La fine di un Regno/Parte I/Capitolo VI

Capitolo VI

../Capitolo V ../Capitolo VII IncludiIntestazione 27 gennaio 2021 75% Da definire

Parte I - Capitolo V Parte I - Capitolo VII
[p. 97 modifica]

CAPITOLO VI


Sommario: La diplomazia napoletana — Il principe di Petrulla, ministro a Vienna e i suoi foschi precedenti — Giorgio di Brocchetti, diplomatico e frate — Altri ministri ed aggiunti — Il principe di Carini, il marchese Antonini e Giacomo de Martino — Rivelazioni e aneddoti — Il corpo diplomatico accreditato a Napoli — Bormudoz de Castro, le sue sciocchezze erotiche e le sue ingordigie — Un testamento vanitoso — Il nunzio Ferrieri e il conte di Gropello — Le alte cariche di Corte — Gentiluomini di camera e maggiordomi di settimana, detti chiavi d’oro — Gli aiutanti generali, la segreteria particolare e il cameriere particolare del Re — Il padre Pompeo Vita e il padre Niccola Borrelli — Particolari curiosi — La Corte della Regina — Medici, avvocati, architetti e altri uffici di Corte — Confessori e istruttori — La politica ecclesiastica del Re — Arcivescovi e vescovi — Pastori miti e pastori zelanti — Monsignor Mucedola e il cardinal Riario Sforza — Un aneddoto di pochi anni dopo — La Consulta di Stato — Monsignor Salzano e le sue facezie plebee — Altri consultori e relatori — Monsignor Caputo e Antonio Scialoja.


Sino al 21 ottobre 1856, la storica giornata in cui i ministri di Francia e d’Inghilterra, abbassati gli stemmi, lasciarono Napoli, il Regno stette in rapporti diplomatici con quasi tutti gli Stati d’Europa. A Vienna, a Parigi, a Pietroburgo, a Londra, a Berlino, a Madrid e a Roma c’erano inviati straordinarii e ministri plenipotenziarii; negli Stati minori, incaricati di affari, e cosi pure negli Stati Uniti e nel Brasile, sole potenze non europee nelle quali il Regno avesse rappresentanza diplomatica. Il ministro napolitano a Madrid era accreditato anche presso la Corte portoghese. Ministro a Londra era il principe di Carini, succeduto al Castelcicala; il marchese Antonini era ministro a Parigi; e a Vienna, il principe di Petrulla, uno dei pochi patrizii siciliani che nel 1848 rimanesse devoto ai Borboni e per [p. 98 modifica]cui fu dichiarato dal parlamento dell’Isola traditore della patria. Si chiamava Giovanni Gioeni Cavaniglia ed aveva anche il titolo di duca d’Angiò. Era piccolo e brutto, e sul suo conto si narravano storie losche, non ultima quella che Giacomo Tofano, fra lo stupore generale, raccontò alla Camera dei deputati nella seduta del 16 gennaio 1862: storia la quale venne alla luce per una querela che presentò contro di lui, per frode e falsità, donna Caterina dei Medici, figlia del principe d’Ottajano e moglie del marchese Cavalcante. Petrulla fu difeso da Roberto Savarese e da Giuseppe Pisanelli, e nella memoria defensionale stampata a Napoli nel 1839, sono narrati i particolari di quei fatti che procurarono all’imputato il carcere preventivo, dal quale uscì in libertà provvisoria, per deliberazione del 3 novembre 1835 della camera di Consiglio. Proseguiti gli atti istruttorii nel 1839, grazie al valore dei suoi avvocati, venne assolto; ma con stupore generale, dieci anni dopo, fu nominato inviato straordinario e ministro plenipotenziario a Vienna. Non aveva finito di pagare gli avvocati, e il Pisanelli, esule a Torino, dovè tribolare parecchio, per ottenere il resto del compenso.

Il Petrulla sostituiva alla scarsa cultura una dissimulazione perfetta. Parlava poco e si circondava di un’aria di mistero; benchè principe e ministro del Re di Napoli, non in tutte le case era ricevuto. Uno dei saloni più eleganti era, in quei tempi, a Vienna quello della principessa di Schönborn, congiunta del defunto cardinal di Praga. I diplomatici facevano a gara per esservi ammessi, nè il penetrarvi era facile, perchè la principessa teneva a non ricevere persone di dubbia fama, e il Petrulla non vi ebbe mai invito. Egli viveva quasi appartato dalla vita sociale e si levava di buonissima ora, e poichè era un grande sportmann, faceva lunghe passeggiate a cavallo, o guidava al Prater il suo elegante stage-coach, al quale erano attaccati dodici superbi cavalli inglesi; dava frequenti pranzi, serviti secondo il costume inglese con profusione di vini eccellenti. Aveva la smania di mostrarsi inglese in tutto, dalle scuderie e dagli equipaggi ricchissimi, alle profumerie, che largamente adoperava, ai mobili e alle argenterie.

Il Petrulla aveva sposata una principessa di Partanna, già vedova con una figlia, la marchesa Sessa tuttora vivente, ma la [p. 99 modifica]moglie non lo segui a Vienna. Il Petrulla corrispondeva direttamente col Re, e quasi tutti i lavori della legazione, anche i più intimi, erano da lui affidati a certo Visslonek, giornalista polacco d’incerta fama. Mutò varii aggiunti di legazione; ebbe, tra gli altri, Giorgio di Brocchetti, Ulisse di Barbolani e il duca di San Martino di Montalbo, che vi era stato destinato da Roma.

Giorgio di Brocchetti, fratello dell’ammiraglio, era uno dei più eleganti giovani diplomatici. Ballerino famoso e famoso direttore di cotillons, invano si riconoscerebbe oggi sotto l’umile veste di prete dell’Oratorio. Dopo il suo ritorno da Vienna, entrò a prestar servizio nel ministero degli affari esteri e vi stette fino al gennaio del 1859. Il primo febbraio di quell’anno, si fece frate, ed oggi onora, con la pietà e gli studii, l’ordine di San Filippo. Ricorda, non senza compiacenza, che in una delle brevi assenze del Petrulla da Vienna, egli, il Di Broochetti, annunziò pel primo al governo napoletano il fidanzamento dell’Imperatore d’Austria che aveva 23 anni, con la sua cugina Elisabetta di Baviera che ne contava appena 16, ed era di maravigliosa bellezza. Fu un matrimonio di passione. In una festa ad Ischl, l’Imperatore ballò con lei tutta la sera e le offri dei fiori. Pochi giorni dopo si fidanzarono ufficialmente. La bellissima creatura, che doveva poi essere tanto infelice, fu chiamata "la piccola rosa di Baviera„. Le nozze si celebrarono nell’aprile del 1854, ed ebbero una nota romantica che ancora si ricorda. Il Di Brocchetti non rivide più il Petrulla; anzi, incontratisi nel 1860 a Napoli, per le scale del ministero degli esteri, essendo il Di Brocchetti già divenuto prete dell’Oratorio, non si salutarono neppure. Il Petrulla, benché vecchio, era impetuoso, superbo, odiatore del mondo e avido di danaro, ma non privo di una certa acutezza diplomatica. Se le lettere scritte da Vienna a Paolo Versace nel 1856 e pubblicate da Giuseppe Carignani, nella vita del Versace, furono scritte da lui, come tutto lascia supporre, egli non s’ingannava nel falso indirizzo della politica del Re di Napoli, e non a torto ne prevedeva i tristi effetti; ma neppure a lui il Re dava retta. Il Petrulla chiuse malamente la vita. Restò ministro di Napoli a Vienna anche dopo il 1860, come restò il San Martino a Madrid. È noto che l’Austria e la Spagna non riconobbero il Regno d’Italia che dopo la guerra del 1866. Francesco II, non più Re, non poteva corrispondere alcun [p. 100 modifica]assegno a questi suoi ministri, e il duca di San Martino, generoso e leale uomo, vi si rassegnò; non così il Petrulla il quale, dovendo inviare a Francesco II alcune migliaia di fiorini, che l’Imperatore e gli arciduchi mandavano al detronizzato Sovrano, ne ritenne quelle che credeva essere sue competenze, e la minor parte della somma inviò a Roma. Il Re ne fu così offeso, che immediatamente gli ordinò di dare la consegna della legazione al regio incaricato di affari a Dresda, Ernesto Merolla, che la resse sino all’arrivo del nuovo ministro, Antonio Winspeare. Il Petrulla si ritirò più tardi a Trieste, dove morì da nessuno compianto, lasciando erede della sua cospicua sostanza il principe Vincenzo Pignatelli Denti, suo parente per parte di madre. E il Pignatelli, sia detto a sua lode, sentì il dovere di restituire a Francesco II la somma indebitamente ritenuta.

