La freccia del parto ed altre novelle/Arte antica

Arte antica

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Tonino l'eremita Una discrezione

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ARTE ANTICA

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La casa del marchese di Roncegno non era precisamente nè un castello nè un maniero, ma assomigliava un poco a questi due generi di fabbricato. Vi assomigliava nelle alte e nere muraglie esterne, nell’aspetto grandioso del cortile, nella fuga di sale a vôlta mobigliate all’antica, coi seggioloni larghi come un letto e le caminiere ampie, sporgenti, capaci di ricoverare una intera tribù. Compiva la somiglianza la [p. 274 modifica] sua posizione, in alto di una collina, affatto isolata, nella sicurezza spavalda del potere.

Il Lago Maggiore le stava davanti; a tergo, poderosa e imponente spalliera, il Motterone.

Il marchese di Roncegno, che possedeva a Milano un palazzo storico, passava i suoi giorni in questa casa, diviso amichevolmente dalla società, la quale se ne era consolata dimenticandolo. Se per caso qualcuno pronunziava ancora il suo nome nei salotti dell’aristocrazia lombarda, mezza dozzina di bocche motteggiatrici esclamava tra due sbadigli: «Ah! quell’originale!»

Originale il marchese di Roncegno non lo era, più che non lo fossero i suoi accusatori; egli avrebbe potuto [p. 275 modifica] trovare una quantità di fac-simili in quei gentiluomini del principio del secolo, che avevano un culto per la forma e che non si dipartivano mai dalle regole di una cavalleria aristocratica, circonfusa di certa grazia quasi femminile, che ora è affatto giù di moda.

E chiamando femminile la grazia del marchese mi sono forse espressa male; dovevo dire che si ispirava a un alto ideale femminino — rimasto sempre ideale — la qual cosa mesceva un po’ di malinconia rassegnata alla sua naturale serenità.

Giovanissimo, si era aggregato alle lotte politiche, cospirando, quando la cospirazione era il solo mezzo che si aveva per mostrarsi italiani, e in quel periodo eroico e poetico il marchese si [p. 276 modifica] era fatto un nome. Poi i tempi mutarono. Ai baldi entusiasmi, alle emozioni della lotta successe l’ebbrezza della conquista, e in quella molti sentimenti si alterarono. Gente nuova, accorsa al suono delle fanfare, si fece largo, ingrossando le file, confondendosi ai vittoriosi. Una quantità di persone che non avevano fatto nulla, per mostrar di fare, disfarono il già fatto. I primi, i pochi, furono ricacciati in dietro, nascosti dalla turba invadente. Il marchese di Roncegno si ricordò che un silenzio dignitoso è la sola risposta che deve dare l’uomo onesto quando è tratto in inganno; e soprafatto da una generazione emancipata, avida di lucro, scettica e materialista, una generazione che non lo comprendeva, il marchese [p. 277 modifica] tentò di rifarsi una via coll’arte. Ma anche qui gli intenti erano mutati; il marchese finì col chiedere a sè stesso, seriamente, se era un cieco che barcolasse in mezzo ai veggenti, oppure il solo veggente tra un popolo di ciechi.

Senza venir mai ad una risposta decisiva — che una certa riservatezza timida e sdegnosa ad un tempo, lo rendevano moderato in ogni suo giudizio — egli finì col ritirarsi, senza scandalo — in base ad una provata incompatibilità.

Da cinque anni viveva nella sua villa; e quando al mattino, in qualunque stagione e con qualunque tempo, scendeva nel giardino a passeggiare fino ad un punto dove un fitto viale di carpini squarciandosi improvvisamente [p. 278 modifica] scopriva l’ampia distesa del lago, il marchese, che si fermava a lungo in quel posto collo sguardo perduto sull’orizzonte, seguiva forse col volo della fantasia gli inafferrabili contorni di larve lungamente vagheggiate, invano.

Nell’aspetto il marchese era simpatico; alto, dritto, un po’ rigido, un po’ calvo, ma con un sorriso fresco e, negli occhi, un raggio di giovinezza calma. Dimostrava quarantatre o quarantaquattro anni; in realtà era già passato dal lato peggiore dei quaranta.

Nei mesi caldi stava col marchese, per tenergli compagnia, ed anche per rammentargli tacitamente che ne era l’erede, il nipote don Luigi Oldrati di Roncegno, che i servi e gli amici chiamavano abusivamente il marchesino. [p. 279 modifica] Gli altri mesi dell’anno don Luigi li passava a Milano, a Roma a Parigi, con una forte propensione per quest’ultima città. Era un giovinotto comune, nè migliore nè peggiore del primo capitato, senza aspirazioni, senza bisogni morali, che si trovava ben contento di aver ventimila lire di rendita e che le spendeva allegramente.

Alla villa egli faceva penitenza, non sapendo mai come raggiungere l’ora del pranzo, sazio fin sopra i capelli di Stresa, di Baveno e di Pallanza, dove non vi sono nè attrici nè clubs, e dove la sola emozione sperabile è di ammazzare di tanto in tanto un cavallo facendolo correre sulla via del Sempione — e ancora ce ne vuole, essendo quella via così piana e così liscia! [p. 280 modifica]

Per grazia di Dio, il quale ha concesso che i mesi fossero di trenta giorni, era appunto il ventinove ottobre e don Luigi, gettando al palafreniere le redini del suo cavallo, pensò che poco tempo gli restava da desinare a faccia a faccia collo zio.

