ragione, ch’egli domandare potesse sopra questo reame. E sí gli presentate questa spada per mia parte, la quale fue dello re Meliadus mio padre; e donategli questa bracchetta, la quale fue dello re Fieramonte, che me la donò Bellices sua figliuola». Allora gli ambasciadori ritornáro allo Amoroldo, e sí raccontaro loro ambasciata. E lo Amoroldo fae allora armare sé e ’l buono cavallo per ragione; ed entrò in una navicella, e solo passa nella isola Sanza Ventura. E Tristano s’arma di grande vantaggio; e lo re Marco l’accompagna in fino alla marina, dicendo: «Bello e caro mio nipote, io voglio che rimanga questa battaglia, perché io vorrei innanzi perdere quanto oro io ho in questo reame, ch’io volessi perdere la vostra persona». Tristano a ciò non risponde, anzi entra nella navicella, e passa nella detta isola; e essendo dismontato, diede una grande sospinta a questa sua navicella, e mandolla via per mare. E lá, ov’egli scontroe l’Amoroldo, egli lo saluta cortesemente; e lo Amoroldo gli rende suo saluto, dicendo: «Ditemi, cavaliere, per qual cagione avete voi sospinta vostra nave per l’acqua?». E Tristano disse: «Perché io sono certo che l’uno di noi due rimarrá morto in questa isola; e quello che rimarrá vivo, si potrá tornare in quella navicella, ch’io veggio lae attaccata». E l’Amoroldo disse a Tristano: «Io veggio, cavaliere, che tu sí sei giovane; e sono certo che tu hai poco senno, essendo passato in questa isola e venuto a morire; che se voi mi conosceste, voi non areste presa questa battaglia con meco, per tutto [p. 311 modifica] l’oro del mondo». E Tristano disse: «Amoroldo, io vi conosco per pro’ e per ardito, e veggiovi armato e hovvi veduto giá disarmato; e anche voi servi’ a tavola alla corte dello re Fieramonte, lá ove smontaste e mangiaste». E a quel punto, a l’Amoroldo risovvenne sí come questo era lo donzello, lo quale lo folle aveva detto ch’egli si guardasse da lui; e allora molto dottò, e disse: «Cavaliere, io vi voglio perdonare questa battaglia, perch’io sono certo che tu l’hai impresa per poco senno; e a me non sarebbe grande onore a mostrare contro di voi grande possanza». Rispuose Tristano: «Se voi rifiutate lo tributo, lo quale voi domandate allo re Marco, io lascerò bene questa battaglia; ma in tale maniera, non la lascerei io giammai per nulla guisa». E l’Amoroldo disse a Tristano: «Quello ch’io v’ho detto io, l’ho detto per pietade che m’è venuta di voi, che siete tanto giovane cavaliere: non per tanto ch’io lasciassi il mio tributo». E Tristano disse: «Sire, grande mercé, che avete tal pietá di me, perché sono giovane cavaliere. Cosí vorrei vi rimovesse la coscienzia di non domandare allo re Marco lo tributo, che voi domandate; ché sanza ragione voi lo volete avere». L’Amoroldo disse a Tristano: «E’ non fa mestiere tante parole, ché ’l torto e ’l diritto difenderá la buona punta della spada». E sappiate, signori, che credendo l’Amoroldo ragionare, egli sí in questa parte profetizzò e diede diritta sentenza; imperò che la punta della spada gli rimase nella testa sua, sí come voi udirete, e fu quella che fece lasciare lo tributo. E a tanto, l’uno cavaliere si disfida l’altro, e l’uno si dilunga dall’altro tanto quanto uno arco puote gittare; e vennonsi a fedire colle lance in mano, ché bene rassembravano lioni; e allo abbassare delle lance si feriscono per tale vigoria, che le lance spezzarono in piú pezzi, e li cavalli andarono alla terra; non che però eglino perdessero staffe. E allora gli franchi cavalieri feriscono gli buoni destrieri degli sproni, e fannogli rilevare suso in piedi. E appresso mettono mano a loro mazze di ferro, e cominciano tra loro una crudelissima e aspra battaglia; e davansi sí grandi colpi, che tutt’i loro elmi loro risuonavano in testa. Eglino [p. 312 modifica] sí si spezzavano tutti gli loro scudi, l’uno a l’altro, in braccio. E combattuto che ebbero grande pezza, sí si riposano dello primo assalto. E al secondo mettono mano alle loro spade; e tutte loro arme sí veniano tagliando in dosso sí e per tale, che grande parte di loro armadure giaceano alla terra. E combattendo in tale maniera, nello terzo assalto ciascuno avea fedite assai; e delle loro carni si vedeano grandi parti ignude e tinte del sudore e di sangue. E nello quarto assalto gli loro cavagli non si sostenevano in istante; e l’uno si maravigliava forte de le forze de l’altro, non per tanto che ciascuno feriva bene e vigorosamente. L’Amoroldo colla grande prodezza ferí allora Tristano con grande forza sopra de l’elmo, che tutto lo fece inchinare. Allora l’Amoroldo disse: «Tristano, Tristano, or come ti stae la testa? io ti farò sentire che la mia spada è piú smisurata che la tua». E allora Tristano, pieno di grande vigoria, sentendosi dare lo grande colpo sopra la testa, tutto allora si ristrinse in sé, per volere lo detto colpo amendare, e impugnò lo suo brando con mal talento, e sí fiere lo Amoroldo di tutta sua possa e forza sopra dello elmo; e fue sí grande e avenente e forte lo colpo, che l’elmo tutto gliele profonde, e passagli la cuffia del ferro, e méttegli lo brando nella testa. E allo tirare del colpo, la spada sí si spezza presso alla punta; sicché alquanto della punta rimase della detta spada allo Amoroldo nel cervello; e per forza del gravoso colpo, l’Amoroldo cadde in terra disteso, e chiamava mercé a Tristano, che non lo tragga a fine; e a lui egli si chiama per vinto. E appresso rifiuta ogni tributo, il quale egli addomandar potesse allo re Marco, o torto o ragione ch’egli avesse. E Tristano, sí come gentile cavaliere, per cortesia sí gli perdona, che non lo trae a fine; e sí lo prende e mettelo nella sua navicella; e poi la sospinse per l’acqua quanto piú puote, per lui mandare alla gente sua. E allora Amoroldo, sí come cavalier ontoso, sí tende uno arco soriano, lo quale avea nella navicella, e tiralo con una saetta avvelenata, e sí feri Tristano nella coscia diritta; e appresso se ne ritorna a sua gente, e fa levare lo campo, e si ritorna in suo paese. E quando la reina [p. 313 modifica] Lotta sua sorella lo vidde cosí inaverato, ebbe grande dolore; e si lo prese a medicare, però ch’ella era la migliore medica del mondo, e niuna persona di medicare si trovava fina quant’ella era la reina Lotta. E fece tanto, che in quindici di ella gli trasse la punta della spada della testa. E appresso l’Amoroldo non potè scampare, che pure in fine egli se ne pur mori. E di lui rimase uno picciolo figliuolo, al quale lo re Languis d’Irlanda, marito della reina Lotta, puose nome Amoroldino novello, per rimembranza del buono Amoroldo. (Capp. XVII e XVIII).

4. — Tristano in pericolo di vita.