Il Capece Galeota, dei duchi della Regina, era ministro a Pietroburgo; il conte Grifeo, a Berlino; il marchese Riario Sforza, a Madrid, e il conte Giuseppe Ludolf, a Roma. Segretario di legazione a Londra era Raffaele Ulisse, che pochi oggi ricordano con questo nome, ma molti rammentano col nome di Ulisse di Barbolani, anzi, con quello più recente, di Barbolani di Cesapiana: ottimo uomo, che rappresentò più tardi l’Italia in legazioni importanti e fu, innanzi tempo, messo in riposo dal Crispi. Tra i principali incaricati di affari, ricordo Guglielmo Ludolf a Monaco di Baviera; l’aquilano Canofari, a Torino; Augusto Milano, duca di Santo Paolo, a Firenze, e Giacomo de Martino, destinato a Rio Janeiro dove non andò mai. Tranne l’Ulisse e il De Martino che, in posizioni diverse, figurarono dopo il 1860, tutti gli altri copre un malinconico oblio. Il principe di Carini, Antonio La Grua e il conte Luigi Grifeo erano siciliani come Petrulla; e il Capece Galeota aveva sposata nel 1856 la bellissima vedova del principe Pignatelli Cerchiara, la quale assai brillò, per lo spirito e il talento, alla Corte di Pietroburgo ed era figliuola di Emilio Capomazza. Morto il Sangiuliano, il quale era succeduto al Ludolf in Roma, il De Martino vi fu destinato in sua vece, e da Roma non si mosse che quando fu nominato ministro degli esteri nel ministero costituzionale di Francesco II. Il principe di Carini dipingeva discretamente e si occupava di arte; non godeva gran credito come diplomatico, ma era un perfetto gentiluomo ed aveva in moglie una figlia del generale [p. 101 modifica]Kellermann, signora di molto garbo. Giacomo de Martino, che i suoi amici chiamavano Giacometto, aveva fin d’allora fama di scaltro e d’irrequieto, e il Re non aveva molta simpatia per lui, perchè seccato dalle ammonizioni che don Giacomo gli faceva, riferendogli, troppo esattamente forse, le confidenze dei diplomatici esteri, soprattutto inglesi.


La diplomazia napoletana non ebbe in quegli anni, nè poteva avere iniziativa alcuna; si limitava ad osservare e a riferire, perchè mai, come negli ultimi anni del suo regno, Ferdinando II non fece politica estera in alcun senso; anzi, per impedire che se ne facesse o tentasse una, dopo il ritiro del Fortunato non ebbe più ministro degli esteri come si è veduto, ma un incaricato, al quale dettava egli stesso le note, concise, spesso maliziose e capziose. Per lui la diplomazia era l’arte d’ingannare la gente. Egli diffidava dell’Austria, nè volle accettare nel 1851 una proposta di confederazione in Italia, fattagli dall’Austria, a difesa comune. Non riteneva utile al Regno l’alleanza austriaca, reputandola quasi come una limitazione di quella indipendenza, della quale era geloso. Diffidava, per motivi diversi, della Francia e dell’Inghilterra, benchè fosse stato tra i primi a riconoscere Napoleone III; ma nella guerra di Crimea non nascose le sue simpatie per la Russia, accresciute dal fatto di vedere il Piemonte alleato alle potenze occidentali. Favorevole alla Russia durante la guerra, più ancora che non convenisse a Sovrano neutrale, non seppe avvalersi di questa potenza nel Congresso di Parigi, dal quale la reputazione di lui e il credito del Regno uscirono così malconci. Non una voce si levò a difesa del Re di Napoli; e quando il marchese Antonini si dolse col Walewski, che ai plenipotenziarii sardi fosse stato permesso di assalire il governo di Napoli, Walewski rispose che non era stato solo Cavour ad assalirlo; e diceva il vero, perchè gli attacchi erano venuti contemporaneamente da varie parti e avevano trovati indifferenti i rappresentanti dell’Austria e della Russia. Per motivi diversi nessuno si riscaldava per il Re di Napoli, la cui diffidenza per l’Austria e per ogni altra alleanza, insieme alla cocciutaggine di respingere consigli di moderazione e di riforme da parte delle potenze occidentali, mettevano la sua diplomazia in una condizione difficile e potrei quasi dire, umiliante. I [p. 102 modifica]diplomatici napoletani, privi di autorità, si sfogavano in lettere intime con persone di fiducia. “Sono anni che prego, che insisto, che prevedo, che guardo attentamente l’avvenire, scriveva il Petrulla al Versace, ma non si è creduto darmi ascolto; speriamo che mi sono ingannato e che m’inganno ancora adesso„. Paolo Versace era capo di ripartimento al ministero degli esteri e più volte era stato adoperato in missioni diplomatiche. Aveva fama di negoziatore avveduto. A lui scriveva pure il Petrulla, nell’ottobre del 1856: “ricordiamoci che noi siamo soli, e che nessuno ci aiuterà„. Ma Ferdinando II credeva che bastasse giuocar di astuzia con le potenze. Era persuaso che, nonostante la rottura dei rapporti con la Francia e l’Inghilterra, non potesse mancargli l’appoggio della prima, per paralizzare le influenze inglesi nel Regno, e lo fece dire a Napoleone dai due delegati che mandò a Parigi, dopo l’attentato di Orsini, e che furono il principe di Ottajano e il Versace stesso, ai quali diè istruzioni categoriche in questo senso, anzi le dettò lui al Versace, in Gaeta, la sera del 23 gennaio 1858. In verità il Re era talmente infatuato della sua potenza, che non temeva pericoli. Fu in quell’occasione che mise fuori il suo motto: "essere il Regno protetto, per tre quarti, dall’acqua salata, e per un quarto dalla scomunica„. Era poi convinto di dover vivere eternamente, e questa convinzione contribuiva a non dargli nessuna coscienza o visione del pericolo. In sostanza, il suo governo, sordo ad ogni voce amica, aveva perduta ogni simpatia, nel mondo civile.


I posti di vedetta erano Torino e Parigi, affidati ai due ritenuti più capaci, Emiddio Antonini e Giuseppe Canofari. Antonini rivelò sagacia, informando il Re di quanto si compiva nel Congresso di Parigi, rispetto alle cose d’Italia e soprattutto delle Due Sicilie, e consigliandolo a non disprezzare gl’inviti di Francia e d’Inghilterra, che chiedevano trattamento più umano per i prigionieri politici e politica più conforme allo spirito del secolo. Il Re non diè ascolto, e quando le relazioni diplomatiche furono rotte, l’Antonini e il Carini ebbero l’ordine di trasferirsi in congedo a Bruxelles con le rispettive legazioni e di aspettare colà le ulteriori istruzioni.

