La fiera di Sorocinzi

russo

Nikolaj Vasil'evič Gogol' 1831 1903 Ascanio Forti Indice:Gogol - Novelle Ukraine, traduzione di Ascanio Forti, Sonzogno, Milano, 1903.djvu Novelle La fiera di Sorocinzi Intestazione 7 dicembre 2023 100% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Novelle Ukraìne


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NOVELLE UKRAINE



LA FIERA DI SOROCINZI



I.

Come è inebriante e sfolgorante una giornata estiva nella piccola Russia! Di che afa languida sono pervase le ore, quando mezzogiorno arde nella calma e i gorghi di azzurro, infiniti, stesi in vòlta incandescente, pajono volere abbracciare e stringere la terra e dormire poi annegati di voluttà. In cielo nemmeno una nube, non una voce ne’ campi. Tutto morto. In alto, lontano, sperduta nell’azzurro, si vibra la lodoletta e la sua canzone argentina scende sino alla terra amorosa. Poi, qualche volta, lo schiamazzo della pavoncella e il grido sonoro della quaglia echeggiano nella steppa. Fiacche e spensierate, come chi cammina senza mèta, si elevano le ombrose querce, e il sole affocando e irraggiando pittorescamente alcune masse di frasche, avvolge le altre in un’ombra nera come la notte, dalla quale il vento sprizza e volteggia l’oro. Gli smeraldi, i topazi, gli zaffiri degli insetti eterei piovono su gli orti screziati e ombrati dagli snelli girasoli. Il fieno accatastato... le spiche bionde del grano che si accampano nella vasta pianura e si dilungano all’infinito... i rami de’ ciliegi, de’ susini, de’ meli e de’ peri che si inchinano sotto il peso della frutta... il cielo assorto nella contemplazione della propria imagine entro l’acqua del fiume dalle rive redimite di verdura... tutto è inebriante e voluttuoso nei giorni estivi della piccola Russia. [p. 14 modifica] Di questo splendore vibrava e ardeva una giornata calda d’agosto del milleottocento... milleottocento... sì, sarà una trentina d’anni, quando a dieci verste da Sorocinzi era un rigurgitare, un urtarsi, uno svariare di popolo affluito per la fiera da tutti i villaggi circonvicini. Fin dalle prime ore del mattino passava una fila sterminata di ciumaki1, con provvista di sale e pesce, sui quali le pentole ammonticchiate sotto il fieno si movevano adagio adagio, come annojate della loro buja prigione. Qua e là, però, qualche conca o pentola dipinta mostrava lo sfolgorio de’ suoi colori agli amatori del lusso. Molti passeggeri invidiavano quel pezzo d’omone del pentolajo, che camminava a passo tardo dietro a questi suoi tesori, coprendo a quando a quando gli zerbini e le civettuole di creta più in vista con una manata di fieno morale. Un carro trascinato da due bovi stanchi, con sopravi sacchi, canapa, tela, masserizie domestiche, si teneva in disparte. Dietro seguiva il proprietario vestito con una blusa di lino molto pulita e con un pajo di calzoni di tela molto sporchi. Col gesto affaticato della mano si asciugava il sudore che gli colava giù pel viso abbronzato, fin sui baffi impolverati da quel parrucchiere inesorabile, che da tanti migliaja d’anni incipria per forza i belli e i brutti di tutto il genere umano.

Presso lui, legata dietro il carro, camminava una cavalla di età avanzata.

Molti, e specialmente i giovani, raggiungendolo e oltrepassandolo lo salutavano con rispetto, non tanto per i suoi baffi grigi e per la gravità del suo aspetto, quanto per una ragione che poteva sapersi alzando gli occhi verso il carro. Sul quale un visino rotondo di bella ragazzina, dallo splendore quieto e bruno degli occhi, sui quali incurvavansi due perfetti archi di sopracciglio, dal sorriso di due labbruzzi di rosa, dalle lunghe treccie adorne di nastri rossi e azzurri e di fiori di campo, formava un quadro meraviglioso.