Suonavano le sei nella sala da pranzo, dove i lumi non erano ancora accesi, il marchese ritto davanti agli alti finestroni, contemplava il pallore di quel tramonto d’ottobre.

La sala, quadrata, colle pareti a stucco aveva in mezzo alle due finestre e sul camino, due grandi specchiere in cornice bianco e oro con dei lacci d’amore in tinta azzurrina. Le rimanenti pareti occupate da quadri antichi, alcuni pregevoli, tutti adatti [p. 281 modifica] all’ambiente e allo stile della sala, erano mobigliate con seggioloni coperti di ricami antichi a colori teneri; scansie intagliate, coi vetri, riboccanti di porcellane fine e d’oggetti d’arte; sulle finestre, appese a un cornicione di legno intagliato, ricche cortine di damasco con disegni da arazzo, frammezzato da fili d’oro.

Non è questo il mobiglio classico di una stanza destinata a tinello. Infatti vi era nella casa un’altra stanza fabbricata e arredata per quell’uso, ma il marchese se ne serviva appena nelle rare occasioni di un pranzo. Desinando solo, o col nipote, non voleva uscire dal suo salotto preferito, dove teneva i suoi libri, i suoi quadri simpatici e dal quale si godeva la più bella vista [p. 282 modifica] della villa; tutto il lago da Stresa a Intra, con davanti, in fondo, la riva lombarda mesta e fantastica ne’ suoi squallidi dirupi.

Il marchese non si stancava di seguire, collo sguardo, il ramingare delle nuvole negli ultimi raggi del sole; e si volse soltanto quando un improvviso bagliore alle sue spalle lo fece avvertito che il domestico aveva acceso i lumi.

— Mio nipote?

— Il marchesino è tornato or ora dalla cavalcata.

Così dicendo, il domestico metteva accanto alla posata di don Luigi, una lettera arrivata allora.

«La solita lettera,» pensò il marchese, sbirciando attraverso la mensa [p. 283 modifica] un caratterino nervoso con inchiostro violetto.

E avendo sollevata la faccia, ponendosi la mano sulla gola quasi per aiutare il passaggio di un boccone difficile (il quale atto dinotava in lui emozione e preoccupazione), il marchese si fermò ritto davanti a un quadro che, posto in una cornice speciale e ricchissima, faceva riscontro alla specchiera del caminetto.

Fermarsi, ritto, pensando, era una delle abitudini del marchese; e davanti a quel quadro egli si fermava spesso, socchiudendo gli occhi, con una voluttà intima e raccolta. Era un dipinto dello Zuccarelli, morbido e pastoso, come tutti i lavori di questo pittore singolare. La scena arcadica, rappresentava [p. 284 modifica] una donna che filava e un pastore che la stava guardando, immersi entrambi nei vapori molli di un cielo rosato e nelle grandi ombre romantiche degli alberi, questa scena riceveva dalla ricca tavolozza dello Zuccarelli una rotondità piena e palpitante, come il preludio di una fusione possibile fra l’ideale e il reale. Sotto il corpetto di una tinta sfumata, combinazione paziente di giallo e di azzurro per ottenere il risultato di un colore originale, sotto quel corpetto che nessuna donna ha portato mai, rotondeggiava il contorno di un vivo corpo di donna nelle sue linee più pure. Dal cielo, dagli alberi, che erano un modello di lavoro studiato e attento, emanava un senso di realtà delicata: il vero scelto nel bello; con certi sfondi [p. 285 modifica] improvvisi, pieni di trasparenze, che inducevano il ricordo delle ore felici trarcorse, o sognate.

Improvvisamente, lo sguardo del marchese, che aveva deviato un istante dal quadro, si concentrò sovra una coppa di antica terraglia etrusca, posta nel mezzo di un tavolino, sull’orlo della quale biancheggiavano alcune lettere gettate alla rinfusa. Avvicinò la faccia e guardò meglio. Erano proprio quelle lettere; le lettere di suo nipote, che arrivavano regolarmente ogni due giorni e che don Luigi non si dava nemmeno briga di aprire.

Il primo movimento del marchese fu di allungare la mano; il seconde di ritirarla senza toccare le lettere, accontentandosi di crollare il capo in segno di disapprovazione. [p. 286 modifica]

Don Luigi entrava allora. Vedendo lo zio in piedi, si scusò di aver tardato qualche minuto, e soggiunse:

— Non occorreva aspettarmi.

— La regolarità anzitutto, — rispose lo zio con accento più sostenuto del solito, — e poi, quantunque fuor di moda, la cortesia.

Don Luigi capì che c’erano delle nubi per aria. Sedette al suo posto e spiegò il tovagliolo, senza vedere la lettera che aveva coperta inavvertitamente col pane. Si sentiva appetito e guardò con occhio soddisfatto la zuppa alla polonaise, emanante un profumo succolentissimo.