Antonini era piccolo di statura ed essendo sordo, faceva uso di [p. 103 modifica]un cornetto acustico, il quale diveniva, all’occorrenza, una risorsa diplomatica: aveva spirito ed alcuni suoi motti gli sopravvivono. Alla vigilia della rottura delle relazioni fra Napoli e l’impero francese, prevedendo, in una pubblica cerimonia, qualche sfogo vivace da parte dell’Imperatore, pose il cornetto in saccoccia. Lo sfogo ci fu, anzi credo che Napoleone III parlasse un po’ forte; ma quando finì di parlare, Antonini, senza scomporsi, rispose: “ Sire, je vous demande pardon; je n’ai pas écouté un seul mot de ce que Votre Majesté m’a dit; j’ ai oublié mon cornet acustique„. Rise l’Imperatore e parve rabbonito. Antonini apparteneva alla vecchia scuola diplomatica, ne possedeva le malizie e anche le risorse. Parlava poco, ma sempre a voce alta come i sordi. Era personalmente assai stimato, e nel 1852 il Re gli concesse il titolo di marchese, in considerazione dei lunghi e onorati servizi. Avendo poca cultura, si faceva delle illusioni circa le cose d’Italia. Nei primi giorni del 1859, stando a Bruxelles e passeggiando nel Parc Royal con l’aggiunto Ernesto Martuscelli, incontrò il duca di Brabante, allora principe ereditario, oggi Re del Belgio. Il duca lo fermò e salutò con molta deferenza, e caduto il discorso sulle cose d’Italia e sulla guerra che si credeva inevitabile, dopo le parole di Napoleone all’ambasciatore d’Austria, Antonini disse a voce alta: “Elles sont des utopies de Balbo et de Cavour„. E il duca di Brabante, a voce bassa, rivolgendosi al Martuscelli, esclamò: “C’est drôle! il appelle ça des utopies„!. Quando, morto Ferdinando II, Antonini tornò a Parigi, preferiva a tutt’i divertimenti il giuoco del whist in sua casa, Rue d’Angoulême, Saint Honoré, col nunzio pontificio monsignor Sacconi, suo intimo, il quale andava in furore quando perdeva poche lire, essendo avarissimo. Nel luglio di quello stesso anno 1859, Antonini aveva invitato a pranzo tre ufficiali superiori dell’esercito napoletano reduci da Liége, dove erano andati per acquisto di armi. Questi uffiziali giunsero con un’ora di ritardo, perchè sbagliarono l’indirizzo. Stanco d’attendere, il vecchio diplomatico brontolava, con qualche vivacità e arguzia: “Voilà ces militaires, ne sont pas civiles!„ . La sua sordità era spesso cagione di equivoci umoristici. Tornando una volta da Napoli, Napoleone gli chiese come stesse il Re; e lui, credendo che gli chiedesse come era stato il mare durante il viaggio, riepose: affreux, e l’Imperatore non si potè tenere dal ridere. [p. 104 modifica]Morì a settantacinque anni a Parigi, il 10 settembre 1862 ed è sepolto in Roma, alla Trinità dei Monti. Era aquilano.

Dall’ottobre del 1856 al giugno del 1859, a Parigi stette un agente ufficioso cbe fa il barone Zezza. La legazione ufficiale, che era a Bruxelles, come ho detto, aveva per segretario il conte Cito di Torrecuso e per aggiunto, Ernesto Martuscelli, che divenne poi ministro plenipotenziario e fu, ancora valido, messo in riposo, come il Barbolani, dal Crispi. Vi era impiegato un certo Navarro, fratello del famoso magistrato: vecchio piacevole ed erudito che, in gioventù, era stato filippino e poi bibliotecario della Regina Amelia di Francia. Aveva un meschino assegno e viveva perciò con curiosa parsimonia. Il Canofari, ministro a Torino fin dal 1851, si limitava ad un lavoro di spionaggio e spesso vendeva fumo, e basterebbe, per provarlo, il doloroso incidente di Giacomo Tofano. A Torino e a Genova dimoravano numerosi esuli napoletani e, purtroppo, tranne pochissimi, ricchi del loro o professionisti, la povertà era patrimonio comune. A questi emigrati il Canofari riusciva antipatico per il carattere angoloso e sprezzante, mentre il Re lo reputava capace e fedele. Torino divenne, a preferenza anche di Parigi, il posto di maggior fiducia negli ultimi anni.

Si entrava nella carriera diplomatica mercè esami, e si doveva appartenere a famiglia nobile o civile ma facoltosa, perchè il tirocinio era gratuito. Nel concorso del 1864 riuscirono primi, Ulisse, Bianchini e Martuscelli, i quali furono subito nominati aggiunti.


Austria, Francia, Inghilterra, Prussia, Russia e Spagna avevano ministri plenipotenziarii a Napoli; le altre potenze, incaricati d’affari. Ministro d’Austria fu il cavalier De Martini, ungherese, tenente maresciallo e consigliere intimo dell’Imperatore, un vecchio quasi ottantenne. Gli successe il conte Szèchèni, ungherese egli pure. Ministro di Francia sino ai primi giorni del 1856 fu il De la Tour, cui successe il barone Brenier; Guglielmo Temple, dell’Inghilterra con quel Giorgio Fagan, tanto utile alla causa liberale, segretario di legazione. Ministri russi, il cavalier De Karoschkine che i napoletani pronunziavano nel modo più curioso, e poi il conte Volkonsky, i quali passarono senza infamia e senza lode. Molto noto nella società napoletana, invece, fu [p. 105 modifica]il primo segretario della legazione russa, il barone d’Uzkull de Gyllenbrand, bel giovane, elegante, che cavalcava bene e ferì molti cuori. Il barone d’Uxkull fu, dopo il 1870, ambasciatore a Roma ed è morto da pochi anni. Ministro di Prussia, il barone De Canitz; e di Spagna, don Salvatore Bermudez de Castro che rappresentava anche il duca di Parma, ed era uno dei tipi più antipatici, più uggiosi e vanitosi, che la nazione spagnola abbia mai prodotto. Francesco II, con decreto dell’8 ottobre 1869, gli dette il titolo di duca di Ripalta; a Gaeta, con altro decreto dell’8 settembre 1860, quello di principe di Santa Lucia, e la Regina di Spagna, il titolo di marchese di Lerma. Segretario della legazione era un carissimo giovane, Domingo Ruiz de Arana, amico intimo di Alfonso Casanova, che di lui parla enfaticamente nelle sue lettere a Carlo Morelli.1 Arana morì di colera nel novembre del 1855, fu molto compianto e presto dimenticato. Alfonso scriveva al Morelli: "Povero Arana! già nelle poche adunanze che io pratico, non pare quasi più memoria di lui, tanto buono, d’un’altissima anima„ .