Manifesta la vera storia, che dimorando messer Tristano nella corte de lo re Languisse, ed essendo ritornato dal torneamento dello re di Scozia, egli si fa fare un bagno, perché molto si sentiva doglioso sí delle percosse ricevute e per lo affanno durato. E Tristano era bene servito da donzelli e da altra gente, e molto l’onoravano. E venendo il terzo giorno, che Tristano torna nel bagno, vennegli lasciata aperta la sua camera per dimenticanza, e la sua spada lasciò sopra lo letto suo, ov’egli dormiva; la quale spada era tutta bene fornita a oro e ad ariento nobilmente, con molte pietre preziose. E a quel punto uno scudiere entrò nella camera, vedendola aperta; e vedendo la spada in sullo letto, vi puose su le mani; e riguardava, perch’ella era tanta bella. In su quel punto, medesimamente passava quindi la reina Lotta; e vedendo lo scudiere, che toccava la spada di Tristano, missesi avanti ella, e puosevi suso le mani, e trassela fuori, con dicendo: «Ecco la piú nobile e la piú bella spada, che giá mai io vedessi a persona veruna». E per tale maniera, ella la trasse tutta fuori; e riguardando verso la punta, e vedendola spuntata, di ciò si fa meraviglia; e in quel punto ella si risovvenne della punta di spada, ch’ella avea tratta della testa allo Amoroldo suo fratello. E allora, tantosto andò alla sua camera, e aperse [p. 314 modifica] uno suo cofanetto, e trassene la punta, la quale ella avea riposta, e pose questa punta incontro alla spada mozza, e vidde che veramente questa punta era di questa spada, e che bene si confaceva insieme; e per questa cagione, ella conosce che questo cavaliere era quello che ’l suo fratello avea tratto a fine e lo avea morto. E allora corre inverso lo bagno colla detta spada in mano gridando: «Ahi falso traditore, nipote dello re Marco di Cornovaglia! ora non ti puoi piú celare; che fermi siamo e certi, che tu se’ quello malvagio traditore, che a tradimento uccidesti l’Amoroldo. Ma ora pur è mestiere che tu muoia per la mia mano». E si lo volea colpire, se non per tanto che alcuno, che quivi era, non lo sofferse; e Tristano di lei non dottava, imperò che non crede che colpi di femmina gli avesser potuto far male. Ma a quello grande rumore, che la reina faceva, si trasse lo re Languis ed altri suoi baroni assai. E la reina, quando vidde lo re, disse: «Messer lo re, vedete qui Tristano, nipote dello re Marco di Cornovaglia, il quale m’uccise l’Amoroldo mio fratello a grande tradimento». E lo re disse: «Dama, non gridare e non ti dare piú tanta langura; lascia fare a me questa vendetta: che non si appartiene a dama di fare tal cose». E appresso lo re sí si volse verso Tristano, dicendo: «Cavaliere, siete voi quello Tristano di cui è sí alta fama per tutto lo mondo?». E Tristano disse: «Signore, alcuna gente m’appella bene come voi dite». E lo re disse: «Rivestitevi tantosto; e voi, cavalieri, gli fate compagnia, e si lo menate al palagio». Allora uscí Tristano del bagno, e in giubba di seta si rivesti, e a collo si pose un mantello di cammellino; e la bella Isotta ripose sua spada. Essendo Tristano davanti lo re, a tutta gente ne pareva grande peccato vedendo morire tanto prode cavaliere e in tale maniera. E la reina stava avanti lo re a guisa d’una dama impazzata, e diceva: «Sire, io vi priego, per lo buono amore che voi portaste allo Amoroldo, mio fratello, che voi prendiate alta vengianza di questo falso traditore». E lo re dice: «Dama, va’ a tua via; ché io farò quello che ragione sará, e di vostra onta sarete altamente vendicata». Appresso [p. 315 modifica] parla lo re a Tristano, e disse: «Sire, uccideste voi l’Amoroldo a tradimento?». E allora rispuose messer Tristano allo re Languis, e disse: «Certo, sire, la veritá si è, che io l’uccisi, ma non giá a tradimento; imperò che giá mai io non fui traditore, né piaccia a Dio, che mai sia; ma io l’uccisi come fa uno cavaliere un altro, per diritta battaglia, ordinata tra noi due. E se fosse alcuno, che dir volesse, o fosse tanto ardito, ch’io l’avessi morto a tradimento, io l’appello al campo alla battaglia; e mostrerògli per virtú e forza d’arme, come io l’uccisi di leale battaglia, ordinata per noi due. E mostrerò, e sia qual vuole, che giá mai non fu’ io traditore, né tradimento feci mai». E lo re, vedendo Tristano sí giovane e tanto bello cavaliere, sí pensò uno poco, e poi disse: «Tristano, eravate voi a quel tempo di tanta forza, che in dritta battaglia aveste tratto a fine l’Amoroldo, lo quale fu lo migliore cavaliere del mondo?». E Tristano disse: «Sire, io non sono ora in tempo di vantarmi; ma la opera fu ed è a presente manifesta per piú di cinquecento cavalieri di questo paese, i quali furono allo luogo, e viddono tutto lo convenente; eglino possono dire tutta la veritá, come andò la bisogna». E allo re questa cosa era bene manifesta, e sapeva bene quello che n’era stato tutto di quella battaglia, e come era finito: il modo e tutto; ma volentieri coglieva cagione addosso a Tristano per fargli tagliare la testa, e per soddisfare alla reina, sua dama. Ma a tutta gente pareva di Tristano grande peccato; ché conosceano che, o torto o ragione ch’egli avesse, lo re lo voleva fare giudicare. E sappiate che la gentile donzella Isotta era sempre appresso dello re, quand’egli esaminava Tristano; e per tale maniera ella aveva di ciò grande cruccio e grande dolore; però ch’ella sapeva bene che lo Amoroldo non era stato ferito, né morto da Tristano per tradimento; anzi e’ gli avea udito dire, quando la reina lo medicava, ch’egli non avea giammai trovato lo piú leale né lo piú cortese combattitore, come era stato quello, con cui egli fece la battaglia, di ch’egli ne morí. Veramente, alla bella Isotta pareva molto male e grande peccato di vedere [p. 316 modifica] Tristano morire a sí fatto torto; e vedendolo tanto bello e adorno e giovane cavaliere, e abbiendolo medicato e campato ella della morte, sí lo teneva quasi per uno suo cavaliere. E per tale convenente la volontá non la lascia piú sofferire; anzi si dirizza in piede, dicendo queste parole allo re: «Padre e signor mio, io non domandai giá mai né a voi, né a niun’altra persona veruno dono; e per tanto, padre, io ve n’addomando uno, e priegovi che questo mio primo per voi non mi sia negato, anzi me lo dobbiate liberamente fare». E lo re disse: «Figlia, ora addomanda, ché tutto arái quello che ti piace; e sono apparecchiato di farlo»; credendo lo re, che Isotta venisse da parte della reina per fare morire Tristano. Allora la pietosa bionda Isotta: «Padre mio, disse, io vi priego per lo solo Iddio, e per lo vostro onore, voi non mettiate vostra bontá e magnificenzia a priego che fatto vi sia, per lo quale voi vi partiste dalla ragione e dalla somma giustizia; però che fino a qui per tutto l’universo si puote dire di vero, che la giustizia mai per voi non fu affalsata. E sí vi ricordo, che voi siete re; e re non è altro a dire che scudo e lancia e elmo; cioè, capo, guida, mantenimento di vera giustizia, difenditore della veritá. E però, se voi farete morire Tristano, lo vostro grande onore acquistato per lungo tempo, oggi lo vi perderete, padre mio; ché a falsare la giustizia, e a fare contro alla vostra coscienza medesima, acqua non lava, né cuopre mantello. E sapete bene, se voi vi infingete di non saperlo, che Tristano non uccise l’Amoroldo a tradimento; anzi sapete bene, per lo detto dello Amoroldo medesimo e anche degli suoi baroni, ch’ella fu battaglia bene e lealmente tra loro ordinata dell’una parte e dell’altra. Ora, se l’Amoroldo perdé la battaglia e fu morto, Tristano a che tradimento è tenuto? E se volete dire, che voi non credete che Tristano avesse avuta tanta balia né tanta possa, e che la etade sua non lo dava, adunque dovete credere che la sia maggiore cosa cento cotanti ad abbattere Palamides con tutto suo destriere, e di mettere in isconfitta lo re di Scozia, che non fu di mettere a morte lo Amoroldo. Onde io v’addomando il [p. 317 modifica] dono promessomi; dico che voi, padre mio, mi doniate questo Tristano e ch’egli non riceva niuno malo inciampo di sua persona». E a quello punto lo re si volge a messer Tristano, dicendo: «Cavaliere, la veritá sí è che, per vendicare io mia onta e per soddisfare mia dama, io arei proceduto contro di voi con giustizia; e ora al presente, io sí mi sono rimesso, e di voi non prenderò vendetta. La prima cagione sí è, che quando voi veniste nella mia corte, eravate in caso di morte, e per me e per mia figlia voi siete guarito; sicché a me parrebbe fare grande crudeltá ad avervi io recato da morte a vita, e appresso di conducervi a morte in sí fatto stato. La seconda cagione sí è, perché io non voglio essere quello, che tragga a fine la bellezza e la prodezza del mondo. E la terza cagione, per la quale io vi perdono e dimentico ogni offesa e rendovi pace, sí è per amore della mia figlia Isotta la bionda: e veramente da lei ne conoscete la vita. E da ora innanzi, voi potete liberamente andare e stare e venire, sano e salvo, a tutto il vostro piacere, sí come vi diletta». E allora messer Tristano ringrazia lo re e molte grazie rende alla bella Isotta la bionda. (Cap. XXIII).

5. — Il filtro d’amore.

Ma, secondo che pone la storia, che essendo Tristano con sua compagnia andato da quattro giorni per alto mare, e venendo il quinto giorno; dopo desinare, Tristano e Isotta si puosono allo scacchiere a giocare a scacchi, come erano usati; e giucarono grande parte del dí: ed era a quel punto un grande caldo, sí per la sentina del mare, e sí per la stagione del tempo. E giucando eglino in tale maniera, aveano grande talento di bere; e allor addomandaro che lo vino fosse apportato. E allora Governale e Brandina andaron a una coverta dela nave, lá dove era loro roba; e per ignoranza, si presono il bottaccino lá dove era lo beveraggio sí amoroso, e sí diedono di questo bere a Tristano e a Isotta. E avendo eglino beúto, e Governale [p. 318 modifica] e Brandina ripuosono il bottaccio; e abbiendolo riposto, ed eglino s’avvidono come quello era stato lo beveraggio che la reina Lotta tanto loro avea raccomandato. E di tale disaventura molto se ne doliano; e Governale diceva a Brandina: «Nostra malinconia non vale niente; perché fatto è, e non puote stornare». E allora Governale, per grande ira e per superbia, quanto beveraggio era rimaso nel bottaccio, sí lo gittò nello spazzo della nave, dicendo che di sí fatta cosa egli non voleva fare serbanza. E a quel punto, una cucciolina di Isotta, la quale era appellata Idonia, sí leccoe di quello beveraggio sparto; e fue appresso della compagnia degli due leali amanti, e nella sua vita non gli abbandonò mai; e da poi ch’eglino furo morti e seppelliti, ’l terzo giorno si trovò morta sopra l’arca di Tristano e di Isotta E fue tanto fine quello beveraggio e sí amoroso, che, per lo odore che Governale e Brandina sentirono di quello, mai inverso di Tristano né di Isotta non fallirono: e fallar non poteano, tanto quello beveraggio gli facea congiunti. Qui dice uno dottore, che avendo messer Tristano e Isotta e Governale e Brandina e Passabrunello e Idonia, ch’egli avea la piú bella dama, e ’l piú fedele servigiale, e lo piú forte cavallo, e la migliore cucciolina che avesse niuno barone del mondo. E lá dove cadde quello beveraggio, fece di sopra uno napuro e una schiuma di colore d’argento; e dove si sparse, si strinse tanto forte, che tutti gli ferri del mondo non ne arebbono levato. E è oppenione che mai in quello luogo lo legno non venisse meno, per la possanza di quello beveraggio. E alcuno libro pone, che quello beveraggio fue ordinato di tante e sí forti polvere, e di tali pietre preziose, che, a volerle stimare, valevano piú di cento marche d’oro.

