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La giovinezza - XX. Impressioni politiche. Zio Peppe

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XX

IMPRESSIONI POLITICHE. ZIO PEPPE

Ripigliai le lezioni con brio. Tutti mi facevano complimenti sulla mia buona cera. Molti furono i nuovi venuti, nessuno m’aveva lasciato, e mi si stringevano intorno con le facce ilari, dove si leggeva la sicurezza di fare una buon’annata. Il primo corso era stato giudicato novissimo, e, al grido, parecchi venivano tirati anche da curiosità. Io mi sentii inetto a ripetermi, e volli dare qualcosa di nuovo. Feci un corso sulla lingua.

Intanto non avevo intermessa la lettura dei giornali francesi. Stavo qualche ora nel Caffè del Gigante. Avevo assistito con grande interesse alla lotta parlamentare tra il conte Molé e la coalizione, dove primeggiavano Guizot e Thiers, collegati di occasione. Quelle giostre oratorie mi rapivano in ammirazione; non sapevo ancora quale era il dietroscena, e quanta vacuità fosse in quegli splendori. Quella coalizione mi pareva una soperchieria e uno scandalo, e col mio istinto che mi tirava verso i deboli, Molé mi divenne simpatico. Ammirai soprattutto con quanta prontezza d’ingegno volse contro Guizot una frase di Tacito, che questi citava contro di lui; ma poi dimenticai Molé e fui contento di veder ministro il mio Thiers. Costui avea non so che di mobile e irrequieto nella condotta, piú del brillante che del sodo, ciò che alla mia immaginazione giovanile non dispiaceva. Aspettavo grandi cose da lui; sapevo a memoria moltissimi [p. 104 modifica] luoghi dei suoi discorsi limpidi e filati. Mi ricordo fra l’altro questa frase: «Io fo quello che dico, e dico quello che penso». Ci vedevo uno dei miei cari ideali, la concordia tra il fare, il dire e il pensare, e m’immaginavo che avrebbe recato ad atto tutte quelle grandi idee di libertà e di riforme, di cui aveva piena la bocca. Ma i fatti mi riuscirono di molto inferiori ai discorsi, e anche discorrendo, il ministro mi pareva inferiore al deputato. Nelle mie passeggiate e nelle chiacchierate intime con gli amici, facevo lo sputa-senno, e pronunziavo con grande sicumera giudizi di giovane focoso e inesperto. Forse nei miei giudizi severi entrava quella non so quale velleità che trascina i giovani in favore dell’opposizione. Non avevo ancora una personalità in quel giudizio delle cose e degli uomini, e mi facevo molto impressionare da quello che dicevano di lui i giornali di mia lettura, il Siècle e i Débats, che gli erano contrari; forse anche la grande aspettazione che avevo di lui gli nocque. Pure lo accompagnai con qualche simpatia nella sua campagna contro i gesuiti e contro i conventi, e poi nella sua azione diplomatica a sostegno del viceré d’Egitto. Mi fece grande impressione, nella discussione parlamentare intorno ai gesuiti ed ai conventi, un discorso di Berryer, un pezzo oratorio di gran forza, dov’erano descritte con mirabile facondia certe lassitudini della vita, che cercano appagamento nella quiete dei conventi. I deputati lo applaudirono molto, ma conchiusero contro, ciò che a me parve strano. E mi parve anche più strano quell’antipatico uomo di spirito ch’era il Dupin, il cui discorso mi sembrò cavilloso e curialesco. Queste furono le mie sorprese in politica. Ma erano nulla a quelle che vennero poi.