Ogni cosa attirava l’attenzione di questa giovinetta: tutto le pareva strano e nuovo... e i suoi occhî vispi fuggivano da un luogo a un altro senza riposo. [p. 15 modifica] Sfido io! Come si fa a non distrarsi! Alla fiera per la prima volta! Una ragazzina di diciott’anni alla fiera per la prima volta! Ma nessuno de’ viandanti poteva imaginare quanto le fosse costato a persuadere suo padre di condurcela; non mica per lui, che l’avrebbe condotta anche troppo volentieri, ma per quella strega della matrigna, la quale lo sapeva tenere e guidare con la stessa facilità con cui egli guidava la sua cavalla, che ora portava a vendere, in ricompensa dei lunghi servigi avuti.

La rabbiosa matrigna... Ah! ma ci siamo dimenticati di dire che sul carro c’era seduta anche lei, infagottata in uno sgargiante abito verde, macchiettato a mo’ della pelle dell’ermellino, e in un enorme grembiule a quadri grandi di scacchiera. Aveva la rubiconda faccia affogata in una cuffia di percalle a colori, e ne’ lineamenti del viso ci stava un certo non so che di dispettoso e di arcigno, che il malcapitato che la guardava s’affrettava subito a ristorar gli occhi sul gajo visino della figliettina. Agli occhi de’ nostri viaggianti incominciava ad apparire la vista del Psiol2<nowiki>; da lontano veniva un alito di fresco che ristorava dall’arsura penosa e sfibrante. Da principio, attraverso al verde degli olmi, delle betulle e de’ pioppi, era come un errare di scintille e di spruzzi di luce e di riflessi biancheggianti al sole, finchè il bel fiume denudò il freddo seno d’argento, sul quale s’inchinavano le chiome frondose degli alberi. Con la stessa capricciosità fantastica di una bella donna, che nelle ore inebrianti si pone davanti allo specchio che riflette la gloria della fronte splendida, delle spalle di giglio e del collo di marmo, onde si riversano i capelli e getta via stanca gioje e adornamenti e li rinnova per saziare la sua smania di sempre nuovi e sempre vari capricci; il fiume quasi ogni anno volge altrove il suo corso e s’interna per nuovi paesi, bagnando nuove vie. Le sfilate dei molini agitavano sulle loro pesanti ruote onde e schiaffi d’acqua, che rigettati a forza si rompevano in trine e spruzzi bianchi e spumosi, coprendo di polverio d’acqua e di rumore il vicinato. [p. 16 modifica] Il carro, coi passeggieri che ci son noti, salì sul ponte e il fiume si scoperse in tutta la bellezza maestosa, come un cristallo d’un sol pezzo. Il cielo, i boschi verdi, gli uomini, i carri, le pentole, i molini, tutto stava o camminava capovolto e colle gambe all’insù, senza cadere nella magnifica profondità azzurrina.

Guardando tutte queste cose, la nostra bella si fece pensierosa e abbandonò perfino i semi di girasole che aveva rosicchiati fino allora, con molta devozione, per tutta la strada.

A un tratto l’esclamazione: «Oh, che bella ragazzina!» le fecero girar gli occhi indietro, dove, fra un gruppetto di giovani, ce n’era uno, col cappello bigio di pecora di Astrakan, vestito di una graziosa svita3 bianca, che guardava arditamente tutti coloro che passavano. Non ostante fosse un po’ abbrunito dal sole, era sì bello e così pieno di simpatia il volto di quel giovinotto, e sì ardenti erano i suoi sguardi, che ella non potè fare a meno di fissarlo per un poco, e di abbassar poi gli occhi pensando che quelle parole erano state pronunciate, forse, per lei.

– Che graziosa ragazzina! – seguitava a dire il giovinotto dalla svita bianca, sempre guardandola. – Darei tutto quel che possiedo per baciarla. Peccato che abbia il diavolo accanto!

Le risa scoppiarono dappertutto a tale complimento. Il quale però non andò a garbo alla sgargiante matrigna, che colle guance in fuoco, dette la via a uno scoppio di epiteti poco lusinghieri per l’allegro giovane.

– Dio voglia che tu muoja strangolato, vagabondo maledetto! Che caschi una pentola sulla testa di tuo padre! Dio faccia che e’ si rompa il collo sul ghiaccio, anticristo maledetto; e che il diavolo gli arrostisca la barba nell’altro mondo!