E avendo Tristano bevuto questo beveraggio, egli si maraviglia molto molto, perché sua volontá né suo pensiero egli in alcuno modo non poteva raffrenare. E simile e in tale modo era infiammata madonna Isotta, cioè di lui; e per tale l’uno guatava l’altro; e per lo molto mirare, l’uno conosce il disio e la volontá dell’altro. E a quel punto dimenticarono lo giuoco [p. 319 modifica] degli scacchi; ché quando Tristano pensava giucare dello dalfino, ed e’ giucava assai volte della reina; e tal facea Isotta: quando credeva giucare dello re, ed ella giucava dello cavaliere. E aveano lo giuoco tanto travagliato, che ciascuno si crede essere morto; ed erano tanto presi d’amore, che lo minore scacco di suso lo scacchiere pareva a loro lo maggiore. E questo tutto loro intervenia per quello beveraggio, il quale fue fatto e ordinato sí bene, che non fue maraviglia gli due cuori essere una cosa; ma fue maraviglia come gli due cuori non si partirono di loro luogo, e non si congiunsero insieme, e essere uno cuore ed essere in una forma, sí come erano una volontá. Ché sappiate, che se quello beveraggio avessono gustato cento creature tutte di diverse nature, cioè cristiani, saracini, lioni, serpenti; tutti gli arebbe fatti una cosa, e mai non si sarebbono abbandonati. E però non è da maravigliare sed e’ costrinse lo cuore di due giovani amanti, ma è da maravigliare che gli due cuori non si spezzarono in pezzi e non si feciono una cosa. Ora, vedendosi insieme loro visi amorosi e piacenti, non si poteano saziare dello guatare l’uno l’altro. E fue quella una catena la quale incatenò il cuore degli due amanti; sicché degli duo cuori fece uno cuore, cioè uno pensamento; e delli due corpi fece una volontá; però che quello che piaceva a Isotta, a Tristano dilettava; e quello che Isotta voleva, Tristano lo desiderava; e quello che spiaceva a l’uno, a l’altro gli era in odio: e gli due amanti ebbono una vita e feciono una morte, e credesi che le anime abbiano uno luogo stabilito insieme. (Cap. XXXIV).

6 . — Duello fra Tristano e Lancillotto.

Tornando una mattina Tristano inverso la cittá di Tintoille, e mirando alla torre dove Isotta era imprigionata, e pensando sí come nolla poteva vedere; egli stava fuori di suo senno come pazzo. E per lo cammino allora per tale passava uno cavaliere errante; e scontrando a questo modo Tristano in sulla [p. 320 modifica] via quivi presso a uno petrone, questo cavaliere salutò Tristano cortesemente una fiata e due. E come Tristano, il quale era dello alto pensiere travagliato, nollo intendea e nollo udiva, e questo cavaliere tenne il non rispondere a grande disdegno; e sí prende allora Tristano per lo ceppo del freno, e sí lo sospinse a dietro; e della grande tratta Tristano rivenne in sé dicendo: «Cavaliere, troppo siete arrogante a sospignere mio destriere; ma, per mia fé, che se io fossi armato, che io ve ne donerei tale pentimento, che sempre mai egli vi starebbe a mente». E lo cavaliere allora disse: «Ora veggio io bene apertamente, che in questo paese hae la piú vile gente del mondo e la piú oltraggiosa; ché per tre volte io sí v’ho salutato, e non avete degnato a volermi rispondere. Ma per mia fé, che se voi non fuste disarmato, io vi farei disinore e villania». Tristano cominciò alquanto a sorridere, e disse: «Da poi che voi avete compiuto vostro onore a vostro detto, che avete voi a fare di mia bacalaria e di miei fatti? Ma tanto vi voglio dire, se voi mi volete tanto attendere che io mi sia armato, io vi mosterroe per forza d’arme drittamente, che in questo paese sí ci hae di prodi e di liali cavalieri». Allora lo cavaliere sí rispose e disse: «Or che non va’ tu? che non te ne spacci? Va, fa tosto, ch’io t’aspetto: e non mi partirò di questo secondo petrone».

E allora Tristano sí torna quivi allo castello, e in grande fretta egli s’arma, e monta a cavallo, e vae inverso lo cavaliere. Ed essendo lui venuto, sí lo salutò cortesemente dicendo: «Sir cavaliere, voi sapete che nostra battaglia non puote rimanere; e però vi priego voi vi vegnate a riposare a quello mio castello, e allo mattino combatteremo». E lo cavaliere disse: «Lo riposo ora non mi fae mistiere; ma una cosa, in cortesia, mi dite: se in quello castello dimora uno cavaliere il quale è appellato messer Tristano». E Tristano disse: «Bel sire, in veritá vi dico che io lo vidi cavalcare in questa mattina assai pensoso». E lo cavaliere disse: «Come! Non è la reina Isotta nella cittá?». Quasi diceva: «Come puote essere Tristano pensoso, essendo Isotta [p. 321 modifica] presso di lui?». E a quel punto, Tristano tutto si turbò; dicendo: «Cavaliere, la reina Isotta, perché la menzonate voi?». E lo cavaliere disse: «Perché io la ricordi e menzoni, di ciò non avete voi niente che fare; ché voi non siete sacerdote a cu’ io dico gli miei peccati». E Tristano dice: «In qual parte avete voi veduta la reina Isotta, che tanto la mentovate?». E lo cavaliere disse: «Io non so dove io la vedessi mai, ma molto l’amo e amerò di buono cuore». E di quelle parole Tristano tutto se ne scolorí, dicendo: «Cavaliere, non sia piú parole in fra noi: prendete del campo a vostro piacere, ch’io sí vi disfido». E a quel punto, uno borgese se ne vae allo re Marco e còntagli sí come appresso allo petrone Tristano avea impresa una battaglia incontro uno cavaliere errante. E allora lo re e tutti li suoi baroni e cavalieri vanno tantosto al prato per vedere. Ed essendo gli due cavalieri disfidati, l’uno si dilunga da l’altro, e vannosi a ferire delle lance, e donaronsi due grandissimi colpi, sicché le lance si briciano in piú pezzi, e gli cavagli trascorrono; e gli cavalieri si percuotono di scudi e di visaggio per sí grande forza, che ruppono cinghie e pettorali, e con tutte le selle andarono alla terra, e giaceano che quasi non si sentiano; e appresso di loro, amendue gli loro destrieri quivi caddono morti. E a quel punto, Tristano destramente si leva suso primamente; e vedendo morto suo buono cavallo, ne fue di ciò molto dolente. Ma non di men’egli appella suo combattante alla battaglia; e egli si drizza in istante, e mettono mano alle spade, e cominciano una crudele battaglia; e dannosi grandi colpi e pesanti, sicché in grande parti risonavano; e in poca d’ora gli loro scudi n’erano piú pezzi in terra, e molte delle loro armi erano affalsate e trinciate. E nel secondo assalto, tutti gli loro elmi erano guasti e affalsati, e le loro carni erano molto allividite, e ancora di sangue a ciascuno era assai uscito. E lo re Marco e gli suoi baroni molto si maravigliano degli due cavalieri, veggendoli tanto bene fare; e molto gli lodano, quanto piú possono. Nel terzo assalto, ciascuno avea fedite assai, e aveane di loro sangue assai alla terra, e tutta era [p. 322 modifica] rossa. Appresso, gli cavalieri si riposano del terzo assalto; e riposati alquanto, sí ricominciano loro crudele battaglia, combattendo molto crudelmente ciascuno; e ognuno di loro era piú contento di morire, che di rimanere perdente. E a terra erano andate le loro visiere degli loro elmi, sicché giá egli si poteano avvisare in viso, e l’uno molto si maraviglia de l’altro di loro forza; e giá non aveano scudi in braccio. E a quel punto, lo cavaliere si trae alquanto in dietro, dicendo a Tristano: «Sire, per mia fé, noi ci siamo tanto combattuti, che presso siamo al morire; e però, quando a voi piacesse, io vorrei sapere vostro nome, e io vi dirò il mio. E questa è cosa ragionevole, che l’uno sappia lo nome dell’altro; imperò, se niuno di noi scamperá vivo, saprá cu’ egli ará tratto a fine». E Tristano disse: «Cavaliere, in niuna maniera potreste sapere mio nome, e non ho cura di sapere il vostro; salvo se voi non mi dite innanzi per che cagione voi domandaste della reina Isotta». E lo cavaliere disse a messer Tristano: «Se io credessi che voi fossi sí leale amico di Tristano, che perfettamente amaste suo onore, io certo ve lo conterei». Tantosto Tristano rispose, e disse: «Cavaliere, per mia fé, io credo veramente essere lo migliore amico che Tristano abbia al mondo». E lo cavaliere disse: «Ciò non credo io veramente; però che Tristano ha uno suo liale e buono amico nello reame di Longres, lo quale egli non vidde mai, e sí lo ama quanto se medesimo, o piú, per amore di cavalleria. E io sono quello che amo messer Tristano per amore di sua gran bontade e buona nomèa; e per amore di Tristano, io amo la reina Isotta come mia suora carnale. E sacciate, cavaliere, che io sono appellato Lancielotto, figliuolo dello re Bando di Benuicche; e partomi dello reame dello re Artú e di sua corte, solo per vedere Tristano; e sono fermo di non tornarvi mai, se io prima nollo veggio». Intendendo Tristano come questi era Lancialotto, il quale egli avea tanto disiato di vedere, di questo fue molto allegro, e subito prende lo brando suo per la punta, e sí lo porge a Lancialotto per lo tenere dicendo: «Bel sire Lancialotto, io sono qui vostro [p. 323 modifica] servidore Tristano, lo quale v’ama tutto di buon cuore». Allora vedendo Lancialotto come questi era Tristano, non cura dello onore dello brando, anzi getta via lo suo, ed elmo e scudo; e abbracciansi e baciansi piú di cento fiate insieme; e l’uno a l’altro donava l’onore della battaglia. E lo re Marco, avendo veduta la crudele battaglia, e poi vedendo lo grande onore che gli cavalieri insieme si faceano, fassene cogli suoi baroni grande maraviglia, e manda a sapere chi era lo pro’ cavaliere; e sappiendo sí come questi era Lancialotto dello re Bando di Benuicche, lo falcone degli buoni cavalieri erranti e ’l pregio de’ cavalieri erranti, allora egli s’accompagna con molti de’ suoi baroni e cavalieri; e vassene a punto lá ove sono gli due combattenti e abbraccia Lancialotto e fagli grande festa e grande onore, e convitalo a la cittá. (Cap. XLIX).