«Se quella bestia di cuoco vi avesse aggiunto delle regaglie di pollo....» pensò; ma non lo disse, per non [p. 287 modifica] urtare la suscettibilità del marchese. Pensò pure: «Che noia questi desinari fotografati l’uno sull’altro, con un vecchio davanti in cravatta nera, e un vecchio di dietro in calze bianche.... ah! le cene di Landerinette!...»

Fatalmente i pensieri di don Luigi erano tutti di tal natura da non potersi tradurre in parola; così il silenzio si prolungava sul lento assorbimento della zuppa; fino a che, dopo una interna evocazione di gioie lontane, scappò di bocca a don Luigi: hop là accompagnato da un risolino in pelle in pelle — ed avendo quei due monosillabi echeggiato cupamente nella sala antica, il giovinotto tornò prontamente in sè, porgendo il bicchiere al bardolino e lanciò, a buon conto, questa frase inoffensiva: [p. 288 modifica]

— Bella giornata oggi!

— Bellissima, — rispose il marchese, sollevando lo sguardo limpido, e arrestandolo sul suo diletto Zuccarelli.

— Giornate simili dovevano piacere a quel pittore lì! — riprese don Luigi seguendo lo sguardo dello zio.

— L’arte vera e la bella natura sono sempre andate d’accordo.

— Siccome, però, c’è anche la natura brutta....

— L’arte falsa si affretta a copiarla.

La pronta interruzione del marchese fece dimenticare a don Luigi i suoi proponimenti conciliativi; egli soggiunse con fuoco:

— È l’arte che ama le difficoltà e la lotta, che sentendosi giovane, piena di forza e di ardire, sdegna i mezzi [p. 289 modifica] conosciuti e i lenocinj dai vecchi. Essa non si preoccupa di piacere, le basta di conquistare. Il suo motto è coraggio.

— Ci vuole difatti un bel coraggio, per esporre ai nipoti di Michelangelo e di Raffaello quegli sgorbi che voi altri chiamate pittura dell’avvenire; e dove, — dopo avere guardato a lungo senza capir nulla, — il meno che possiate concludere è che il pittore ha voluto burlarsi di voi.

Don Luigi non credette di dover continuare una discussione inutile, che non avrebbe convertito suo zio e che non offriva neppure l’attrattiva della novità. Sbadigliò pulitamente, colla mano sulla bocca, rifiutando un piatto di croquettes; e allungando poi quella mano sul tavolo, in attitudine di uomo che si annoia, toccò la lettera. [p. 290 modifica]

Il marchese che lo spiava attentamente, lo vide alzare le spalle, poi voltarsi con un movimento pesante, che dinotava una eccessiva seccatura, e gettare la lettera nella coppa etrusca, rimettendosi colla mano sul tavolo, attento alla seconda portata.

— Se credi, — disse il marchese, spianandosi ripetutamente il colletto, — leggi pure....

Don Luigi crollò il capo.

— È strano che.... sì, è molto singolare questo tuo modo di ricevere le corrispondenze.

— Ma siamo a tavola, caro zio, a meno di una circostanza eccezionale non so perchè dovrei turbarmi la digestione con letture inconcludenti.

— Egli è che, nemmeno dopo tavola, [p. 291 modifica] apri le tue lettere.... ve n’è una mezza dozzina, intatte, dentro a quella coppa.

— Ebbene, io non le leggerò mai.

Così concludendo, con accento risoluto, don Luigi sollevava l’ampio torace, sbuffando.

— Tu mi permetti certamente, qualche osservazione?...

— Oh! a tuo comodo, se ti fa piacere....

— Quelle lettere sono tutte di una sola persona?

— Siii.

— E evidentemente la persona ha bisogno di te.... ti chiede qualche cosa.

— Hum!...

Il marchese esitò un momento; la cravatta gli stringeva il collo, assai più dell’usato. [p. 292 modifica]

— Forse, — arrischiò, — un creditore....

— Ooh!... — fece don Luigi, quasi offeso.

— Scusa...

Il volto del marchese si rasserenò per la durata di un baleno; poi tornò a farsi buio e impacciato.

Il domestico entrava in quel momento con un piatto di pernici arrosto.

— Mi sembrano troppo fresche — esclamò don Luigi fissando il piatto con occhio pratico.

Il domestico con una mano sul petto, si fece mallevadore, protestando che erano a punto. Servì i signori e sparve, com’era costume in casa Roncegno.

La voce dolce e fioca del marchese continuò: [p. 293 modifica]

— Allora, una donna....

— Una donna? — Don Luigi colla forchetta sul ventre della pernice, girò intorno gli occhi. — Che donna?

— Quella che ha la costanza di scriverti ogni due giorni.

— Ah!

Don Luigi lasciò cadere le braccia. Ancora la quistione delle lettere! Per fermo suo zio aveva giurato di fargli prendere una indigestione.

— Se vuoi credermi, queste pernici sono eccellenti; le avevo giudicato male.

E rimise, deliberatamente il naso nel piatto.

Un profondissimo silenzio regnò sovrano fino all’ultimo boccone.

Quando il domestico ebbe sparecchiata [p. 294 modifica] la tavola e che don Luigi, accendendo un sigaro, si sdraiò rassegnato in una poltrona, colla mente che galoppava lontano lontano nella buia galleria del Frejus, il marchese pacatamente ripigliò il discorso allo stesso punto dove lo aveva lasciato — quelle lettere. E ad un gesto vivace del nipote, rimbeccò con una punta finissima di ironia.