Il Bermudez seguì Francesco II a Gaeta e poi a Roma, dove si fece regalare dall’ex Re il famoso quadro di Raffaello: la Madonna della Reggia di Napoli, e censì la Farnesina con un canone di trecento scudi romani, di cui per trent’anni Francesco II generosamente gli rilasciò quietanza. E quando Roma divenne capitale d’Italia, la sola espropriazione d’una parte del giardino, per i nuovi e grandiosi lavori del Tevere, fruttò al Bermudez 700 000 lire. Morì a Roma nel maggio del 1883 quasi improvvisamente, e parve misteriosa la sua morte e strana l’esistenza d’una figlia naturale, la quale, con testamento del 31 luglio 1864, egli aveva istituita erede del suo patrimonio. Con altro testamento del 26 agosto 1879, riconobbe e legittimò questa sua figlia, Maria Salvatore Bermudez, raccomandando all’esecutore testamentario di “procurare che la detta Signora non soffra nel suo amor proprio per la preoccupazione della illegittimità della sua nascita, essendo sua madre sommamente nobile ed illustre per lignaggio, posizione, qualità e bellezza, mancando disgraziatamente solo il requisito del matrimonio„. Molte furono le congetture, alle quali [p. 106 modifica]dettero alimento queste parole, e più ancora i sospetti, poiché il Bermudez ebbe, o meglio lasciava credere di aver avute avventure galanti con belle e auguste dame. Dopo aver seguito Francesco II a Gaeta e rimastovi durante l’assedio, lo seguì a Roma. Era così insopportabilmente sciocco, da non essere inverosimile che quelle parole rivelassero un’ultima vanità di lui, quella di lasciar credere di avere avuta la figliuola da Sovrana, o da qualche principessa di sangue reale. I testamenti furono depositati presso il consolato di Spagna in Roma, e ne fu rilasciata dal console copia autentica alla nostra Consulta araldica in data 3 luglio 1886, perchè egli lasciò alla figliuola, che era in educazione in Inghilterra, oltre alla sostanza, il titolo di principessa di Santa Lucia, che le fu riconosciuto dal governo italiano con decreto reale del 19 dicembre 1886. Donna Maria Salvatore Bermudez, la quale sposò il cadetto di una nobile famiglia spagnola, possiede oggi la Farnesina.

Rappresentava la Santa Sede il nunzio Innocenzio Ferrieri, che aveva per uditore monsignor Sanguigni, morti entrambi cardinali, il primo nel 1887, e il secondo nel 1882, e per segretario, l’abate don Gaetano Aloisi, ora eminentissimo cardinale Aloisi Masella. Incaricato di affari per il Piemonte era il conte Giulio Figarolo di Gropello, poco più che trentenne. Aveva molto accorgimento, nonostante l’età giovanile. Egli restò a Napoli sino al febbraio del 1860, e nel 1858 sposò Maria de Bray, figlia del ministro di Baviera alla Corte di Pietroburgo e della principessa Ippolita Dentice di Frasso. Imparentato strettamente coi Dentice, coi Bugnano e altre famiglie dell’aristocrazia, Gropello continuò ad essere l’enfànt gaté del mondo elegante e l’amico dei liberali del patriziato, non numerosi, ma colti, come Camillo Caracciolo, Giovanni e Maurizio Barracco, i Casanova, i Giordano, Atenolfi, D’Afflitto, Gallotti, Antonacci e i fratelli Pandola. La legazione sarda divejine via via un focolare di cospirazione nazionale, mentre il Consolato faceva più aperta propaganda, distribuendo manifesti e giornali, soprattutto il Corriere Mercantile e rilasciava passaporti a quanti volevano emigrare in Piemonte. Il console generale era il Fasciotti, morto di recente senatore del Regno. La legazione e il consolato di Sardegna avevano sede alla Riviara, la prima al palazzo Ottaiano, dov’è oggi l’albergo della Rivière, al numero 127, e il secondo [p. 107 modifica]al palazzo d’Avalos. Villamarina, giunto nel febbraio del 1860, andò a stare al palazzo Strongoli, e nell’estate successiva, a Villa Tommasi a Capodimonte.

Il Nunzio aveva sede nel suo palazzo, in piazza della Carità; il ministro d’Austria abitava il palazzo Strongoli alla Riviera; i ministri di Francia e di Russia alla Ferrandina; Temple, al palazzo Policastro; Bermudez, al vecchio palazzo Esterhazy alla Riviera, e al palazzo Francavilla, l’incaricato interino di Svezia e Norvegia. La Turchia non aveva rappresentanza a Napoli, mentre Napoli l’aveva a Costantinopoli.


Introduttore degli ambasciatori e primo cerimoniere di Corte era don Alfonso d’Avalos, marchese di Pescara e Vasto. Pietrantonio Sanseverino, principe di Bisignano, era maggiordomo maggiore; il duca di San Cesario, Gennaro Marulli, cavallerizzo maggiore; il duca d’Ascoli, Sebastiano Marulli, somigliere del corpo; monsignor don Pietro Naselli, cappellano maggiore; il principe di Campofranco, Antonio Lucchesi Palli, maggiordomo maggiore onorario. Il marchese D’Avalos, stimato il più ricco signore del Regno, dopo Barracco, era sopraintendente generale degli Ordini mendicanti. Cavalieri di compagnia, il duca Riccardo de Sangro e il conte Giuseppe Statella. Fra gentiluomini di camera, maggiordomi di settimana e gentiluomini di entrata, brillava a Corte quasi tutta l’aristocrazia napoletana e sicula.

I gentiluomini di camera di entrata, e i gentiluomini di camera con esercizio, si chiamavano anche chiavi d’oro, perchè solevano portare sull’abito, come distintivo della loro carica, dentro piccolo ed elegante sacchetto, una chiave d’argento dorato, per indicare che essi potevano entrare dappertutto nella Reggia. Sulla chiave si leggevano incise le iniziali: V. R. S. che significavano Vitae Regis Securitas.

Erano quasi tutte cariche onorifiche non così quelle degli aiutanti generali del Re. Tra questi figuravano in primo luogo i fratelli di lui: il conte d’Aquila, col grado di vice-ammiraglio e il conte di Trapani, col grado di brigadiere. Nelle feste e nei conviti di Corte, nei ricevimenti ufficiali e nei baciamani, i gentiluomini di Corte, i maggiordomi e i gentiluomini di camera avevano, naturalmente, il primo posto dopo i sei altissimi dignitarii. Con tutti, ma principalmente coi capi di Corte, il Re usava con [p. 108 modifica]napolitana familiarità, chiamandoli per nome, parlando in dialetto, motteggiandoli e riprendendoli all’occorrenza. Per ragion di grado, ed anche per maggiori simpatie, egli vedeva più di frequente il suo aiutante colonnello Forcella e gli uffiziali alla sua immediazione: Leopoldo del Re, brigadiere di marina e Alessandro Nunziante, colonnello di stato maggiore. Con quest’ultimo era addirittura intimo e lo soccorreva largamente. Sapendolo in angustie pecuniarie, molto influì nella liquidazione del grosso patrimonio Calabritto, per cui a donna Teresa Tuttavilla, moglie del Nunziante e duchessa di Mignano, toccò una quota notevole della sostanza, il cui ricupero fu dovuto alle cure intelligenti dell’avvocato Giuseppe Bucci che aveva sposata donna Giulia, sorella maggiore di donna Teresa.

Si trovavano in contatto quotidiano col Re gl’impiegati della sua segreteria particolare, a cominciare dal colonnello D’Agostino, sposatosi in tarda età, con una delle belle e giovani figlie dell’avvocato Alfani, e a finire a Ferdinando Stähly. Al D’Agostino fece il Re quel volgarissimo scherzo nel giorno delle nozze. Il Re chiamava tutti per nome, anzi con diminutivi. Solo al Falcon, don Gioacchino, dava del voi. Aveva particolare fiducia in Gaetano Zezon, genero del Carrascosa e che era un bel giovane e di vivace talento. Lo chiamava Gaetanino. Ma poco mancò che toccasse, nel 1856, allo Zezon quanto avvenne nel 1852 a Leopoldo Corsi. Cameriere personale del Re e nel quale egli riponeva una discreta fiducia, era il Galizia, che ebbe anche la sua celebrità, ma che non si valse della posizione presso il Sovrano per far quattrini, nè forse Ferdinando II l’avrebbe tollerato. Galizia segui il Re, come si è veduto, in Calabria e in Sicilia, poi lo seguì nell’ultimo fatale viaggio in Puglia e lo assistette sino alla morte. Il Galizia morì in Napoli il 22 febbraio 1862 di apoplessia, a 65 anni, lasciando due figlie religiose nel conservatorio di Santa Maria di Costantinopoli, dotate da Ferdinando II, e due maschi, Ferdinando e Gennaro. Quest’ultimo fu prete e disse la prima messa nella cappella reale di Caserta, alla presenza del Sovrano e di tutta la famiglia reale. Dopo la messa, il Re baciò la mano al figliuolo del suo cameriere e gli donò un gruzzolo di monete d’oro, che il Galizia, padre, rifiutò, pregando Sua Maestà di voler solo permettere che il nuovo [p. 109 modifica]sacerdote dicesse ogni giorno la messa secondo l’augusta intenzione di lui. E il Re consentì e concesse poi all’abate Galizia un pingue beneficio, il quale, mutati i tempi, non gli fu riconosciuto e per cui egli mosse lite al governo Italiano. Il Galizia lasciò un patrimonio modesto. Uomo di poche parole e di molto tatto, fu, veramente, il solo che potesse affermare di conoscere a fondo il suo padrone, nel quale era entrato in grazia particolarmente per questo, che ben di rado gli chiedeva qualcosa, il che pareva inverosimile, perchè tutti chiedevano in Corte.