7. — Come albergavano i cavalieri erranti.

E sappiate, che in tre maniere poteano albergare a quel tempo gli cavalieri erranti, o vero stranieri, li quali andavano per lo mondo a quel tempo provando loro venture e le loro persone in fatti d’arme. S’egli andavano in contrada dimestica, lá dove avesse cittá o villa o castello, sí potevano, sed e’ piaceva loro, andare al palagio del signore della contrada; e se ciò eglino non volevano fare, sí andavano agli alberghi ordinati per lo signore della contrada, e quivi benignamente erano ricevuti; e s’egli andavano per contrada salvatica, lá dove non avesse né villa né abitazione, lo signore che possedeva la contrada, vi facea fare magioni a certe poste; e faceanvi dimorare forestieri, gli quali aveano potenzia d’albergare gli detti cavalieri viandanti che vi arrivavano; e se ’l cavaliere andava per contrada molto diserta e salvatica, la quale per paura delle malvagie fiere non si potesse albergare, lo sire delle contrade facea fare, a certe poste, grandi e belle albergherie, e sí le forniva di biada, di fieno, di biscotto e di vino e di cernises; e questa serravano colle chiavi; e le dette chiavi, poi appresso [p. 324 modifica] l’attaccavano allo anello dell’uscio, acciò che gli cavalieri i quali v’arrivassoro, egli truovino loro bisogna. E in tale manera, gli cavalieri a quel tempo sí si metteano alla ventura, e andavano affrancando il mondo, ed erano serviti; e per loro, tutte le contrade erano sicure e riposate. (Cap. LVII).

8 . — La Tavola rotonda.

E stando lo re Artus e sua corte, e dimostrando grande allegrezza di quella ritornata; le tavole furono messe, e, donata l’acqua alle mani, sedettono al mangiare, e ciascuno per sé in suo luogo ordinato. Imperò che sapere dovete, che nella corte dello re Artus erano principalmente quattro maniere sedie. Lo primo era appellato seggio periglioso, e li non sedea niuna persona; imperò che Merlino profetezzò che chi vi sedea, tramazzava e magagnavasi d’alcuno membro, salvo se non fosse cavaliere vergine, lo quale per sua verginitade traesse a fine le avventure dello Sangrandale (e questi fue messer Galasso, figlio di messer Lancialotto; lo quale giá era nato e allevavasi a uno grande munistero di dame): el secondo, seggio reale; e quivi sedeva lo re Artus: e ’l terzo, seggio avventuroso; e qui sedevano gli cavalieri della aventura, gli quali nelle grandi festivitá non si poneano a tavola se non aveano novelle nuove, e non rifiutavano battaglia; e ’l quarto era seggio minus proides e qui sedeano cavalieri gli quali per alcuno accidente non si metteano in avventura. E queste quattro maniere erano in una grande sala del palagio, tutta dipinta e storiata a dame e a damigelle e ad altre nobili figure; e nel mezzo della sala era una grossa colonna di diaspro, fatta a tre partite; e nel terzo di sotto aveva trenta cannelle a oro e argento, le quali sempre rendeano acqua rosata per lavare gli loro visaggi; e a ogni cannella si aveva una benda di seta candidissima e bianca; e nel terzo di mezzo erano ordinati nobili e begli specchi da specchiarsi; ed al terzo di sopra aveva lettere intagliate, le quali diceano in tale maniera: «A tutti gli cavalieri erranti [p. 325 modifica] gli quali disiano onore di cavalleria. Io vi foe manifesto che lo amore si è una cosa e una via la quale mena altrui a prodezza e a cortesia; e lo amore si è riposo d’ogni fatica. E imperò voi che disiate onore e nominanza di prodezza, servite bene e lealmente l’amore, e abbiate innamorato lo vostro cuore». E a ogni cavaliere errante conveniva sapere nobilmente lettere; sí che andava ogni mattina alla colonna, e si si lavava e specchiava suo visaggio, e leggeva quegli versi sopra scritti. E per tale usanza era appellata quivi la Tavola Ritonda. E nel seggio lá ove mangiava lo re con alcuno barone, era questa usanza: che avendo egli buone novelle, sí si beveva con coppe d’oro; e per lo contrario, a coppe d’ariento. E ’l palagio e la sala e ’l cerchiòvito era tutto ritondo; che sedendo a tavola, l’uno vedeva l’altro per viso; e quando erano quivi dentro, erano tutti tondi, cioè una cosa; e tutti stavano a una posta e fediano a uno segno, cioè che stavano alla posta della ubbidienza, e traevano a uno segno, cioè allo amore. E tutti erano cavalieri innamorati, campati e nominati di prodezze per tutto quanto il mondo. E di ciascuno paese veníano quivi a provare ciascuno sua persona in fatti d’arme; e provavansi piú e piú volte; e potea esser trovato tanto pro’, ch’era ricevuto per cavaliere errante; e alcuno che non si trovava tanto pro’, sí si metteva in avventura sí come cavaliere straniero, però che cavaliere errante non poteva egli giá essere. S’egli aveva cura di reame o di cittá o di castello, non poteva ancora essere ligittimamente, acciò che la sollecitudine della avarizia nollo traesse della prodezza. E anche cavaliere errante non poteva essere s’egli aveva mogliera, acciò che la cura e la pigrizia nollo traesse della prodezza. E da sé egli dovea cessare ogni altro pensiere, di non avere cura né a rendite né a ricchezze né a tesoro né a cosa che ’n sua cavalleria lo potesse impedimentire. E ora lascia lo conto di parlare dello re Artus e degli cavalieri della Tavola Ritonda, e si conteremo de’ fatti di messer Tristano. (Cap. LXII). [p. 326 modifica]

9. — Il pino.

E dimorando in tale maniera, Tristano giorno e notte in altro non potea pensare se non com’egli potesse parlare alla Reina; e tanto aoperoe che eglino s’andarono a parlare una sera sotto il pino lo quale era nel mezzo del giardino della Reina. Essendo insieme, l’uno desiosamente abbracciava l’altro, e con grande disio l’uno si languiva per l’altro. E Isotta si si doleva molto perché messer Tristano tanto tempo l’aveva intralasciata. E Tristano si scusa a lei e dice che mai no le aveva di suo amore affalsato. E dimorando gli due amanti e dolendosi della troppa contumace, la volontá paceficò loro discordia con grande disianza e piacere d’amore. E tutte le volte che a loro piaceva, s’andavano sotto a quel pino a parlare insieme. E tanto v’andarono che allo Re Marco fue spiato, e per alcuno gli era detto. Non però ch’egli fermamente lo credesse, ma per esserne poi certo, pensò una grande maestria. Ché venendo una sera, lo Re se n’andò al giardino e celatamente si montò in su quello pino, e quivi aspetta e fra sé dice: «Io voglio sapere se questo sará veritá o no» che sua dama Isotta ancora lo tradisca. In tale maniera istando un poco, ecco la Reina uscire per uno picciolo sportello del palagio, e viensene allo giardino. E allora Tristano dismonta per lo muro del chiostro e viensene verso lo pino. E a quel punto lo lume della luna era bello e molto chiaro. E mirando gli due amanti nell’ombra del pino, vidonvi una spera d’uomo; e di ciò amendue dubitarono molto. E a quel punto la Reina, ch’era savia, sí s’affisse, dicendo: «Sire Tristano, fommi grande maraviglia quando per me avete mandato a cosí fatta ora. Giá sapete voi lo incarco che io ho sofferto e patito per voi, e sapete ch’io sono stata accusata a cosí grande torto di cosa che giamai non fu né potrebbe essere né intervenire per tutto l’oro del mondo. Imperoch’io non soe dama al mondo, né credo sia, che tanto ami suo sire quanto io amo lo mio. Ma [p. 327 modifica] solo una cosa è quella per la quale la doglia passa e vae via tostamente; imperoché lá dove è la veritá, sempre rimane il vero in suo stato. Ché, quando lo mio signore lo Re saprae ben la veritá di mia lianza, egli giá non crederrae piú a malvagi consiglieri, ma amerá piú me che altra persona. Ché in buona fé io posso con veritá giurare che io non diedi giammai mio amore a persona veruna, né animo ho avuto di dare, se non a colui il quale ebbe lo mio pulcellaggio. E se lo Re sapesse ch’io fossi ora qui, egli mi farebbe ardere, e neuna persona lo potrebbe trarre di sospetto. Ora mi dite perché a cotale ora voi mandaste per me; ché, certo, l’ora non fue bella né convenevole, e per altra fiata per nulla maniera ci verrei». E Tristano disse: «Reina, io so bene che per me avete patito pena e carco; ma ciò non è stato per mio difetto, ché voi sapete bene che da me voi non aveste giamai altro che buono consiglio e conforto, peroché lo onore e la vergogna dello Re sarebbe mia propria. E bene doveria egli pensare che, se io amata v’avessi di folle amore, io non vi arei donata a lui, ma io v’averei tenuta per me. Ma lo Re ciò non crede, ma crede a coloro che per invidia mi vorrebbero vedere distrutto. E sappiate che io mandai per voi per cosí fatto convenente: che io mi voglio ritornare nella Petitta Brettagna...». E allora l’uno si diparte da l’altro, mostrando d’essere schifati nella vista. E assai erano addolorati perché non aveano potuto parlare insieme d’altre cose piú segrete. E lo Re, avendo ascoltato loro parlamento, dismonta del pino, dicendo infra sé ched e’ non fu giamai la veritá che infra Tristano e Isotta fosse mai niuno rio pensamento. (Cap. LXIIII).