Il vostro motto, il motto dei giovani è: coraggio: non è vero? Noi, ai nostri tempi, ne avevamo un altro: pazienza. Dunque, se non ti dispiace, e poichè io ti faccio le veci di padre, vuoi confidarmi il segreto di quelle lettere?

— Il segreto di quelle lettere! Bel segreto! — tuonò don Luigi con uno scroscio di risa, — è a tua disposizione il segreto! Forse che io curo quelle [p. 295 modifica] lettere più che la cenere del mio sigaro? Leggile alla buon’ora, e divertiti.

Il marchese, alquanto scandalezzato, si affrettò a rispondere.

— Non è la curiosità, ti prego a crederlo; ma so bene che i giovani si lasciano trascinare talvolta.... come spiegarmi?... a impegni.... a promesse.... e se il nome di Roncegno....

— Il nome di Roncegno non c’entra per nulla. Non ho fatto debiti, non ho sedotto l’innocenza, non ho tradito nè ingannato nessuno. È questo che ti preme sapere? Bene. Ora se vuoi il resto, quelle lettere sono di una donna che mi annoia. Ciò è permesso, credo?

Don Luigi, sentendosi la coscienza netta, si rimise a fumare di santa ragione; e fu molto meravigliato che il [p. 296 modifica] marchese, dopo essersi palpato il collo in modo significante, soggiungesse:

— Tu non dimentichi, spero, che una donna, in qualunque posizione si trovi, ha diritto ai riguardi di un gentiluomo; e quand’anche fosse caduta così basso da.... da.... (il marchese si esprimeva con fatica, esagerando il grazioso ondeggiamento di frase che gli era abituale) quand’anche non meritasse più la tua stima.... se il bisogno....

— Ma no, ma no — interruppe don Luigi — sei fuori affatto del seminato. Quando ti dico che non ho nessun obbligo con quella donna?

— E allora....

— Perchè continua a scrivermi, eh? Me lo domando anch’io. Vedi che siamo perfettamente d’accordo. [p. 297 modifica]

— Tu però — ribattè il marchese — non hai letto nessuna di quelle lettere, e potrebbe darsi....

— Ma se lo so che cosa dicono quelle lettere!

— Lo sai?

— Positivamente.

?...

Don Luigi, con svenevolezza mormora: — Ti amo, ti adoro, ti aspetto, non vieni più, mi hai abbandonata, ecc.

Una tinta rosea, metà pudore, metà indignazione, apparve sulle gote del marchese.

— Quella donna ti ama?

Per tutta risposta il giovinotto si strinse nelle spalle.

— Sciagurato, sai tu che sia amare? [p. 298 modifica]

— No. In compenso, e per mia disgrazia, so che sia l’essere amato.

Una fatuità grossolana increspava ad un brutto sorriso la bocca di don Luigi, quel sorriso fece pena al marchese, che si sentì ferito nel più delicato de’ suoi ideali, tanto che riprese con voce commossa:

— Tu avrai, certamente, lusingata quella poveretta; affascinandola col tuo nome, colle tue ricchezze....

— Grazie! come se non avessi altra carne al fuoco; e come se lei abbisognasse del mio nome e delle mie ricchezze.

— È ricca?

— Quasi il doppio di me.

— Libera?

— Vedova. [p. 299 modifica]

— Una signora della buona società?...

— Della buonissima.

Il marchese tremava, un po’ pallido.

— E ti ama?

— Pare.

Con un movimento vivace, il marchese raccolse tutte le lettere che erano nella coppa, e le gettò sulle braccia di don Luigi.

— Nascondile e nasconditi — disse.

Don Luigi non fece nè l’uno nè l’altro; scosse la cenere dello sigaro, buttò le lettere sul tavolo e rispose:

— Caro zio, io non sono un paladino che abbia giurato fede eterna al suo Dio, al suo re e alla sua dama. Ho conosciuto la signora Montecuccoli....

— È la signora Montecuccoli? — interruppe il marchese, sbarrando gli occhi. [p. 300 modifica]

— Sì, la padrona della villa giù al lago. La conosci?

— Solamente di nome.

— È una bella donnina, non lo nego, ma sentimentale all’eccesso; e poi ha una voglia di cioccolata sulla tempia sinistra, presso i capelli; l’ho scoperta l’ultimo giorno che fui a trovarla. A Ginevra, l’autunno passato, ebbi la dabbenaggine di farle la corte; ella morse all’amo, credette a una passione irresistibile, mi circondò, mi trattenne in tutti i modi possibili. Già le donne di trent’anni somigliano alle pulci in settembre; guai se ti si attaccano!...

Un altro lungo silenzio.

— Ci deve essere, tuttavia, un mezzo per escirne. Tu non puoi permettere che quella signora passi la sua vita a [p. 301 modifica] scriverti senza costrutto. Va a farle una visita, dalle una spiegazione conveniente, presentale delle scuse. La più semplice cavalleria impone di lasciare alla donna, anche sconfitta, l’onore delle armi. Un uomo di cuore, un uomo educato, non pagherà mai abbastanza i favori che una donna gli ha concessi.