Il marchese don Michele Imperiale era cavaliere d’onore della Regina, la quale aveva per dama d’onore la principessa di Bisignano; per cavallerizzo, don Onorato Gaetani, e per dame di compagnia, la duchessa d’Ascoli e la marchesa di Monserrato. Figuravano, fra le dame di Corte, le principesse di Paternò, di San Nicandro, di Linguaglossa, di Satriano, di Pandolfìna, di Piedimonte, di Palazzolo, di Sant’Elia de Gregorio, di Cajanello e della Scaletta; le duchesse di Serracapriola, di Ascoli, di San Cesario, di Belviso, di Adragna; le marchesse Della Guardia e Di Alfano; la contessa Statella dei marchesi di Salsa, Grifeo e dei principi di Catena, e De la Tour, donna Luisa de Sangro. Queste dame, negli ultimi anni del regno di Ferdinando II, non prestarono servizio quasi mai. Maria Teresa aveva da principio cameriste e donne di camera per il suo servizio, ma cameriste non ne ebbe più, negli ultimi tempi, come sarà detto. L’amministrazione della Casa Reale aveva tre ripartimenti, un archivio centrale, una controlleria, una vedorìa e contadorìa, una tesoreria, una tappezzeria e una biblioteca privata. Era direttore della biblioteca il marchese Imperiale di Francavilla; capo della tappezzeria, il barone Falco il quale, essendo morto il 23 maggio del 1859, si disse ucciso dal dolore par la fine del Re che il giorno avanti era spirato. Gli successe il signor Francesco Oli. Era tesoriere il conte Forcella; vedore, don Ferdinando Scaglione; controllore, don Antonio Fava; archivista, don Raffaele Benedetti e capi di ripartimento, Cheli e Rossi.

Sopraintendeva a tutti, nella sua qualità di maggiordomo maggiore, il principe di Bisignano. Erano medici di Corte, Rosati, Ramaglia e De Lisi e chirurgo, don Niccola Melorio; avvocati di Casa Reale, Magliano ed Arpico; avvocato consulente, Antonio Starace; architetti. Persico, Puglia, Genovese, [p. 110 modifica]Zecchetelli e Giordano; direttore del museo borbonico, il principe di San Giorgio, don Domenico Spinelli; controllore dello stesso museo, Bernardo Quaranta; architetto degli scavi di Pompei, Genovese; degli scavi d’Ercolano, Bonucci; dell’anfiteatro di Pozzuoli, Michele Ruggiero; dell’anfiteatro Campano e tempio di Pesto, Rizzi. Era prefetto della real biblioteca borbonica l’abate Selvaggi e presidente della giunta di detta biblioteca, l’abate Giustino Quadrari, valoroso grecista, nativo di San Donato Val di Comino, nel circondario di Sora.

Confessava il Re monsignor Antonio de Simone, e la regina, il padre Giovanni Sabelli, liguorino della provincia austriaca, tedesco di nascita e di nazionalità, benchè di cognome italiano e discepolo del beato Clemente Hofbauer, liguorino e propagatore del suo Ordine in Europa. Del principe ereditario era cappellano don Domenico d’Elia; confessore, monsignor Filippo Gallo; primo istruttore, il retroammiraglio don Giovanni Antonio della Spina, e secondo istruttore, il brigadiere del genio, Francesco Ferrari. Il brigadiere Niola di artiglieria, il colonnello Cappetta, il maggiore Galasso, il capitano Francesco Giannico del genio, e il tenente colonnello Presti erano gl’istruttori dei principi secondogeniti, ai quali, come al duca di Calabria, aveva insegnato il catechismo e l’abecedario lo scolopio padre Pompeo Vita, di Torre Santa Susanna, che restò in Corte per impartire lo stesso insegnamento alle principesse e ai piccoli principi, sino al novembre del 1857. In quel tempo impazzì e fu sostituito da un altro scolopio pugliese, il padre Niccola Borrelli, di Foggia. Non è immaginabile quale influenza esercitasse il padre Pompeo in Corte, nè quella che vi esercitò, forse maggiore, sotto il regno di Francesco II, il padre Borrelli. Avevano indole affatto diversa questi due figli del Calasanzio. Il padre Pompeo, detto di San Carlo alle Mortelle, perchè già rettore di quel collegio, era uomo di strani scrupoli, per cui cadde su lui la maggior parte di responsabilità, circa la prima educazione del duca di Calabria. Si affermò che egli avesse carezzata nell’erede della Corona la materna tendenza ascetica, ed esagerato in lui il senso istintivo della rassegnazione, di dispregio delle pompe e di avversione alle donne, per cui Francesco II fu prima un Re e poi un pretendente così diverso da tutti gli altri principi e pretendenti della terra. Despicere [p. 111 modifica]terrena et amare coelestia, fu il precipuo insegnamento del padre Pompeo, in cui gli scrupoli erano tanto inverosimili, che non si credevano sinceri, ma invece ispirati dal desiderio di entrare sempre di più nelle grazie del Re, sul quale esercitò, senza parere, una grande influenza, riuscendo a salvare agli scolopii i due collegi di Napoli, San Carlo alle Mortelle e San Carlo all’Arena, e i collegi di Chieti, di Catanzaro, di Monteleone, di Avellino, di Maddaloni, di Campobasso, che i gesuiti volevano a qualunque costo. Egli era una potenza in Corte, e quando impazzì, si disse causa della pazzia il rimorso di avere, per conto della Regina, inebetito il principe ereditario con gli scrupoli e le paure religiose. Ma se di tanto non era capace, certo i risultati della sua influenza sul principe ereditario furono nefasti. Gli scolopii, i quali ritengono il padre Pompeo Vita, morto nel 1863, per un luminare dell’Ordine loro, ne difendono la memoria.

Altro uomo, altro frate, altro educatore fu il padre Borrelli. Rettore del collegio di Maddaloni quando venne chiamato a succedere al padre Pompeo, era stato professore a San Carlo delle Mortelle, dove aveva avuto, tra i suoi primi discepoli, Ruggiero Bonghi; e poi al collegio del Nazzareno a Roma. Era piccolo e tozzo, colore bruno, occhi grandi e sporgenti, punto bello, ma piacevolissimo, allegrone e uomo di mondo. Scriveva versi e portava gli occhiali. Era stato giobertiano sino al 1848, e gli era rimasta per Gioberti una costante devozione, benché, pur seguitando ad amarlo in segreto, non lo nominasse mai in pubblico. Ebbe in Corte una posizione invidiata. Ferdinando II si fidava di lui e celiava e barzellettava con lui, ma nei dovuti limiti; il duca di Calabria gli si affezionò tanto, che non dava alcun passo senza il suo consiglio; e le principesse e i piccoli principi lo amavano e scherzavano con lui, felicissimi di essersi sottratti all’incubo del padre Pompeo. Se narrerò un giorno la dimora della Corte di Napoli a Roma dal 1861 al 1870, il padre Borrelli avrà una pagina forse indimenticabile.