10. — Pazzia di Tristano.

«A voi, Ghedino, figliuolo dello re della Petitta Brettagna, io Isotta, reina di Cornovaglia. Ricevetti una vostra lettera, e solennemente io la lessi e con grande amore. Imperò io sí vi mando pregando che voi vi confortiate e stiate di buono [p. 328 modifica] cuore e donatevi allegrezza; ché, quando voi sarete guarito, io si vi parlerò, e volentieri, di cosa che io non vi parlerei or al presente.»

E letta che Ghedino ebbe la lettera, tutto si conforta, credendo che Isotta lui amasse del fino amore, e molto veniva allora migliorando; e continuo egli si portava questa lettera nella scarsella, ché di ciò egli prendeva grande conforto. E dimorando in tale maniera da venti giorni, e uno giorno Tristano andoe nella camera di Ghedino per parlare con lui, com’era usato, e truovalo ch’egli dormiva; e la lettera, che Isotta mandata gli aveva, era sopra il guanciale dello letto. E allora Tristano sí la prese in sua mano, e tantosto, mirandola, conobbe per cui era stata scritta; e leggendola, divenne tutto smarrito e pallido, dicendo in fra se stesso: «Ahi!, bella Isotta, perché m’hai cosí ingannato? Ahi!, sire Iddio, or come puote essere tanto fallo?». E allora egli appella Ghedino; e com’egli fue desto, e Tristano gli disse: «Cognato, cognato, tu m’hai ingannato; e molto mi confidava io di te, e tu m’hai morto e tradito». E in su quel punto, Tristano mette mano a uno coltello per ferirlo; e veramente Tristano l’arebbe morto in su quel punto, tanto era irato e sospettoso di questo fallo. Ma Ghedino, per la grande paura ch’egli ebbe, non pare miga malato; anzi, prestamente egli si gitta a terra d’una finestra, e lasciasi cadere nello giardino dinanzi allo re e alla reina, i quali giucavano in quel punto insieme, per diletto, a scacchi. Lo re pensava che Ghedino avesse dormito sopra la finestra, e fecelo tantosto prendere in braccio e mettere in uno ricco letto a riposare; ch’egli era tutto stordito. E Tristano, per lo grande dolore, era uscito fuori di sua memoria, e non vedea e non sentiva, e divenne sí come uomo affatturato; e vassene allora nella sala e sí s’arma di tutte sue armi, ed era molto crucciato. E la reina vedendolo tanto tristo e malinconoso, domandollo che era ciò di sua malinconia; e Tristano allora disse: «Ahi!, Isotta, or come è potuto intervenire che voi m’avete cosí ingannato e tradito? Or chi lo potrebbe credere questo? chi, che voi abbandonassi Tristano e lasciaste per Ghedino? [p. 329 modifica] Certo, io non posso credere né pensare tanta malvagitá. Ora, io non abbandonai mai voi per veruna persona che al mondo sia. Ahi, lasso! Ora veggio io bene che io sono condotto a tale partito e a tale punto che mai gioia né bene lo mio core né mia persona debbe avere. Io mi veggio a tale condotto che io sono presso alla morte». Tale lamento faceva Tristano alla reina, che mai lo simile udito non fue; ma la reina allora si voleva scusare e dire veramente con effetto la bisogna com’ella era stata.

Adunque, era Tristano allora tanto infiammato dell’ira per questo caso, che nulla egli intendeva: anzi, cosí crucciato, si diparte quindi e vassene nella mastra stalla e monta in su qualunque palafreno egli incontra primiere; e appresso egli esce della cittá, e cavalca tanto quel giorno e l’altro, senza mangiare e bere, ch’egli si truova nella grande valle del grande diserto d’Urgano. E allora lascia andare suo cavallo, e gitta via sue armi, e stracciasi sua roba, e pelasi suoi biondi capelli, e squarciasi suo bello viso; e sempre, per lo grande dolore si facea lo maggiore pianto del mondo. E si andava ignudo e scalzo, e non beveva e non mangiava; e, per le molte lagrime e per lo molto digiuno, la sustanzia della natura gli mancava fortemente, e in tutto egli perdé suo senno e conoscimento; e a tale si condusse e venne ch’egli pasceva l’erba. E alcuna fiata egli prendeva alcuna fiera con mano per qualche avventura; della quale egli cosí cruda sí ne mangiava. Egli era divenuto nero, livido, magro; e a tale era condotto che la madre che lo portoe né altri non lo poriano mai avere riconosciuto. Egli sí si riduceva molto a una fontana, alla quale fontana usavano certi pastori. Costoro alcuna fiata gli davano del pane ed altre cosette; e cosí alcuna volta avvenne ch’eglino gli diedero delle bastonate: non per tanto, però, che Tristano conoscesse chi gli faceva bene o male; però che egli non si ricordava di niuna cosa che intervenuta gli fosse per tempo passato, né che mai fosse stato cavaliere né in fatti d’arme; e ancora egli non si ricordava della bella Isotta né ancora dello re Marco; ed era uscito sí di fuori della sua [p. 330 modifica] memoria che di niuna cosa che intervenuta gli fosse al mondo egli non si ricordava. E dimoroe Tristano in tale manera bene da sette mesi. E stando uno giorno alla fontana cogli detti pastori, sí v’arrivarono otto lioni; e gli pastori per paura tutti fuggirono e lasciarono le loro mandrie; e solo Tristano rimase quivi nella compagnia di cinque cani, gli quali erano forti e grossi mastini. E gli lioni sí danno allora in fra la mandria, e molti n’uccisoro, e mangiarono quello che volsoro, e uccisoro quattro cani; e l’altro per paura s’accosta presso Tristano, e lungo lui stava. E Tristano, vedendo ciò, si prende una mazza grande e dura e forte, la quale v’era rimasa, e trae a fedire fra questi lioni per tale modo e via che degli otto egli con questo grande bastone n’uccise cinque, e gli altri fuggirono per quello grande diserto. E ritornando gli pastori e trovando i cani morti e questi lioni, di ciò si fanno grande maraviglia; e per tale cagione, migliore parte del pane eglino gli davano che non gli davano da prima. E Tristano non diceva niente, anzi mangiava a modo di pazzo: non di meno, gli pastori gli cominciaro a volergli bene e amavallo; e non però ch’egli conoscesse chi gli faceva bene né onore, o bene o male. E per tale, Tristano dimorò a questo modo per spazio di sette mesi; e né lo re Marco né ancor la reina Isotta né altra persona non sapevano tale convenente: anzi ciascuno si pensava che Tristano si fosse messo in avventura per alcuno paese; ma molto si maravigliavano ch’egli non aveva portato con seco la sua buona spada, né cavalcato suo buono cavallo, com’egli era usato per altro tempo.