— Bei favori! — borbottò tra i denti don Luigi.

— Eh?

Macchinalmente, il giovinotto aveva ripreso l’ultima lettera, e gingillando ne stracciava la busta. Una riga sola: Rimandatemi tutte le mie lettere.

— Incomincia a rassegnarsi; siamo a buon porto. Domani faccio un pacco di tutte le sue frasi e Giacomo gliele porterà. Amen. [p. 302 modifica]

— Giacomo?... Vuoi consegnare delle lettere d’amore a un domestico, nello stesso modo che si manderebbe una dozzina di quaglie?

— Visto che Mercurio non è più in servizio....

— Portale tu stesso.

Un gesto eloquente, quantunque plebeo, mostrò che don Luigi non se ne voleva incaricare, a nessun patto. E per tagliar corto ad ogni altra osservazione, si levò in piedi, suonando il campanello per farsi portare un lume.

Quella notte, il marchese che non aveva mai veduto la signora Montecuccoli, sognò di lei — il sogno era così efficace che gli sembrava proprio di contemplare l’afflitta donna, bagnata di lagrime, inconsolabile. La condotta [p. 303 modifica] di suo nipote, in quell’occorrenza, era stata brutta: ed egli, marchese di Roncegno, capo della famiglia, se ne trovava quasi macchiato di rimbalzo.

«Non si fa così, no» — mormorava tra sè e sè, la mattina dopo, scendendo in giardino, e percorrendo il viale dei carpini andò a guardare il lago, come soleva; cercando fra le molte ville che corrono da Intra a Pallanza, la verde, solitaria villetta della signora Montecuccoli.

«Povera donna!» continuò il marchese, camminando a lenti passi sopra uno strato di foglie secche, che altre foglie cadenti venivano ad aumentare di minuto in minuto. Si fermò poi di botto, colle labbra strette, cogli occhi [p. 304 modifica] socchiusi, in preda ad una delle sue solite visioni.

Il domestico venne a cercarlo per l’asciolvere.

Don Luigi, che non prendeva parte a questa colazione, comparve sulla soglia del salotto, in stivali, soprabito e cappello, mettendosi i guanti.

— Vado a Milano.

— A Milano?

— Ho ricevuto questa mattina un telegramma.... Tornerò domani o dopo.

— Va bene.

Don Luigi tese la mano in atto di congedo.

— E — fece il marchese, leggermente turbato — le lettere?

— Sono di sopra, sul mio tavolo; Giacomo le può prendere quando vuole. [p. 305 modifica]

Il giovinotto scappava, libero, sotto il vestibolo, quando si sentì preso per il braccio da una mano esile e nervosa.

— Te ne prego....

— Che cosa?

— Porta tu stesso quelle lettere.

— No.

E fu un no deciso, che fece salire il sangue alla fronte del marchese.

— Ebbene, se non vuoi compiere tu il tuo dovere, lo compirò io, per l’onore dei Roncegno.

— Vuoi portare le lettere alla signora Montecuccoli?

— Sì.

Il sì del marchese valeva il no di don Luigi; ma don Luigi non ne fu punto, al contrario trovò molto buffa [p. 306 modifica] l’idea dello zio e ne rise di cuore. Decisamente i paladini non eran finiti con Carlomagno.

— Sei sicuro della tua decisione? — domandò ancora il marchese. — Non ami quella signora?

— Sicurissimo; tanto più che non l’ho amata mai. Se ti dico che fu lei a riscaldarsi la testa! Per parte mia l’avrei forse amata un giorno, s’ella si fosse lasciata amare alla mia maniera; ma quando vidi che si impancava nel sentimento, al diavolo! Ho ben altro da fare.

Sparve, lasciando il marchese attonito, rigido sotto l’impressione di un disgusto che sollevava tutti i suoi istinti di gentiluomo.

Rientrò nel salotto e si lasciò cadere [p. 307 modifica] in una poltrona davanti al quadro del Zuccarelli, risplendente in quell’ultimo mattino d’ottobre di una luce chiara e diafana, sulla quale si posarono ben tosto i suoi sguardi erranti.

Anche dagli altissimi finestroni pioveva un mite raggio sugli arazzi delle cortine, entro i fili d’oro sbiadito, scivolando fino alle cornici bianche ove si intrecciavano i nodi d’amore — e il marchese, sempre sprofondato nella poltrona antica, seguiva i ghirigori fantastici del pensiero.

«S’ella si fosse lasciata amare alla sua maniera!» — Questo era il tema intorno al quale lavorava la fantasia del marchese; contento, in fondo, che la signora avesse una maniera d’amare opposta a quella di suo nipote. [p. 308 modifica]

«Ma allora perchè — suggestione naturalissima — erano corse tutte quelle lettere, e la signora sembrava tenerci tanto al ritorno dell’infedele?

Sembrava, ecco il cavillo. Quali prove c’erano della desolazione d’Arianna? Le lettere. Ma aveva egli, marchese di Roncegno lette quelle lettere? O non potevano essere, invece che lettere d’amore e di rimpianto, sfoghi di sdegno?

«La signora Montecuccoli — egli ripeteva: — la signora Montecuccoli — scandendo le sillabe. — Quando viveva nel mondo si era incontrato con un Montecuccoli veterano di Napoleone I.