Vidi il Thiers invischiato nella lotta tra Egiziani e Turchi, e mi pareva ogni di scoppiasse la guerra. Ma non ne fu niente; il ministro seppe così mal manovrare, che la Francia rimase isolata, e non ebbe animo di affrontare l’Europa per i begli occhi di Mehemet. Io capii poco di quella politica farragginosa, e mi venne, così piccino com’ero, il sospetto che facesse apposta così, per distrarre i Francesi dal programma liberale trombettato da lui. Vedi malizia! E non è la prima volta che gli uomini [p. 105 modifica]vedono furberia in ciò che è vanità o inabilità. Per non impiccolire Thiers, il mio beniamino, io lo creava un furbo di tre cotte. Pure dentro di me era sminuito il suo prestigio. Quella sua caduta precipitosa senza lasciare dietro di sé che velleità e rumore, mi aveva guastato l’idolo. Mi s’ingraziò un poco nell’ultima lotta, quando vidi la mala fede dei suoi avversari, che volevano per forza fare di lui la personificazione della guerra, con quelle solite formole alla francese: Thiers c’est la guerre, et Guizot c’est la paix. Questi assolutismi non mi entrarono. Ci vedevo una soverchieria contro quel povero Thiers. Guizot poi mi divenne addirittura odioso. — Che uomo! — gridavo io, gestendo forte. — Thiers lo invia ambasciatore «a Londra, e costui cospira contro il suo ministro e viene nella Camera a combatterlo! Ben fece Berryer ad accopparlo.

Io era mobile e appassionato nei miei giudizi, molto impressionabile, trasportato dalle varie correnti, con una gran dose di bontà e d’ingenuità. M’incalorivo molto per le cose di Francia, e non avevo orecchi né occhi per le cose nostre; anzi Napoli era per me il migliore dei mondi, perché Napoli era la mia scuola, e nella scuola mi sentivo appagato e felice. Del resto, questa era allora la corrente. La gioventù mossa da un sentimento letterario si appassionava molto per quella grande eloquenza della tribuna francese e, sfogatasi ben bene nei caffè a chiacchiere e a gesti, non cercava altro. E la polizia lasciava fare.

In mezzo alle mie dispute politiche e alle mie lezioni mi colse come strale una triste notizia: zio Carlo, colpito da un secondo accidente apoplettico, moriva. Mi rimproverai allora quella non so quale freddezza che gli avevo mostrata. Avrei voluto essere lí, a piè del suo letto, e chiedergli perdono. Ricordavo la sua bontà per me, ch’ero stato sempre il suo prediletto. Nel suo testamento lasciò tutto ai cugini, ciò che mi parve la conseguenza inevitabile di molte promesse, e non mi sorprese. «Ma se egli aveva a dolersi di mio padre, che colpa ci hanno i figli?», pensavo io. Anche a zio Peppe spiacque la cosa, e fece un controtestamento, nel quale lasciò tutto a mio padre, per equilibrare, diceva lui. Questi fatti avevano generato mali umori, e il povero [p. 106 modifica]vecchio menava in famiglia giorni annoiati e malinconici. Il suo umore vivace e allegro mal vi si piegava, e divenne violento e talvolta manesco. Io pensai di chiamarlo a me e alleviargli la vita. M’era anche una buona compagnia allegra.

In quel maggio mi separai da Enrico e presi casa in via Rosario a Porta Medina, numero 24. La casa era bene aerata e piena di luce; c’era un salotto molto capace, dove pensai di tenere la scuola. Quell’andare e venire da San Potito a vico Bisi, mi annoiava fieramente. Poi mi pareva maggior dignità avere la scuola in casa. Diedi una bella stanza da letto a zio Peppe, e io mi rannicchiai contentone in uno stanzino oscuro. Quel bravo Marchese non tenne a vile di venire in casa mia tutti i mercoledì per la traduzione, e io non pensai punto che gli potesse dispiacere, così eravamo uniti di spirito.

Zio Peppe era di conversazione piacevole, franco, impressionabile, di primo moto. Portava assai bene la sua sessantina: alto e corputo, quasi gigantesco, e quando poneva sul suolo quelle gambe rotonde e piene, il suolo pareva gli tremasse sotto. Aveva una bella testa, sempre ritta; il viso rubicondo e gli occhi arditi; la cera benevola e l’anima piena di affetto. Facile all’ira, si calmava subito. Coltura e ingegno non ne aveva molto, e stava innanzi a me con qualche soggezione. Gli piaceva un buon bicchier di vino; andava in brio e ciarlava volentieri delle sue gesta, e quando vedeva spuntare me, diceva: — Zitto, che viene Ciccillo — . Io era il suo contrapposto: severo, di poche parole, non facile ad aprirmi; del resto, lo sentivo assai volentieri. Enrico era della compagnia. Talora l’andavano stuzzicando, ed egli si esaltava e diceva le cose come le sentiva, alzando la voce anche per via. Le persecuzioni politiche e il lungo esilio non l’avevano piegato.