Li mastri delle storie pongono, che, a uno giorno, lo re Marco con suoi baroni e cavalieri andavano cacciando per lo grande diserto d’Urgano; e cacciando allora per tutti quegli paesi piú di dodici giorni, si pervenne una mattina lo re Marco solo e arrivò alla fontana Serpilina, lá dove dimorava Tristano con quegli pastori. E lo re, che era assai lasso, si scavalca alla detta fontana per rinfrescarsi; e, mirando, egli vide giacere il pazzo tutto ignudo; e sí dormiva quivi presso, ed era la piú vituperevole cosa del mondo a vederlo. E lo re domanda [p. 331 modifica] i pastori, chi era quello malaugurato. Gli pastori allora rispuosono, che questi sí era uno folle, lo quale usava alcuna fiata con loro. E riposato che lo re fu un poco, egli si pone a bocca un corno d’aulifante, e sí lo suona per grande pezza, acciò che sua compagnia lo ritrovasse e venisse a lui. Allora lo folle sí si desta molto sbigottito, e si cominciò a gridare: «Piglia piglia, corri corri, a loro a loro!». E sí diceva quello, che a bocca gli venia; e gli pastori, dubitando che quello tanto gridare non rincrescesse allo re, sí cominciano a batter Tristano, e davangli di grande bastonate; e tanto gli danno, che lo fecero, in mal’ora per loro, crucciare; ché, non potendo egli piú sofferire, si lancia tra loro, e aggrappa a uno di mano uno grosso e grande bastone, e sí gli trae a fedire per si fatto modo e sí crucciato, che con quello bastone egli degli diciotto n’uccise sette, e gli altri per grande paura di lui tutti fuggirono. E lo re, vedendo, ebbe grande paura, e pone mano alla spada e mettesi a uno certo cantone presso alla fontana. E a tanto, ecco quivi giugnere messer Adriette e altri cavalieri, e domandavano chi aveva morti quegli pastori; e lo re allora disse: «Quello folle gli ha morti». Allora costoro di ciò si fanno grande maraviglia, e Adriette prega lo re, che meni lo folle alla cittá. E allora vanno a lui e donangli del pane e della carne; e tanto lo lusingano e fannogli agevolezza, che egli se ne va dopo a loro. E tanto cavalcano, che furono alla cittá di Tintoille: non per tanto che niuna persona ancora raffigurasse Tristano, tanto era contraffatto di sua persona: ed egli non di meno non sapeva dov’egli s’andava, né dov’egli era, né di stare, né d’andare. Andando Tristano folle per la cittade, egli scontrò uno bastagio, il quale guidava uno muletto caricato d’orci da acqua: onde lo mulo si sospinse lo folle alquanto, sí come bestia. Di questo Tristano folle molto si crucciò a quel punto, e per tale egli prese quello bastagio e si lo lieva in alto e percuotelo sopra gli orci per si grande forza, ch’egli gli fece rompere l’osso e ’l cuore; e uccise lo muletto ancora, e quelle orcia tutte ruppe; e questo fece abbiendo lo bastagio in mano. E lo re e altri baroni, che ciò [p. 332 modifica] viddero, si fanno grande maraviglia di tanta e sí orribile forza, come lo folle dimostrava, e tanto fanno con molte lusinghe e certi modi, che lo condussero allo palagio, e sí lo rinchiusero nella grande sala. Ma alcuna fiata, ch’egli andava fuori, egli andava guastando e rompendo le cose d’altrui; e se trovava cavalli e uomini, gittavagli a terra, guastava i cavalli, e niuna persona l’osava per nulla maniera pararglisi davanti; e non di meno alcuna fiata pur riceveva delle bastonate per le spalle. E continuo egli andava ignudo; perché, com’egli aveva i vestimenti, cosí subito egli tutti gli squarciava, e’ pezzi gittava via e ancora cogli denti li guastava. Ed era diventato livido, nero, la piú vituperata cosa del mondo a vederlo. E in tale maniera egli dimorò per la cittá da sei giorni; ma lo re lo fece serrare nella sala, perché troppo gli faceva grande dannaggio, però che giá egli aveva morte piú di ventiquattro persone colle pugna e colle pietre e con mazze. E fuggendo Tristano uno giorno, uscissi della sala una mattina, e tantosto va giú per le scale; e appresso quivi sí era uno scudiero, il quale forbiva e conciava lo buono destriere di Tristano. E come il cavallo vidde lo folle, così conobbe ch’egli era lo suo signore, e tantosto egli comincia a razzare, a nitrire e a menare tale tempesta, che lo famiglio in nulla guisa non lo potea né tenere né mantenere. Di che lo scudiere, vogliendo pur farsi piú gagliardo, piglia lo cavallo, e credesi per forza tenerlo a freno. Allora lo cavallo andogli addosso, alzando i piedi per sí fatta maniera, che lo misse quivi morto alla terra, e spezza redini e capestri, con che era legato a uno grosso anello, e tantosto se ne va incontro allo folle e sale da sette scaloni della scala, e amendue gli piedi dinanzi pose sulle spalle al folle. E lo folle prende di pietre grosse e ciò che a mano gli viene, e dava al cavallo: ma per male che ’l folle gli facesse, il cavallo non si voleva dipartire da lui, anzi piú gli s’accostava e piú gli faceva buona festa, e fuggendo, se ne va nella sala; e in tale maniera stette per piú giorni. E uno giorno della camera della reina uscí la cucciorella Idonia, e veggendo lo folle, comincia a latrare, e sí lo conobbe, e con molta [p. 333 modifica] grande festa sí lo cominciò a leccare, e faceagli lo maggior onore del mondo; e per male ch’egli le facesse, giá ella non si voleva da lui partire. E lo re, mirando a quello che la cucciolina faceva, si maraviglia; e per lo molto riguardare che lo re faceva, sí gli venne raffigurato suo nipote Tristano, e piú lo raffigurò a uno segno, il quale egli aveva nel suo braccio manco. E in quel punto, lo re cominciò a fare lo maggiore pianto del mondo, dicendo: «Ahi sire Iddio! ahi lasso a me! Quanto sono stato disavventurato, da poi che una cucciolina ha piú tosto riconosciuto suo signore per signore, che io non lo ho riconosciuto per mio nipote, sí com’egli è». E allora si lieva uno mantello dal collo, e sí ne ammanta messer Tristano, dicendo: «Ahi sire Iddio, a che se’ tu venuto, nipote mio!». E quando gli baroni si raffigurarono Tristano, cominciarono a fare lo maggiore pianto del mondo e a menare grande dolore, e teneasi beato chi lo poteva toccare e fargli bene. (Capp. LXX e LXXI).

11. — Varie avventure di Tristano.

E cavalcando Tristano in tale maniera, piagnendo e lamentandosi, per lo grande dolore non si sentiva. E allora si riscontra in due cavalieri erranti: l’uno era messer Chienso, lo siniscalco, e l’altro messer Dodinello, lo Selvaggio; e allora messer Chienso appella Tristano alla giostra, e T. per lo grande dolore non si sentia e nollo intendea. Allora Chienso lo trae a ferire, e ferillo sopra lo scudo per tale forza, ch’egli lo mandò a terra con tutto lo cavallo. E di ciò Tristano ebbe grande dolore, dicendo: «Per mia fé, sire Chienso, ch’egli è la vostra grande villania, avendomi voi ferito in tale maniera». Messer Chienso, riconoscendo messer Tristano allo parlare, fu lo piú tristo cavaliere del mondo; e piagnendo se ne va ginocchione dinanzi a Tristano, sí gli domanda perdonanza. E Tristano che non curava a quel punto di cosa che gl’intervenisse, sí gli perdona; e priegalo che, s’egli iscontra Lancialotto, che gli dica da sua parte ch’egli non fu mai tanto allegro «quanto [p. 334 modifica] io sono al presente tristo e dolente». Allora l’uno si diparte dall’altro; e cavalcando Tristano travia a una fontana, e quivi dismonta e si riposa. E stato ch’egli fu un poco, ed eccoti venire un cavaliere errante, lo quale appella Tristano alla giostra; e Tristano risponde che non avea talento di giostrare, imperò che avea perduta la possanza e la vertú. E ’l cavaliere dello scudo vermiglio, lo quale era appellato messer Astore di Mare, sí disse a Tristano: «Sire, come! non sete voi cavaliere erante e avventuroso?». «Per mon fe’» disse Tristano, «che io sono il piú disavventuroso cavaliere del mondo!». «E donde sete voi?» ciò disse Astore; e Tristano disse ch’era dello Reame di Cornovaglia. E allora Astore per piú viltá e dispetto si prese lo scudo di Tristano, che era appiccato al’albero, e gittollo nella fonte, dicendo che ciò faceva a dispetto dello re Marco e di quello paese.

E Tristano disse: «Cavaliere, voi fate una gran villania; ma pregovi che voi ne lo traiate e rappiccatelo; e sará intanto amendata mia onta». E ’l cavaliere di tali parole giá non curava niente; anzi sen’andava, facendo beffe e le maggiori risa del mondo.

Allora Tristano se ne va alla fonte e trane suo scudo, e riletteselo in braccio; e monta a cavallo e tiene dietro ad Astore, e grida dicendo: «Cavaliere, ora potete voi avere la giostra, se la volete, ché tanto l’avete desiderata».

E Astore, ridendo, volta suo destriero; e allora l’uno viene contro all’altro, e donansi due grandissimi colpi: e Astore ruppe in Tristano sua lancia, e Tristano ferí lui per tal forza, che quanto fu lunga la lancia l’abbatté alla terra. E appresso Tristano si dismonta e tragli suo scudo di braccio e gittollo nella fonte per vendicanza del suo; e appresso va a sua via.

Tutto quel giorno cavalca messer Tristano cosí pensoso, continuo piangendo. Allora scontra una donzella la quale cavalcava molto in fretta, e sí andava duramente piangendo; e portava in mano una lancia corta, con un ferro ben trinciante. Allora Tristano la domanda perch’ella piangeva, e che lancia era quella ch’ella portava, e la donzella disse: «Mia [p. 335 modifica] dama la fata Morgana si mi manda nello reame di Cornovaglia, perch’io appresenti questa lancia da sua parte allo re Marco, perché egli la porti quando va a cacciare: sappiendo ch’egli con essa trarrá a fine la fiera la quale fa tremare tutte l’altre fiere; e quella fine si ricorderá mentre che il mondo durerá. E sappiate, Cavaliere, che questo fu lo ferro che uccise Onesun mio signore; lo quale ferro vendicherá la morte di mio signore Onesun». E sappiate che la donzella contava a Tristano sua morte: imperò che Tristano con quel ferro uccise Onesun, drudo della fata Morgana; e per altro non mandava ella quella lancia allo re Marco, se non perch’ella trovava che per quello medesimo ferro doveva morire messer Tristano; e cosí fue [che] per quella ragione la fata avvelenò il detto ferro, acciò che non potesse iscampare.