Come mai Giacomo aveva lasciato una striscia di polvere sulla cornice dello Zuccarelli? Il marchese si rizzò in punta di piedi, levando delicatamente [p. 309 modifica] la polvere colla pezzuola, guardando da vicino le mani della pastorella che gli apparivano di una delicatezza squisita; principalmente la destra alzata aperta sullo sfondo roseo del cielo.

Nel voltarsi vide che il sole indorava tutto il lago. Batteva mezzogiorno.

«Orbene!» pronunciò ad alta voce. Si era deciso.

Salì in camera di don Luigi, dove con sua grande meraviglia e pari turbamento trovò il pacco delle lettere ravvolto in un semplice foglio di carta, neppure suggellato, con una funicella in croce.

«Povera donna!»

Sì, egli compassionava immensamente colei che aveva potuto, anche per poco, dare il cuore a suo nipote. [p. 310 modifica]

Accese un lume e suggellò accuratamente il pacco, apponendo sulla ceralacca il largo stemma dei Roncegno. Le sue mani tremavano un poco, aggirandosi intorno a quelle ceneri d’amore e sul volto gli passava a ondate calde, un soffio di giovinezza.

S’avviò poi, raccolto e pensieroso, giù dal colle.

La villa della signora Montecuccoli non figurava tra le più ricche, ma era certamente una delle più graziose. Piccola, raccolta, come un uccello nel nido, entro una fitta boscaglia, tutta coperta ella stessa sui muri e sul tetto da variate graminacee, sembrava nascondersi agli sguardi volgari.

Il fabbricato, leggero, senza pretese architettoniche, sorgeva tra i fiori, [p. 311 modifica] toccando da una parte il lago. Dalla parte opposta vi si accedeva, quasi per sorpresa, svoltando un sentieruolo romito; nessuna prospettiva per gli sciocchi, nessun portinaio per gli oziosi. Gli amici solo ne trovavano la via.

Il marchese pensava con quali parole avrebbe consegnato l’involto prezioso, e a chi. Non era deciso se presentarsi alla signora o rimanere sulla soglia; se farsi conoscere o conservare l’incognito, quando si trovò, per un cancello aperto, nel giardino della villa, e subito una forma femminile usci frettolosa dalle robine quasi lo aspettasse.

Egli allora si fermò e vide che anche la donna si arrestava, indecisa, pur fissandolo con occhio sicuro.

Era indubbiamente la padrona della [p. 312 modifica] villa; ma non aspettava lui. Forse don Luigi.

Questa riflessione gli diede coraggio e glielo crebbe un certo qual pallore sofferente diffuso sul volto della signora. Fece un bell’inchino, all’antica e le chiese subito se aveva l’onore di parlare alla signora Montecuccoli.

— Son io.

La voce, lo sguardo tra dubbioso e temente, l’attitudine incerta, una vaga somiglianza nella situazione, tutto questo fece ricordare al marchese il famoso: Son io, di Violetta Valery. E noi sappiamo che il marchese era abbastanza sentimentale per commoversi al ricordo di un melodramma.

Si inchinò per la seconda volta; trasse dal taschino, sul petto, una carta [p. 313 modifica] di visita e la presentò alla signora. Su quel rettangolino di carta bianca, senza corona e senza stemma, si leggeva: Anatolio di Roncegno.

La fronte della signora arrosì improvvisamente.

— Prego.... — balbettò, indicandogli colla mano il salotto a pian terreno, — e quella mano alzata, aperta sullo sfondo pallidamente roseo del cielo, impressionò molto il marchese che credette di scorgere viva la pastorella del suo Zuccarelli; solo la mano della signora era più esile, trasparente quasi come una porcellana.

Varcando la soglia del salotto egli era molto commosso; sentiva la difficoltà della missione assunta.

— S’accomodi.... [p. 314 modifica]

Sedette ella stessa in una poltroncina bassa, tirando colla mano un piccolo paravento ricamato, tra lei e la finestra, per mettersi al riparo della luce, e stette, col corpo lievemente piegato avanti, aspettando.

Pel primo, il marchese si passò la mano su quel tal nodo che gli stringeva la gola nei momenti difficili; poi tossì, diede un’occhiata in giro e finalmente con voce dolce e fioca:

— L’ardire che io ho di presentarmi, sconosciuto, a lei, proviene dalla necessità in cui mi trovo di scusare mio nipote Luigi che, obbligato a partire improvvisamente, non potè venire in persona a renderle questo oggetto.

Di rossa che era, la signora divenne smorta come cera, riavendo il pacco dalle mani del marchese. [p. 315 modifica]

— Ella sa che cosa contiene? — domandò con un’alterezza che frenava a stento il dispetto.

— Gioielli preziosi.

Così dicendo il marchese si inchinava con naturalezza bonaria; e soggiunse:

— Mio nipote, dolentissimo del contrattempo, le presenta i suoi umili rispetti.

La signora si era rimessa. Con una mano appoggiata al pacco delle lettere, socchiudendo mollemente gli occhi, riprese:

— Starà assente molto.... suo nipote?

Il marchese ebbe un lampo d’audacia, guardandola fissamente, rispondendo:

— Forse. [p. 316 modifica]

I loro occhi si erano incontrati; la signora comprese che egli sapeva tutto.