– Senti come bestemmia! – rispose il giovane guardandola a occhî spalancati e sbalorditi. – Come fa a non impiagartisi la lingua, pezzo di strega di cent’anni, a parlare così!...

– Di cent’anni? – colse a volo la bellezza [p. 17 modifica]stagionata – di cent’anni? Sfacciato! Va’ prima a lavarti il muso nero! Io non ho mai visto la tua mamma, ma non può essere che robaccia; anche tuo padre dev’essere poco di buono. Di cent’anni, sentite! Perchè lui ha ancora il latte fra’ denti!...

Il carro in questo momento aveva oltrepassato il ponte, sicchè il seguito delle eloquenti argomentazioni della matrigna si perse nell’aria.

Ma il giovane non la volle finita qui, e senza nemmeno pensarci raccattò una palla di mota e la tirò...

Non avrebbe imaginato mai che il colpo fosse così ben diretto: la cuffia si trovò seppellita nel fango e tutti ne risero a gola aperta.

La pingue civetta ebbe degli impeti d’ira e montò su tutte le furie; ma il carro s’era allontanato e la vendetta cascò addosso all’innocente figliettina e al lento consorte, il quale però, uso da gran tempo a tali scenate, accoglieva quella salva di parole furenti colla più invidiabile calma. Ma la lingua della focosa consorte non ebbe più posa e seguitò a scoppiettare, a balzellare, a mandar fuori spruzzi di saliva ed ogni sorta di rumori, finchè non arrivarono tutti da compar Cipolla, un cosacco, vecchio loro amico.

L’incontro dei due compari, che non si erano più visti da un pezzo, scacciò momentaneamente il nojoso incidente e volse le chiacchiere sulla fiera. Quindi tutti si riposarono della stanchezza del viaggio.

II.

Qualche volta vi sarà accaduto di ascoltare da lontano il fragore di una cascata, che empie di rumore i dintorni e vi fa fluttuare e turbinare dinanzi un caos di suoni strani e confusi. Si prova una simile sensazione quanto ci sentiamo trascinati nell’ingluvie voraginosa di una fiera campestre: le masse compatte di persone divengono un mostro multiforme, che sconvolge tortuosamente ogni membro del corpo per la piazza e per i vicoli, gridando e rumoreggiando. Schiamazzi, imprecazioni, muggiti, strilli, belati: tutto si fonde e si confonde in un frastuono assordante. I bovi, i sacchi, [p. 18 modifica]il fieno, gli zingari, le pentole, le donnicciuole, i panforti, le berrette, tutto s’agita, freme, vive, ondeggia sotto gli occhi, splendendo e facendo rumore. Le varie voci si mischiano insieme e si affogano nel gran mare dei rumori, senza che nessuna parola emerga chiara e intera. I mercanti smanacciano dappertutto: di qua si fracassa una carrozza; di là si spezza il legname delle tavole; la testa è frastornata e non sa da qual parte voltarsi.

Il nostro contadino da un pezzo gironzolava tra la folla, colla figlietta dalle ciglia nere: s’avvicinava a un carro, ne toccava un altro, paragonava i prezzi e i suoi pensieri tornavano sempre ai dieci sacchi di frumento e alla vecchia cavalla menati alla fiera per vendere.

La faccia della figliettina diceva chiaramente che ella provava poco gusto a strofinarsi fra i carri di farina e il bestiame, e che si sarebbe meglio divertita laggiù, dove apparivano di sotto alle tende i nastri rossi, le buccole, le crocelline di stagno e di rame e i medaglioncini d’oro. Però lo spettacolo della fiera finì col divertirla.

Non ne poteva più dalle risa vedendo qui uno zingaro o un contadino, che si erano inciampati colle mani e gridavano pel dolore sentito; là un ebreo ubriaco fradicio di kissel, che dava una ginocchiata per di dietro a una donna; qua dei pescivendoli che si scagliavano ingiurie e gamberi vivi; là un moscovita che si lisciava la barba da capraro con una mano, e con quell’altra... Ad un tratto si sente tirare per la manica ricamata della camicietta. Si volta indietro e... oh!... le sta dinanzi il giovane dalla svita bianca e dagli occhi lucenti. Sentì tremarsi tutta la persona e il cuore le si mise a battere, come non aveva battuto mai: nè di allegrezza nè di dolore, ma per qualche cosa di strano, eppur di soave, di cui non sapeva rendersi conto.

