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XVI XVIII

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XVII. — In questa parte dice lo conto che quando T. vide che lo re Marco non rispuose agli ambasciadori né nesuno deli suoi cavalieri, incominciò a diventare argoglioso, e incontanente si levoe suso in piede e inginocchiossi davanti alo re Marco e disse alo re Marco: «Io sono istato in vostra corte, sí come voi sapete. Avegna Iddio ch’io non hoe servito di domandare dono, il quale io vi voglio addomandare, ma tutta fiata io si vi voglio pregare che voi mi dobiate fare cavaliere». E lo re Marco si rispuose e disse: «Bene vorrei che ti fossi indugiato a farti ora cavaliere, perché io ti vorrei fare per magiore agio e con via maggiore onore. Ma dappoi che tu vuogli che io ti faccia ora, ed io si ti farò e volontieri». E allora T. lo ringrazia assai. E incontanente comanda alo [p. 25 modifica] siniscalco ch’apparechi tutte quelle cose che facciano bisogno, imperciò ch’alo matino lo vuole fare cavaliere. E tutta la notte vegghia T. nela ecresia, sí come iera loro usanza, e fue accompagnato dali cavalieri, e al matino lo fece cavaliere a grand’onore. E dappoi che fue fatto cavaliere, vennero al palagio: ma tuttavia dice la giente che Dio non fece unqua piú bello cavaliere di lui e tutto lo giorno armeggiano cavalieri e damigelli per amore di T. E maggiore allegrezza avrebero fatta, se no fosse per la tristizia ch’egli aveano.

E lá ov’egli ierano in tale allegrezza e li ambasciadori tornarono e dissero: «Re Marco, come risponde tu del trebuto?». E lo re Marco non rispuose né alcuno deli suoi cavalieri. E T., vedendo che lo re Marco non rispondea, levossi ritto e disse agli ambasciadori: «Se gli nostri anticessori pagarono lo trebuto a quegli d’Irlanda, e noi che siemo ora no lo volemo pagare. E s’egli vuole pur dire che noi dobiamo pur pagare lo trebuto, io l’appello ala battaglia e mostrerogli per forza d’arme si come noi no lo dobiamo pagare». Ma quando gli ambasciadori intessero le parole che T. avea dette, dissero: «Re Marco, dice ’gli per vostra volontá lo cavaliere quello che dice?». Ed egli rispuose e disse che sie. E T. s’inginochia davanti alo re e dissegli: «Messer, donatemi lo guanto dela battaglia col’Amoroldo». E allora lo re si gli diede lo guanto e T. ringrazia lo re. E gli ambasciadori dissero: «Chi siete voi che prendete la battaglia sopra di noi? perché l’Amoroldo non intrerebe al campo per cosí alta battaglia, se voi non foste [cavaliere] di legnaggio». E T. disse: «Per ciò non lascierá egli di combattere con meco, ché s’egli è cavaliere e io sono cavaliere, e s’egli è figliuolo di re ed io fui figliuolo di re e fui figlio deio re Meliadus di Leonois e lo re Marco che qui è è mio zio. E imperciò la battaglia giá non rimarae ch’ella non sia intra noi due». E allora si partirono li cavalieri e tornarono al’Amoroldo e dissero: «Uno cavaliere è fatto oggi nela corte del re Marco, il quale v’apella che vuole intrare con voi al campo per questo trebuto, perché dice che non è ragione che lo trebuto eglino vi debiano dare, ed è [p. 26 modifica] lo piú bello cavaliere che Dio facesse giamai». E allora disse l’Amoroldo: «S’egli è fatto oggi cavaliere novello e domane sarae morto lo cavaliere novello». E poi disse: «Avete voi istanziato colá ove dee esser la battaglia?». E li cavalieri rispuosero e dissero di noe. Allora disse l’Amoroldo: «Tornate a corte e istanziate lá ove dee essere la battaglia e ’l die e istabilitela fermamente». Allora tornarono li cavalieri a corte, e due cavalieri del reame di Longres ch’ierano in compagnia del’Amoroldo e andarono ala corte del re per vedere T. E dappoi che fuerono ala corte, li cavalieri dissero a T.: «Ove volete voi che sia la battaglia istabilita?». E Tristano disse: «Io voglio che sia istabilita in una isola di mare, la quale è presso di quie».