E avendo la donzella contato di sua andata a Tristano, Tristano molto si maraviglia, che amistá era infra lo re Marco e la fata. E a tanto ecco quivi venire Breus sanza pietá lo quale cercava la donzella che parlava con Tristano perché le voleva far villania. Ed essendo giunto, si grida dicendo a Tristano: «Sire Cavaliere, avete voi presa questa donzella sotto la vostra guardia?». E Tristano disse di sí. «E io vi disfido» ciò disse Breus. «Siamo alla giostra!». Ed allora l’uno viene contra all’altro; ma Tristano abbatte Breus disconciamente alla terra. E a tanto ecco ivi giungere Astore di Mare, e disse a Tristano: «Cavaliere, voi mi dicesti ch’eravate di Cornovaglia; ma ciò non dimostra vostra prodezza!».

Ma Tristano a ciò non risponde; anzi se ne va alla donzella dicendo: «Dama, voi siete diliberata da questo cavaliere». Ed ella lo ringrazia assai, e poi va a sua via. Ed essendo Breus rimontato, sí ne va davanti a Tristano dicendo: «Sire Cavaliere, io vi prego che vi veniate a riposare qui appresso, a una mia rocca».

E Tristano tenne l’invito, perché l’ora era tarda; ed allora vi convitano messer Astore. E sappiate che Breus era un cavaliere erante, nipote dello re di Normelanda; e dimorava in quella rocca perch’era contrada assai diserta, e perch’egli [p. 336 modifica] non era d’una compressione con gli altri cavalieri: ch’egli era lo piú geloso cavaliere, e lo piú crudele del mondo; e aveva una sua dama, che per gelosia non la lasciava vedere a niuna persona; ed era sanza niuna cortesia. E questa sua dama aveva nome Galisena, ed era di tempo di trenta anni; e pareva di sessanta per la gran tribulazione ch’egli le dava. E non voleva che in sua corte stessi cavaliere né donzello, se non fantesche e giovani donzelle; e odiava ciascuno cavaliere che sentiva d’amore, per paura ch’avea che non amassono sua dama. E diceva che tutte le dame erano meretrici e che la sua era peggiore che l’altre.

E cavalcando i tre cavalieri in tale maniera, eglino passarono dinanzi a una bella torre, la quale era tutta dipinta e storiata; e alla finestra stava una molto bella e leggiadra donzella, la quale sonava una viuola e cantava uno sonetto. Lo quale sonetto Tristano giá fatto avea per la bella reina Isotta la bionda, quando egli la conobbe in prima d’amore nella nave, e ’l sonetto diceva cosí:

     Amore, chi ti serve ne riceve grande guiderdone,
e chi t’ama ne viene meritato di buono talento;
e non ha in sé dubio né tormento
di paura, di niuno impedimento:
tanto voi sete nobile signore;
e nobile siete sopra ogni altro diletto.

E appresso diceva un altro sonetto, lo quale Tristano fatto aveva quando Isotta sí gli fu tolta dallo re Marco, dalla torre della Savia Donzella. Il sonetto diceva cosí:

     Dolce mio amore,
rosa gentile, e angelica figura,
sopra tutte l’altre voi siete il fiore,
sí come Iddio è sopra ogni creatura.
Mercè, mia dama, del vostro servidore,
il quale si ha perduta sí nobile figura.
Dolce reina, voi ve ne siete andata,
e la mia vita è rimasa sconsolata!

[p. 337 modifica]

E Tristano udendo le parole, sí come colui che da prima l’aveva dette per colei ch’egli non poteva vedere, ed egli tramortí allora sopra l’arcione dello afferrante, e gittò uno grande sospiro, dicendo «Ahi sire Iddio, come m’ha rinnovato quella donzella mio grieve dolore!». E Breus disse: «Non pensate nelle parole di quella meretrice: ch’ella si è dama di poca bontá; e quivi la fa istare messer Calvano per mio dispetto».

E cavalcando in tale maniera, i cavalieri giunsero alla rocca di Breus, e trovarono la porta serrata; e chiamando, due donzelle gli apersono e abbassarono il ponte; e Breus comanda a tutta la sua famiglia che in niuna maniera fussi ricordato suo nome, e che niuno dicesse ch’egli avesse dama.

Ed essendo Tristano e Astore disarmati, sí si riconobbero; ed allora fannosi grandissimo onore. Ed a tanto ecco li venire due donzelle con acqua e con bende di seta, e fanno lavare a’ due cavalieri il viso e le mani; perché gli erano tutti tinti di sudore dell’arme. Ed appresso sí apportano loro due ricchi ammanti di seta; e questa fu la prima cortesia che Breus fece in questo mondo; e ciò fece Breus, perch’avendo Tristano abbattuto lui e suo cavallo se ne andava fuggendo, e Tristano lo riprese e sí gliele rimenò. E stando uno poco, Breus venne in fra gli due cavalieri e sí gli domanda di loro nome; e Astore disse: «Bell’oste, il nome di quel cavaliere no’ potete voi sapere ora; ma io per nome sono appellato Astore di Mare». Breus, intendendo sí come questi era Astore, suo proprio nemico, tutto si cambiò nel viso e partissi allora da loro con una mala volontá. E conta a una sua nipote sí come quel cavaliere di piú tempo era Astore di Mare, lo quale lo tenne in pregione piú di sei mesi «ma se io non dottassi dell’altro cavaliere, ben volentieri mi vendicherei di lui». Allora la donzella prende una arpa e vassene dinanzi agli due cavalieri; e sonato che la donzella ebbe l’arpa, e Tristano sí la prende e suonala tanto gentilmente ch’era maraviglia a udire. (Capitoli CXXIII e CXXIV). [p. 338 modifica]

12. — La fine di Tristano.

Trapassata che fu la notte e venuto il giorno, e Tristano e Isotta stando in tanta allegrezza, giucando a scacchi e cantando sotto boce un sonetto, lo quale sonetto Isotta fatto avea in quel punto per Tristano: e lo sonetto dicea cosí:

     Da poi ch’io v’ho riveduto, o vita mia,
Ogni altro diletto tengo a niente;
Ch’io per voi no’ trovavo luogo notte né dia
E non ho avuto posa veramente,
Perch’io non v’ho veduto, o anima mia.
Or ch’io vi veggio, il cuor è dilettoso
S' come mai piú fu, o viso amoroso,
Lo quale fate della notte dí;
Voi solo siete mia vita e speranza e diletto e riposo.

E cantando e giucando gli due leali amanti, e stando in tanto diletto, sí come volle la disavventuranzia, Adriet, nipote dello re Marco, passa quindi, e udendo il canto, conobbe la boce di Tristano, e allora, correndo, se ne va allo re Marco e sí gli conta la novella. E lo re Marco, sí come uomo irato, sanza niuno provvedimento, sí tolse i’ mano lo lancialotto, e vassene alla camera: e mirando per una finestra ferrata, e vedendo Tristano ch’era in giubba di seta, ed era inchinato al giuoco che egli facea con Isotta, lo quale molto gli dilettava; allora lo re, per mal talento, sí gli lanciò la lancia e ferillo nel fianco dal lato manco: e per paura che Tristano nollo vedesse, tantosto fuggí via.

Qui si puote ben dire: oh colpo doloroso, sanza pietá, d’ogni dolore e crudeltá copioso, che tanto fosti dannoso! E sentendosi messere Tristano ferito, tanto tosto conobbe che lo colpo era mortale, e con grande dolore e sospiri, sí prende commiato dalla dolente reina Isotta, la quale era assai trista e dolorata; e sí torna al castello Dinasso e tanto tosto si mise nello letto, e assai medici sí vi furono, ma niuno nolli sapea [p. 339 modifica] dare conforto; tanto era la ferita pericolosa. E sappiate che, sappiendo lo re Marco sí come Tristano era in tale maniera aggravato, alquanto se ne allegrava; ma intendendo fermamente sí come egli no’ poteva iscampare, il cuore si gl’intenerí, ed era il piú tristo re ch’avesse al mondo, e la reina Isotta era la piú trista donna che mai fosse nata, e molto disiderava che lo re la mettesse a morte. E stando ella davanti lo re e gli altri baroni, sí diceva: «Muoia lo mio amore quando morire vuole; però che lo dí che morrá Tristano, io gli farò compagnia; e se lo re e lo dolore no’ mi uccide, io medesima mi ucciderò; imperò che noi siamo istati una vita, e degna cosa è che noi siamo una morte». E no’ mangiava e no’ beveva; ché cosí come la ’nfermitá nutrica lo ’nfermo, cosí il grande dolore notricava la reina Isotta.