Questi due scolopii di Puglia ebbero dunque, successivamente, una parte importante nella Corte, come l’Ordine loro l’ebbe nel Regno. Gli scolopii erano in realtà più potenti dei gesuiti; e Ferdinando II li amava e li aveva ammessi nell’intimità, affidando loro la prima educazione e istruzione dei suoi [p. 112 modifica]figli. La Puglia dava il maggior contingente a quest’Ordine, Oltre al padre Pompeo e al padre Borrelli, erano pugliesi e benemeriti dell’insegnamento, il padre Trincucci, intimo di Vito Fornari, il padre Ferretti di Oria, il padre Nisio di Molfetta, il padre Leonetti di Andria, allora giovanissimo e che morì rettore del collegio del Nazzareno a Roma, e i padri Bruno e Campanella di Gioia, Nitti di Triggiano, Cericola di Foggia, Camerino di Ruvo e i fratelli Della Corte, il maggiore dei quali reggeva il collegio di Francavilla Fontana. Questo collegio contava più centinaia di alunni interni, la maggior parte di Puglia e di Basilicata, ai quali s’impartiva un insegnamento piuttosto largo, dati i tempi. Gli scolopii avevano collegi di novizii a Campi Salentino e a Galatina. Tanto il padre Pompeo che il padre Borrelli erano di umilissima origine, e il padre Borrelli, figlio di un mandriano, era stato protetto dal Santangelo, intendente di Foggia che lo fece educare nelle Scuole Pie.


Nel 1852 vennero riformate e distinte le due Consulte dei reali dominii di là e di qua dal Faro. La prima, composta di un presidente e di sette consultori siculi, risedeva a Palermo nel palazzo Villafranca; la seconda, formata da un presidente che era il ministro o il direttore di grazia e giustizia pro tempore, di un vice-presidente e di quindici consultori, risedeva a Napoli, nel palazzo della Solitaria. Avevano uffizio semplicemente consultivo negli affari, che al Re piacesse loro sommettere. Si distinguevano in quattro commissioni: per la giustizia e le cose ecclesiastiche, per le finanze e gli affari interni, per le regie prerogative di grazia e per i conflitti di giurisdizione tra l’autorità giudiziaria e l’amministrativa. C’erano de! relatori o, come si direbbe oggi, referendari!, nominati mercè pubblico concorso. Ciascun relatore doveva avere di suo la rendita di duecento ducati, ma bastava una semplice dichiarazione di assegno, fatta dal padre o da chi per esso. Dopo cinque anni di assiduo servizio, si apriva ai relatori l’alta carriera giudiziaria o amministrativa, ma soprattutto amministrativa, perchè il maggior contingente alla carriera giudiziaria era dato dall’alunnato di giurisprudenza, altra istituzione che va ricordata con onore. Presedeva la Consulta napoletana il Pionati, direttore di grazia e giustizia con referenda e firma; e di fatto, il vicepresidente [p. 113 modifica]Niccola Maresca, duca di Serracapriola. Avevano maggior fama, tra i consultori, don Francesco Gamboa, dotto e solenne; il barone Cesidio Bonanni, Emilio Capomazza, Tito Berni, Roberto Betti e anche Filippo Carrillo, benchè fosse stato zelante raccoglitore di firme per l’abolizione dello Statuto; anzi si ricordava una scena clamorosa avvenuta tra lui e l’Agresti, procuratore generale della Corte Suprema. Carrillo presentò la petizione agli alunni di giurisprudenza, che prestavano servizio alla Corte Suprema. Questi risposero che non avrebbero firmato, senza un ordine del procuratore generale. L’Agresti coraggiosamente li lodò e rimproverò il Carrillo, ma perdette le grazie del Re e non fu più invitato a Corte. Neppure i consultori di Stato ed i relatori firmarono quella petizione. Il duca di Serracapriola, che aveva sottoscritto lo Statuto, quale presidente del Consiglio, ne parlò al Re e questi gli diè ragione! Monsignor Salzano era succeduto nella Consulta a quel bonario monsignor Giuseppe Maria Mazzetti, il quale, predecessore del Capomazza nella sopraintendenza di pubblica istruzione, aveva riordinati gli studii superiori prima del 1848. Pochi oggi ricordano questo vecchio gioviale ed arguto, che fu in gioventù frate e amico dell’abate Galiani suo conterraneo, e morì a ottant’anni nel 1860 col titolo di monsignore. Gli era succeduto, dunque, monsignor Michele Salzano, il quale non aveva la cultura, nè l’animo gentile e signorile del Mazzetti. Il Salzano era domenicano, e fu da monsignor monsignor Cocle proposto al Re per consultore. Predicatore più verboso che facondo e decano del collegio dei teologi; scrittore di diritto canonico e di storia ecclesiastica; panegirista e polemista, e napoletano nel più ampio e volgar senso della parola, egli fu vescovo e arcivescovo titolare prelato domestico, accademico, cavaliere di più ordini, confessore di monache e, dopo il 1860, tenne a Napoli finchè visse le veci di nunzio pontificio, d’accordo fra la Santa Sede e l’ex Re, per cui non si concedeva dignità episcopale nell’antico Regno, senza sua proposta o beneplacito. Non andò immune da sospetti simoniaci. Morì vecchio, nel 1890, lasciando una fortuna. Era ghiotto di dolciumi, di maccheroni, di gelati, che chiamava ’o stracchino e di ogni altro cibo napoletano; delle sue ghiottonerie non faceva mistero, accettava pranzi, e nell’insieme aveva qualche cosa di pulcinellesco. Fu lui che pronunziò in Santa Chiara l’elogio di Ferdinando II, [p. 114 modifica]praesente cadavere. Coi nuovi tempi perde l’ufficio, e temendo, paurosissimo com’era, d’essere arrestato, emigrò in Francia; tornò e dal nuovo governo non ebbe molestie, nè limitazioni all’esercizio dei tanti incarichi, lucrosi tutti, ottenuti dalla Santa Sede. Una parte del mondo guelfo e legittimista di Napoli lo detestava, e il padre Curci ne discorreva con profondo disprezzo. Morì a Nocera dei Pagani, e alcuni minuti prima di esalare lo spirito, disse forte a coloro che lo assistevano: "Me dispiace sulo ca so venuto a muri mmiez’e pastenache„.2 Ferdinando II ne aveva stima, ma ne stava in guardia; e quando alla Consulta gli dava la parola, diceva sempre: "Munsignò, jamm’a franche„.3

Tra i consultori, sedevano, come ho detto, il Gamboa e il Bonanni. Il primo fu per tre mesi ministro di Francesco II; il secondo, ministro di grazia e giustizia nel primo gabinetto costituzionale del 1848, tenne aperto il libro dei Vangeli, sul quale Ferdinando II posò la mano giurando fede alla Costituzione. Quando si cominciò a parlare di abolizione dello Statuto, il consultore Bonanni al giovane relatore Giuseppe Colucci, che gli manifestava i suoi timori, rispondeva: “Hanno da tagliare queste mani, prima di abolire la Costituzione„, ricordando il fatto di aver lui tenuto il libro degli Evangeli in quel memorabile giorno. Ebbe ragione. Le sue mani non furono tagliate, perchè la Costituzione non venne mai abolita. Restò abolita di fatto sopra richiesta dei sudditi! Il Bonanni era abruzzese, come il Corsi e il Betti. Questi, nativo di Vasto, aveva fama di liberale, perchè amicissimo di Pier Silvestro Leopardi e perchè a Reggio, dove fu intendente, lasciò buon nome e larghe simpatie tra i liberali, fra i quali lo avvicinarono Casimiro de Lieto e Agostino Plutino. Il consultore Lotti era stato intendente a Foggia e il principe Capece Zurlo, a Caserta, anzi si trovava a Caserta quando fu aperta la ferrovia che uni il Real sito a Napoli. Il figlio del consultore Lotti sposò una signorina Friozzi dei principi di Cariati e fu, col titolo di conte di Oppido, elegantissimo nella società napoletana.