Allora si sentiva nell’aria qualcosa di nuovo. Si vedeva un po’ allargarsi quell’atmosfera plumbea che pesava sopra tutti e ci tenea chiusa la bocca. Già alcuni nomi di patrioti reduci all’esilio si mormoravano sotto voce: nella nostra ammirazione primeggiava Poerio. Nei primi anni sentivo imprecazioni contro i Carbonari, e io me li dipingevo come cosa diabolica. Ma il [p. 107 modifica]tono mutava in quel tempo, e le imprecazioni erano contro i sanfedisti e Carolina e Ruffo, e si vantavano gli eroi del Novantanove, ancora a bassa voce e quasi all’orecchio. Gli uomini del Ventuno, messi in mala luce, cominciavano a ripulirsi e a circondarsi di un’aureola innanzi alla gioventù. Già si nominavano Pepe, Carascosa, Colletta. Quando Giuseppe Poerio, reduce, perorò la sua prima causa, una folla enorme trasse a sentirlo. Si diceva: — Andiamo a sentire il grande oratore — ; ma sotto c’era la simpatia per l’uomo politico. Mi sta ancora innanzi, nella causa, credo, di Longobucco. Squassava la bianca chioma come un Giove, tutto gesti, tutto nella causa. Si facevano paragoni tra il suo fare concitato e la calma dal Borelli, e l’uno i giovani giudicavano eloquente, l’altro facondo.

Io assisteva a queste dispute, invaso da un sentimento letterario, ch’era coperchio ai racconti del Ventuno e ai ricordi del Parlamento nazionale. La tribuna francese non era estranea a questo rialzo dello spirito. Ci aveva contribuito il ministero Thiers, dal quale si aspettavano grandi cose per la libertà dei popoli, e quel rumor di guerra, entro il quale s’inabissò il Thiers, fu accolto dalla gioventù con molta speranza. Ma venne Guizot, e addio! Thiers aveva una faccia che ci sorrideva; Guizot ci parve un brutto ceffo. Queste speranze, timori, opinioni, congetture, immaginazioni, mormorii politici erano in una cerchia assai ristretta. I più non ci pensavano e badavano ai casi loro, salvo in certi chiari di cielo, quando la voce si faceva un po’ più alta. Io per esempio ero tutto grammatica e lingua; Enrico era tutto nello studio di Vico: alla politica ci si pensava per parentesi, e più o meno, secondo i casi e gli accidenti del giorno. Ma la politica era il chiodo di zio Peppe, che lo martellava e lo faceva scattare; e non si guardava mai intorno, e tra compagni e amici le sballava grosse. Si vantava Carbonaro; gridava contro il tradimento di Francesco e del Carignano; ci narrava spesso del De Conciliis, gloria, diceva, della nostra provincia, raccontava il suo esilio, tramezzando le sue pene e i suoi sdegni con aneddoti piccanti: ch’era venuto in grazia a certe monache, e che aveva loro pagata una lauta messa, e contava di certe amicizie [p. 108 modifica]di setta, e conchiudeva sempre con quel tale Dies irae. Questo ci faceva ridere, ed egli ci si arrovellava e lanciava i pugni in aria. Io lo sentiva come in un’accademia; non m’era venuto in capo che sotto ci fosse niente di serio. Con lo stesso animo credo lo sentissero gli altri. Quando parlava era una festa; facevamo cerchio e coro. Talora stava in camera con le braccia nude, mostrando quel suo petto di leone, tutto in sudore, sotto la sferza della canicola, col viso severo e con voce vibrata, ripetendo a noi increduli e con la bocca a riso: — Giovinotti, aspettate il ’46, l’anno della rivoluzione e della libertà — . Noi finimmo con prendere in burla il ’46, e gli dicevamo: — Ah il ’46! Cosa ci sarà nel ’46? — . Ed egli tonava: — Ci sarà questo, che l’Europa avrà rivoluzione e libertà.

Quando Pio IX iniziava in Europa rivoluzione e libertà, ci corse in mente il ’46 di zio Peppe, e stupimmo. Enrico mi diceva: — Quel povero zio Peppe! non ha veduta la terra promessa — . Era stato un profeta. Oggi si direbbe uno spiritista.