Intanto il marchese si era già formato un concetto preciso: quella donna meritava tutti i riguardi.

— Mai come in questa occasione, sarà vero che gli assenti hanno torto, — disse.

La signora abbozzò un sorriso, tentando di indovinare se il complimento fosse a doppio fondo.

Da parte sua, il marchese, ammirava il sangue freddo di colei che egli era già disposto a consolare; lo avrebbe probabilmente accagionato a leggerezza, se una piega dolorosa delle labbra non avesse palesato nella signora lo sforzo di repressione.

Si alzò, dignitoso, corretto, non volendo abusare della situazione. [p. 317 modifica]

Anche la signora si alzò, accompagnandolo lentamente verso l’uscita del giardino; ma egli non permise ch’ella ne varcasse la soglia. La salutò con un profondo inchino e mosse, tutto solo, verso gli alberi.

Se non che, fatti pochi passi, udì il rumore sordo di un corpo caduto per terra, e retrocedendo vivamente trovò la signora in ginocchio sul pavimento, colle braccia buttate a traverso di un divanuccio e la faccia sprofondata tra quelle.

La prima cosa che fece il marchese fu di rialzarla, adagiandola sul divano; poi chinandosi sul volto di lei, lo scrutava per sapere a qual partito appigliarsi. Lo svenimento, se era stato fulmineo, non sembrava però doversi [p. 318 modifica] prolungare. Già la signora, di carattere altero e vergognosa di quell’istante di debolezza, tornava in sè; e poichè il marchese accennava a suonare il campanello, per metterla forse nelle mani della cameriera, ella intervenne con un gesto vivace che fece salire una rapida fiamma sul suo recente pallore:

— No — disse, — poichè ha scoperto il mio triste segreto, resti fra noi due.

Gli tese la mano, che il marchese baciò, pieno di rispetto e di gratitudine. Da quel momento parve cadesse una gran barriera; si riconoscevano, si sentivano amici.

La signora, mettendo a posto le gale dell’abito e rialzando i capelli [p. 319 modifica] leggermente scomposti, ebbe un sospiro di sollievo. Roncegno le ispirava fiducia. Quella fisonomia seria e fredda, di una dolcezza melanconica, rassegnata, doveva coprire un gran cuore.

— Che cosa le ha detto suo nipote? — domandò, così, a bruciapelo, con un fremito nelle labbra.

Il marchese vedeva crescere a dismisura l’imbarazzo della propria posizione.

— Nulla, — rispose.

La signora, colla faccia appoggiata alla palma, tacque; ma il suo era un silenzio agitato, gravido di procelle.

— La ringrazio — disse poi con accento volubile, rizzandosi sulla vita, evitando di incontrare gli occhi del suo interlocutore. — Ho conosciuto suo [p. 320 modifica] nipote a Ginevra, in circostanze bizzarre. Facevo la cura idropatica, con una mia amica, in uno di quegli stabilimenti svizzeri, così noiosi per noi italiani; e, che vuole? — dopo avere osservato se Pilato metteva oppure levava il suo leggendario cappello di nuvole, dopo aver rifiutati una dozzina di leoni intagliati in tutti i legni possibili, dopo aver seguito collo sguardo il vaporino che sale il Righi, si finiva, la mia amica ed io, col parlare dell’Italia. Enumerando i suoi amici, ella favoriva di un ritorno costante il marchese di Roncegno, nobile, buono, gentile, leale, artista, gentiluomo perfetto — questi gli aggettivi della mia amica. A suo dire il marchese di Roncegno era il più simpatico fenomeno vivente, l’ideale di noi [p. 321 modifica] donne. Mi lasciai così bene cullare dagli entusiasmi della mia amica che, più tardi, quando ella partì con suo marito per Londra e che io mi indugiai qualche giorno a Ginevra, udito che nel mio albergo c’era un Roncegno, feci di tutto per conoscerlo.

La signora prese fiato, avendo detta la sua parlata d’un tratto, quasi volesse stordirsi al rumore delle proprie parole.

— Mi feci presentare il marchese, non so più da chi.... ah! sì, dal vecchio conte Guidotti che io conosceva appena. Fu una condotta leggera, forse, una di quelle curiosità femminili che si pagano sempre a caro prezzo.

La signora fece un’altra pausa, mordendosi i labbruzzi.

Anatolio di Roncegno, nel guardarla, [p. 322 modifica] pensava che tutta l’anima di quella donna le saliva agli occhi quando parlava, svelando un carattere ingenuo e caldo. Sembrava pentita dalle confidenze fatte, oppure desiderosa di farne ancora, attratta invincibilmente dal silenzio di lui attento e benigno.

— Ah! no — continuò la signora, torcendo fra le mani il fazzoletto di batista — per quanto sulle prime egli recitasse discretamente la parte di gentiluomo, oso dirlo anche davanti a lei, il marchese di Roncegno non è un gentiluomo!

— Mi permetta dirle, — balbettò egli tutto rosso e tremante, ma con un raggio di lontano orgoglio tra ciglio e ciglio — che mio nipote Luigi non ha alcun diritto al titolo ch’ella gli [p. 323 modifica] attribuisce. È cadetto della famiglia Roncegno.