La Consulta aveva nel campo amministrativo la stessa alta [p. 115 modifica]reputazione della Corte Suprema nel campo giudiziario. Se in questa facevan utile tirocinio gli alunni di giurisprudenza, alla Consulta vi erano i relatori che uscivano, ordinariamente, consiglieri d’intendenza o sottointendenti. Se l’alunnato di giurisprudenza produsse magistrati come Talamo, Capomazza, Giannuzzi-Savelli, Nunziante, Bussola, De Marinis, Ciampa e tanti, che onorarono e alcuni ancora onorano la magistratura napoletana, la Consulta diè amministratori come Giuseppe Colucci e Gaetano Cammarota, e magistrati come Vincenzo Calenda e Luciano Ciellaro. Nel 1855 erano relatori, tra gli altri, Gaetano Pacces, oggi prefetto in ritiro; Vincenzo Calenda, procuratore generale della Cassazione di Napoli e il fratello Andrea, già prefetto di Roma. Colucci e Cammarota uscirono nel 1862 sottointendenti il primo, a Cittaducale, e il secondo, a Gerace. Dalla Consulta uscì pure Mariano Englen, governatore di Salerno nel 1860, poi consigliere d’Appello di Napoli, il quale ebbe nel 1870 un quarto d’ora di celebrità, perchè, presentandosi candidato nel primo collegio di Napoli, contro l’ex sindaco Guglielmo Capitelli, cambiò partito, passando da destra a sinistra e il passaggio tentò giustificare con un opuscolo intitolato: Trasibulo in Italia. Era, del resto, un brav’uomo.

Aggiunto alla Consulta esisteva un ufficio speciale per la concessione del regio exequatur sulle bolle di Roma, anzi sulle carte di Roma, come si diceva in linguaggio ufficiale. Delegato a tale uffizio era, per le provincie napoletane, il Capomazza e per la Sicilia, Michele Muccio, presidente della Corte Suprema di Palermo. Sulle carte di Roma don Emilio portava tutta la sua tanucciana diligenza. In quegli anni non fu consumata e neppur tentata alcuna usurpazione dalla Curia romana. Il Re non recedeva dai suoi diritti, sanciti dal Concordato. Rispettava il Papa; l’ospitò largamente a Gaeta, a Napoli e a Portici; fece la famosa e poco gloriosa spedizione negli Stati della Chiesa; andò, nel luglio del 1866, a Porto d’Anzio, dove Pio IX era a villeggiare, conducendovi il principe ereditario, ma nulla di più. I vescovi li sceglieva lui, baciava loro la mano, ma dovevano essere ecclesiastici di sua fiducia. Il regio patronato non era per Ferdinando II una cosa da burla e la maggior parte delle diocesi di tutto il Regno, più di cento, tenendo conto delle prelature nullius, erano di regio patronato. [p. 116 modifica]Parlando di Roma, egli soleva dire: " Col Papa, patti chiari e amici cari„.

Sopravvivono pochissimi degli arcivescovi e vescovi di quegli anni. La morte ha largamente mietuto nel campo ecclesiastico. Monsignor Rossini, arcivescovo di Acerenza e Matera, morì qualche anno fa, decrepito, a Molfetta, dopo che la Santa Sede avevalo privato del governo effettivo della diocesi. Il celebre monsignor Di Giacomo, di Piedimonte d’Alife, morì anch’egli, quasi novantenne, a Napoli nel 1878. Fu creato senatore nel 1863 e frequentò, nei primi anni, il Senato; ma incorse nelle ire di Roma che gli diè un coadiutore, da lui non chiesto. Morto frà Luigi Filippi, vescovo di Aquila, un francescano pieno di ardore evangelico e di liberi sensi, e morti i cardinali che erano a capo delle tre diocesi più importanti, cioè: Sisto Riario Sforza, arcivescovo di Napoli, don Giuseppe Cosenza, arcivescovo di Capua, ricordato con onore anche dal Settembrini e il buon Carafa di Traetto, arcivescovo di Benevento. Il primo e l’ultimo morirono a Napoli, e il secondo nel 1863 a Capua, pianto come un padre. Tra i pastori di maggiore notorietà, ricordo, oltre a monsignor Di Giacomo di Piedimonte, monsignor Clary, arcivescovo di Bari, al quale successe monsignor Pedicini; monsignor Apuzzo di Sorrento, che più tardi successe al Capomazza come revisore e morì cardinale e arcivescovo di Capua; monsignor Zelo di Aversa, che si disse aver ottenuto il vescovato per simonia. Alla bontà ineffabile di monsignor Di Giacomo faceva strano contrasto, nella stessa provincia, monsignor Montieri di Sora, infatuato di assolutismo, zelante persecutore di liberali, amico personale del Re; e, benché non fosse vecchio, sempre tra la vita e la morte. Era emottoico. Contrastavano in Terra di Bari i vescovi di Andria e di Conversano: un fanatico rude, come monsignor Longobardi, e uno spirito veramente apostolico e signore, se non di nascita, di maniere, come monsignor Mucedola, il quale non volle firmare la petizione per l’abolizione dello Statuto. Chiamato nel giugno del 1851 ad audiendum verbum, in Napoli, vi andò senza paura. Vide prima il Peccheneda e poi, a Caserta, il Re. All’uno e all’altro disse che non aveva firmato quel documento, avendo giurata la Costituzione, ma lasciava liberi i suoi [p. 117 modifica]preti di firmarlo, essendo un affare che riguardava la loro coscienza. Il Re non seppe che rispondere a un ragionamento così logico, e parve anzi che approvasse la condotta del vescovo; ma quando questi fu andato via, si racconta che dicesse: "Vi che mme fa ’o parrucchiano ’e san Paulo!4 Il Mucedola era parroco di San Paolo presso Sansevero, quando fu assunto al vescovado per il favore del marchese Lagreca di quella terra, lontano parente dei Lagreca di Polignano a mare. Il Re se la legò al dito e monsignor Mucedola fu dei pochissimi, che non ebbero mai onorificenze; anzi nel 1859, in occasione del matrimonio del principe ereditario, avendo assistito in Bari alla benedizione nuziale con gli altri vescovi della provincia, fu il solo, tra questi, non decorato della croce di Francesco I. Erano anche miti pastori il De Bianchi, arcivescovo di Trani, e il Guida, vescovo di Molfetta.