E vedendo Tristano sí com’egli no’ poteva campare, sí appella a sé Dinasso e sí lo manda allo re Marco, pregandolo che gli vada a parlare. E allora Dinasso se ne va a corte, e conta sua ambasciata allo re Marco; e lo re, co’ molte lagrime, abbassa la testa; una grande pezza la tenne chinata; e appresso, sí monta a cavallo con grande baronia, e va a parlare a Tristano suo nipote. Ed essendo giunto alla camera, trova che Tristano si lamentava duramente, sí come colui che moriva assai male volentieri. E vedendo Tristano lo re sí disse: «Caro mio zio, voi siate lo ben venuto, che siete venuto alla mia dolorosa festa, la quale avete tanto desiderata, e ora avete a compimento vostra gioia, imperò che tosto vederete morto il vostro Tristano. Ma, per avventura, ancora ne sarete pentuto. Ma, poi che cosí è intervenuto, non può esser altro; e imperò io lo vi perdono, e priego voi che perdonate a me ogni offesa ch’io incontro a di voi avessi fatta». E lo re, con grande pianto sí gli perdona, dicendo: «Bello mio nepote, siete voi a tal partito, ch’egli vi convegna morire?». «sí sono,» ciò disse Tristano; «e vedete a che sono venute le mie braccia, le quali facevano tanto d’arme acciò che torto non fosse fatto ad altrui. Ma d’una cosa vi voglio pregare, dolce mio zio: che voi mi facciate un dono, lo quale io dimanderoe; e sí vi dico [p. 340 modifica] che questo sera l’ultimo dono che ’l vostro Tristano vi debba mai domandare». E lo re disse: «O caro mio nipote, o mantenitore di mio reame, o difenditore di mia corona, addomandate arditamente quello che piú v’è in piacere». E Tristano disse: «Io vi dimando in cortesia, facciate venire qui la reina Isotta, acciò ch’ella sia alla mia morte». E lo re manda tosto per lei XII baroni; e allora Isotta venne, tuttavia piagnendo, e pregando Iddio che delle due cose facesse l’una: o che le desse la morte, o che scampasse Tristano; imperò che mai uomo non fu tanto disideroso di fare sua vendetta, quanto ella era di morire. E Tristano vedendo Isotta tanto dolente, fugli quello maggiore dolore assai che la morte che sofferia; e affrisse tanto dentro, che ’l sangue lo quale di continovo uscía della ferita, sí gli istrisse al cuore, e alquanto gli diede forza e costanza: per la quale forza, secondo che pone lo libro, vivette tre ore piú; e ciò gli fu maggiore pena, ché pure morire gli convenia. E sappiate che lo pianto e lo lamento della reina Isotta quasi non si intendea: tanto l’era giá mancata la natura; e piú si consumava dentro, che no’ mostrava di fuori la poca stabolitá che v’era rimasa. E Tristano, vedendo Isotta, disse: «Bene venga la mia dilettosa speranza. Ma vostra venuta è tarda a mia guarigione; ch’io sí vi dico che voi vedrete tosto morto il vostro Tristano, lo quale avete tanto amato in questo mondo». E la reina disse: «O cara mia speranza, dunque sete voi a tal partito, che morire vi conviene?». E detto che la reina ebbe le parole, sí cadde in terra trangosciata, e astrisse tanto, che neuna maniera potea parlare. (Cap. CXXVII).

13. — Morte di Tristano e Isotta.

Ora dice lo conto e pone la piatosa storia, che dappoi che lo leale messer Tristano ebbe rendute l’armi e chiamatosi vinto, sí si volta inverso la dolente reina Isotta, e presela a riguardare molto teneramente, e pigliavasi parte del suo piacente viso amoroso, lo quale tanto avea amato in questo mondo; [p. 341 modifica] e appresso Tristano disse: «O gentile reina, dolce mia dama e corale mio amore e leale mio conforto, venuto è lo tempo che lo tuo Tristano no’ puote piú vivere. Or come farete voi dopo la mia morte? Lasceretemi voi in tale maniera dipartire da voi? Or, ché no’ mi fate compagnia, acciò che le nostre anime sieno insieme in quello altro mondo? E io ho fede e speranza i’ Dio, che ci ará misericordia delle nostre offese». E la reina, udendo il dolce parlare di Tristano, per lo grande dolore cadde in terra tramortita, e non si sentia né polso né vena; e lo suo viso colorito quanto la rosa, era pallido e oscuro e mortificato, ed era sanza neuno conforto. E sentendosi, di lei uscí boci sottili, dicendo: «Amor mio Tristano, per voi mia vita sará poca. Imperò vi priego che voi no’ lasciate dopo voi questa dolente, la quale per voi è presso al morire; la quale morte molto desidero, dappoi che la vita voi abbandona; la quale morte mi sará vita, essendo io nella vostra leale compagnia». E a quel punto, Tristano si volta inverso lo re Marco, dicendo: «Sire, ora non sono io piú quello Tristano lo quale voi tanto ridottavate; ché oggi ará fine la grande guerra che in fra voi e me è stata: e ciò è intervenuto per uno solo colpo che m’avete donato. Ma quello ch’è suto, no’ può essere altro; e io sí ve lo perdono, acciò che Iddio perdoni a me ogni offesa». E voltandosi d’intorno, a tutti domandava perdonanza, dicendo: «Signori, io vi raccomando a Dio; e la mia anima vi sia raccomandata». E appresso disse: «O crudele dolore, lo quale passi ogni altra pena! Ché non è la metá dolore il dipartire, che lo lasciare». Al detto punto, Tristano si rivolge inverso la reina Isotta, dicendo: «Dolce mia dama, deh piacciavi di farmi compagnia e di morire meco, acciò che l’uno non senta dolore per l’altro». E la reina Isotta disse: «Dolce mio amore Tristano, ciò fo io volentieri, e sanza me voi non vi potrete dipartire; ché io sono giá presso alla morte, tanto la natura m’è mancata». E Tristano, conoscendo sí come ella malvolontieri rimaneva dopo a lui, sí disse allora: «O dolce reina, ora m’abbracciate, acciò che mia fine sia nelle vostre dolci braccia; ché sendo io con voi, non sentirò pena [p. 342 modifica] veruna». E allora la bella Isotta, la gentile reina, la cortese dama, si abbraccia messer Tristano; e Tristano disse: «Ora non curo io di mia morte, e ho dimenticato ogni dolore, dappoi ch’io sono collo mio dolce amore». E stando insieme in tale maniera abbracciati, che l’uno era contento di morire per l’altro; e a quel punto non per istretta né per niuna forza fatta, ma per debolezza e per proprio dolore, e con piacere e diletto sí dell’uno e dell’altro, amenduni li leati amanti passarono di questa vita, e le loro anime si dipartirono del corpo. E vero è che, secondo che pone il nostro libro, la reina morí innanzi che Tristano uno attimo di poco d’ora, e messer Tristano morí appresso. E però, con veritá possiamo dire che Isotta morí perchè vedeva morire Tristano suo drudo, e Tristano morí perché sentí morta sua speranza Isotta: chè, secondo che pongono i maestri delle storie, che Tristano sarebbe stato vivo una ora e piú; se non per tanto che lo dolore della reina Isotta morta, sí gli si strinse al cuore, e ’l calore e la sustanza che gli era rimasa dentro sí perdé lo conforto della natura e delle circustanze e delle veni.

Morti sono in braccio in braccio, a viso a viso, gli due leali amanti, gli quali tanto s’amarono in questo misero mondo; e quegli che tanto furono leali, che, mentre ch’egli vivettono, mai per loro amore non fue affalsato. (Cap. CXXIX).

14. — Sepoltura di Tristano e Isotta.

Conta la vera storia e pruovano piú persone, che compiuto l’anno, in quel dí subitamente, cioè dal dí che Tristano e Isotta furono seppelliti, nel pillo si nacque una vite, la quale avea due barbe o vero radici; e l’una era barbicata nel cuore di Tristano, e l’altra nel cuore di Isotta; e le due radici feceno uno pedale, lo quale era pieno di fiori e di foglie, e uscía del pillo e facea grande meriggiana sopra le due imagini delli due amanti. E la detta vite faceva uve di tre maniere; cioè in fiore e acerba e matura; a dimostrare che negli due [p. 343 modifica] leali amanti furono tre nature: imperò ch’eglino furono fiore di cortesia e di bellezza e di gentilezza; e furono acerbi in quanto e’ ricevettono molta tabulazione; e furono maturi e dolci, imperò ch’el loro diletto fu tanto, che no’ curavano di neuna tribulazione. E fu quell’albero vite, a significare che sí come la vite fae frutto e inebria altrui, cosí la vita di Tristano e Isotta fu albero d’amore, e appresso il quale confortava e inebriava ogni fine amante.

E soppelliti che furono gli due leali amanti, e fatto per loro lo maggiore lamento del mondo, e lo re Marco diceva: «Ahi bello mio nepote Tristano, quanti saranno quelli che oggimai conturberanno mio stato, li quali lasciavano per vostra temenza! Ché quando lo re d’Irlanda saprá vostra morte, sí vorrá che siamo servi, sí come fummo mai per altri temporali: e quando lo saprá lo re Artus e lo re Governale di Leonis, e Lancialottoe gli altri cavalieri erranti sí prenderanno vengianza sopra di me e sopra mio reame. Ahi, bello mio nepote, quanto per voi è tristo lo mio cuore! che io conosco che, sí come lo mio reame fu per voi diliberato, e tratto di servitudine, cosí per vostra morte, lo reame sará distrutto e le genti consumate, e amici e nemici prenderanno vengianza sopra di me, sappiendo sí come io sono stato cagione di sí grande dannaggio». E lo lamento durò da XXX giorni, che tutti gli baroni sedevano davante la grande chiesa dal mattino infino a ora di terza, e da nona per infino a ora di vespro, tutti colli loro cappucci in su gli occhi; e’ varvassori e gli borgesi stavano tutti scapigliati, e tutti mangiavano sanza tovaglia; e gli baroni e li cavalieri facevano robe di nero per un anno, e cosí faceano donzelli e altra buona gente: e durò quella scuritá tutto quello anno. E quelle furono le prime robe di nero che fossono al mondo; e anche lo re Marco e tutte dame di paraggio si vestirono a nero: e questa scuritá fu fatta per amore del buon messer Tristano e di Isotta. (Cap. CXXXI).