— E il marchese allora chi è?

— Sono io.

Mai più umile accento, corresse più giusta alterezza. La signora arrossì fino alla radice dei capelli.

— Mio Dio! — mormorò, e si nascose la faccia tra le mani.

Non era più possibile prolungare la visita. Il marchese si alzò, inchinandosi profondamente.

La signora non lo trattenne; ma quando egli ebbe varcato il cancello del giardino, voltandosi, la vide ritta sotto gli alberi e per tutta la strada ebbe nella retina dell’occhio, l’effetto ostinato di un abito bianco sul verde delle robinie. [p. 324 modifica]

Passarono quindici giorni.

Il novembre cupo e nebbioso sprofondava i monti in un velo funebre, mettendo sul lago luccicori smorti di stagno. Poche foglie giallastre pendevano dagli alberi tenerelli, mentre i vecchi abeti e le quercie robuste resistevano nei loro toni freddi d’inchiostro.

Nel salotto del marchese crescevano le penombre intorno ai mobili intarsiati, fra le pieghe delle stoffe impallidite, sull’oro antico dei cornicioni. Solo alla sera, quando Giacomo accendeva la lucerna, uno sprazzo di luce irradiava in pieno il quadro dello Zuccarelli e, nel circolo luminoso, scintillava qua e là un pezzo di cornice, un’anfora, il fianco facettato di un [p. 325 modifica] vetro di Murano o il filo dorato che segnava il contorno delle rose sulla stoffa dei vecchi seggioloni.

Don Luigi, che doveva restare a Milano un giorno, non era ancora tornato. Il marchese fantasticava tutto solo davanti al finestrone che dava sul lago, stringendo le palpebre, quasi per fermare il contorno di una visione fuggitiva, — o davanti al suo quadro prediletto — od anche, semplicemente, cogli occhi chiusi, guardando in sè stesso.

Una sera, Giacomo aveva dimenticata la tovaglia sul dossale di una poltrona; e quel bianco lino, morbido, sottile, cadendo a pieghe fino per terra, diede al marchese l’illusione di una donna bianco-vestita, seduta sulla sua poltrona, [p. 326 modifica] come dama del luogo. E l’illusione continuò, anche quando Giacomo ebbe tolta la tovaglia; continuò sotto la forma della pastorella, che sembrava essere scesa dal quadro per sedere alla sua mensa; improvvisamente la pastorella prese il volto, la figura, l’atteggiamento della signora Montecuccoli. Allora il marchese si passò la mano sul collo e divenne ancor più pensieroso.

Sulla fine del mese don Luigi capitò, affrettato, dicendo che lo aspettavano a Parigi.

Si fermò un paio di giorni alla villa, impaziente, rodendo il freno, sgridando i domestici, affaticando i cavalli. Suo zio lo lasciava fare, più indulgente del solito, guardandolo qualche volta alla [p. 327 modifica] sfuggita con certe occhiate tra lo sdegnoso e il compassionevole, che se don Luigi se ne fosse accorto, dovevano mettergli una pulce nell’orecchio. Ma don Luigi, che non si occupava mai di nessuno, non si accorgeva mai di nulla.

In un mattino grigio, freddo, prendendo una subita risoluzione, diede l’ordine di attaccare.

— Te ne vai definitivamente? — chiese il marchese.

— Sì, — rispose don Luigi sprofondando le mani nelle tasche, come uomo che si è seccato abbastanza.

Il marchese ottenne che si fermasse almeno a colazione; partirebbe colla seconda corsa; c’era da prendere meno freddo.

— Tornerò a primavera, disse poi, [p. 328 modifica] come formola riassuntiva del suo affetto.

— Se non ci sono ti avvertirò.

Queste parole, dette dal marchese colla solita pacatezza, meravigliarono il giovinotto.

— Come? dove vuoi essere questa primavera?

— Non so ancora.... probabilmente farò un viaggio.

— A Gerusalemme, colla compagnia Clygel, tremila lire, primi posti, primi alberghi, cammelli compresi.

Allo scherzo di suo nipote il marchese stette serio e zitto.

Verso mezzogiorno attaccarono la vittoria; i cavalli battevano le zampe sul terreno freddo e duro; il cocchiere terminava di infilare i guanti. [p. 329 modifica]

— Dunque buon viaggio.

Erano in piedi tutti e due, vicini.

— Altrettanto.

Don Luigi sorrise ironicamente. Anche il marchese aveva tra pelle e pelle un sorrisetto quasi ironico, ma di una ironia fine, inavvertita.

Si abbracciarono.

Don Luigi saltò in carrozza; i cavalli partirono al trotto.

Ritto sulla spianata che dominava la valle, il marchese, dopo aver accompagnato cogli occhi la carrozza, si volse a guardare giù, giù, in riva al lago, una verde villetta seminascosta.

Pallido, tra le nubi si sprigionò un raggio di sole.

Il marchese, sollevando gli occhi, parve lo salutasse come buon augurio; [p. 330 modifica] riguardò di nuovo la villetta, il lago, l’orizzonte, e quel raggio di sole.

— Perchè no?.... — disse piano a sè stesso, con una mano sulla gola.

E s’avviò, lentamente, giù dal colle.