Contrastavano in Terra d’Otranto monsignor D’Avanzo a Castellaneta, prepotente, violento, quasi birro in paonazzo, morto cardinale e vescovo di Teano, e quel buon monsignor Caputo di Lecce; e contrastavano in Basilicata monsignor Di Macco, arcivescovo di Matera e Acerenza, che Ferdinando II chiamava, per ironia, il Ghibellino, e monsignor Acciardi, vescovo di Tursi e Anglona, famoso per il suo spirito reazionario e poliziesco. Monsignor Di Macco, nativo di Gaeta, molto si adoperò a beneficio dei perseguitati politici e non sottoscrisse, neppur lui, la petizione per abolire lo Statuto. Mite e non del tutto avverso al progresso civile, era monsignor Pieramico, vescovo di Potenza. E contrastavano in Capitanata monsignor Taglialatela, vescovo di Manfredonia, sapiente prelato, e monsignor Javarone, vescovo di Candela e Cerignola, già confessore del Re, terrore dei laici, inframmettente e intransigente. Egli stesso confessava i seminaristi per sorprenderne alcuni segreti e incuteva tanta paura, che il seminario si chiuse, perchè nessuno volle più andarvi. Monsignor Javarone morì nel 1855 e gli successe monsignor Todisco Grande, non carne, nè pesce. Due prelati di Andria occupavano le diocesi di Foggia e di Lucera: monsignor Frascolla, la prima e monsignor Jannuzzi, la seconda; amendue devotissimi al Re, ma d’indole diversa, perchè Jannuzzi era [p. 118 modifica]mite e aveva rigori più apparenti che reali, e monsignor Frascolla, rigorista non da burla, aveva una dose di fanatismo, per cui ebbe condanna di carcere e multa nei primi tempi del nuovo regime. Monsignor Jannuzzi era succeduto in Lucera a monsignor Portanova. Aveva un vicario, certo Castrucci, il quale diè motivo di pubblico scandalo per la tresca con una donna della diocesi, che il vescovo fece poi sposare al suo cameriere, allontanando, quando l’opinione pubblica glielo impose, il troppo caldo vicario. Monsignor Jannuzzi, che apparteneva a ricca e civile famiglia, fu debole coi sacerdoti audaci e forte coi deboli, fino al punto da far arrestare dalla gendarmeria a cavallo, appositamente chiamata da Foggia, quattro sacerdoti della collegiata di San Domenico, che si erano messi in urto con lui e col capitolo, per certi privilegi che vantavano. Li fece tradurre nelle carceri di Foggia. Ma in fondo era buono e generoso, e tutte le sue entrate impiegava a vantaggio della chiesa. Rifece il seminario, chiamandovi professori egregi, ma odiava i liberali, nè volle mai interporre i suoi buoni uffici a favor loro, anzi sopravvive in Lucera una sua frase: "Li mando a Tremiti„.

Del resto, tranne pochi fanatici, i vescovi non facevano politica, benchè giurassero di rivelare all’autorità tutti coloro, che erano ritenuti pericolosi alla sicurezza dello Stato. Sisto Riario Sforza era molto amato per il suo zelo di pastore e l’esemplare costume. Fu vero apostolo di carità nel colera del 1854 a Napoli. Cortese, generoso, uomo di governo e, all’occorrenza, arguto senza volgarità. Ricordo un aneddoto. Il municipio di Napoli ha il patronato della cappella di San Gennaro in duomo, e il sindaco è presidente della commissione, detta del Tesoro. In alcuni giorni di funzioni solenni, il sindaco si reca alla cappella, e prima sale dal cardinale arcivescovo, per andarvi insieme. Quando Guglielmo Capitelli fu sindaco di Napoli, la prima volta che andò dal Riario Sforza, per tale cerimonia, vi giunse in ritardo e, nell’inchinare il cardinale, sdrucciolò sul pavimento e stette per cadere. Riario Sforza lo sorresse con le mani che aveva bellissime, e sorridendo gli disse: “È un municipio vacillante„; e il Capitelli, pronto: “Forse, ma la Chiesa lo sorregge„. Riario Sforza mori nel 1877.

Abate di Montecassino era don Michelangelo Celesia, oggi cardinale e arcivescovo di Palermo; don Onofrio Granata era [p. 119 modifica]abate di Cava; don Gioacchino Cestari, di Montevergine, monsignor Elia, gran priore di San Nicola di Bari, e monsignor Falconi, arciprete mitrato di Acquaviva e Altamura.


Ma, tra gli alti ecclesiastici, il nome che, per una serie di casi, venne più ripetuto e discusso, fu veramente quello di monsignor Niccola Caputo, vescovo di Lecce, nobile napoletano di famiglia marchesale, ora estinta nei Palamolla, perchè l’unica sua sorella, marchesa di Cerveto, sposò quel Biagio Palamolla, marchese di Poppano, che ospitò, come si è detto, Ferdinando II a Torraca nel 1852. Vescovo fin dal 1818, egli era quasi decrepito. Lo amavano i suoi figliani per la inesauribile bontà. Liberaleggiò nel 1848, come liberaleggiarono quasi tutti i vescovi del Regno, e quando infierì la reazione, non imitò il D’Avanzo, nè il Montieri, nè il Longobardi. A Lecce era intendente un fanatico in politica, ma personalmente retto, il Sozi Carafa. O per opera dell’intendente, o per denunzie pervenute in Corte, monsignor Caputo fu chiamato dal Re e tradotto, si disse, tra i gendarmi, fino a Capua, dove il Re lo ricevette per ammonirlo severamente, presente il cardinal Cosenza. Gli scrittori di Corte stamparono che il Re avesse chiamato monsignor Caputo per accertarsi de visu delle sue condizioni di salute e giudicare se fosse il caso di dargli un coadiutore. Cosi affermò, tra gli altri, monsignor Salzano, testimone assai sospetto.

Nei suoi confronti fra i bilanci sardi e napoletani, esaminando gli affari ecclesiastici di Napoli, Antonio Scialoja, dopo aver notato che l’alto clero si era mostrato poco propenso alle novità politiche, concludeva: "Scrivendo queste parole, mi corre alla mente il nome d’un personaggio ch’io non conosco, ma che fuori e dentro il Regno ho cento volte udito ricordare con riconoscenza e con affetto: il nome di monsignor Caputo, vescovo di Lecce. Questo vecchio venerando non è stato neppur lui esente da violenze politiche; e sebbene estraneo alle passioni del mondo e vero ministro del Vangelo, fu tratto come prigione tra gendarmi da Lecce sino a Napoli, e condotto al cospetto del principe, per giustificarsi non saprei di qual colpa, se non fosse quella d’essere un santo vescovo ed un uomo dabbene. La fronte serena e solcata dagli anni, il viso aperto, l’aspetto umile ad un tempo ed imponente dell’onesto uomo oltraggiato, e quella [p. 120 modifica]purità di coscienza che rende sicura la voce e calmo e pacato lo stesso sdegno dell’anima, dicesi, che gli facesse cadere a’ piedi chi pretendeva di giudicarlo. Fossero meno rari i vescovi come il Caputo!„

Queste lodi irritarono in sommo grado il Re, e fa obbligato l’ottantenne vescovo a scrivere o a sottoscrivere questa strana lettera da lui diretta a monsignor Salzano. Eccola nella sua integrità: "Monsignor don Vincenzo Lotti mi onorò de’ vostri saluti, e mi disse che mendacio sul mio conto in Piemonte erasi scritto. Ne sono oltremodo addolorato: è un vilipendio per me essere sulle labbra di chi si parla sbrigliatamente; e voglio che questa mia indignazione sia solenne. Nulla ho di comune con uomo senza verecondia. Sia pure a me da Voi compartito questo favore; la mia canizie invoca la verità che l’orni e la coroni, non il mendacio. E poteva per me darsi nel giugno e luglio 1856 un Sovrano più caro di Ferdinando II, anzi di vero amico? Sì, il mio Padrone e Re in quella mia avventura fece con me quel che il vero amico sappia fare. Sono, monsignor mio, commosso a tante nequizie impudenti colà in Piemonte„.

Il faceto Salzano si servì di questa lettera, pubblicandola trionfalmente nella confutazione ch’egli fece dello Scialoja, ma i maligni asserirono che la lettera l’avesse scritta egli stesso, e mandata a firmare al Caputo. E n’era capace.







Note

  1. Lettere di Alfonso Casanova a Carlo Morelli, pubblicati da R. de Cesare nel suo libro: Una famiglia di patriotti. — Roma, Forzani, 1889.
  2. Mi dispiace solo di essere venuto a morire in mezzo alle pastinache, ricordando che la terra di Nocera n’è feracissima.
  3. Frase dialettale, che vuol dire: non ci canzoniamo a vicenda.
  4. Vedi che mi fa il parroco di San Paolo!