– Non aver paura, cuor mio, non aver paura! – le diceva il giovine a voce bassa prendendola per mano. – Non ti dirò niente di male.

La ragazzina pensò: «Può essere che tu non mi dica niente di male, solamente mi par di sentire una cosa curiosa... Dev’essere il diavolo...! Credo non [p. 19 modifica]stia bene, ma non ho forza di sottrarre la mano dalla sua.»

Il contadino si voltò verso la ragazzina per dirle qualcosa, ma la parola «grano» lo attrasse verso due contadini che discutevano, e niente potè ormai fuorviare la sua attenzione tutta rapita da essi.

Ecco qual conversazione s’era impegnata fra i due contadini.

III.

– Dunque, compare, tu credi che il nostro grano si venderà male? – Diceva un ometto dall’aspetto di un buon provinciale, in calzoni rigati a stampa, incatramati e pieni d’unto, ad un altro in svita turchina rattoppata, con una natta sulla fronte.

– Non si tratta di credere! Che io dondoli strozzato a quest’albero, come una salsiccia alla vigilia di Natale, se oggi si riesce a vendere uno stajo solo di grano.

– Ma che cosa tu mi vieni a dire, compare? Alla fiera non c’è nemmeno un chicco di grano di più di quello che abbiamo portato noi.

Qui l’attento padre della ragazza pensò: «Sì, sì: dite quel che volete, ma intanto io me ne tengo in serbo dieci belle sacca.»

– Già si sa, quando il diavolo ci mette la coda c’è da stare a cena come con un moscovita affamato! – disse serio serio l’uomo dalla natta.

– Che diavolo?

– Come! non hai sentito quel che dice la gente? - continuò quello dalla natta, guardando con occhi cupi il suo interlocutore.

– Che cosa?

– Che cosa?! Figurati che il prefetto, che non possa più bagnarsi la lingua nell’acquavite, il prefetto ci ha dato un posto così maledetto, dove, che io crepi se si vende un chicco. Ma che si gira! Lo vedi tu quel vecchio magazzino mezzo rovinato, là... più su... sì, proprio lì... sotto il monte. (Qui il padre della nostra ragazzina, curioso, s’avvicinò ancora di più e si fece [p. 20 modifica]tutt'orecchi). Lo vedi? Il diavolo sta lì, e si diverte e ti so dir io che non è passata nessuna fiera senza qualche disgrazia. Anche jeri sera tardi quando lo scrivano passò di lì vide – Dio ci liberi – un muso di majale che si mise a grugnire così forte da far tremare come una foglia. Da un momento all’altro c’è da aspettarsi che apparisca la svita rossa.

– Che roba è ella questa svita rossa?

Qui al nostro curioso ascoltatore i capelli si rizzarono tutti insieme sulla testa. Si voltò spaventato e vide... vide... la sua figliuola che canterellava d’amore allegramente, abbracciata col giovinotto, nell’assoluta dimenticanza di tutte le svite di questo mondo. Tale vista gli fece dimenticare il suo spavento e gli ridette la consueta spensieratezza.

– Ohe, ohe, compare! mi par che tu corra un po’ troppo... Io imparai ad abbracciare la mi’ Teodora, soltanto quattro giorni dopo che l’ebbi sposata, e perché un compare mi mostrò come si faceva...

Il giovinotto capì al volo che il padre della ragazzina non era poi tanto arcigno e tentò subito una via per metterlo in ballo.

– Forse tu non mi riconosci, galantuomo; ma io t’ho riconosciuto subito...

– Può essere che tu m’abbia riconosciuto...

– ...e se ti piace ti dirò anche chi sei, come ti chiami e tutto quello che vuoi. Tu ti chiami Solopi Cerevik.

– Sta bene: Solopi Cerevik.

– Guardami bene: non mi riconosci davvero?

– No davvero che non ti riconosco, e non te n’avere a male se te lo dico. In vita mia ho visto tante faccie, che nemmeno il diavolo se le ricorderebbe tutte...

– Peccato che tu non ti ricordi del figliolo di Olopupenko!

– Tu sei il figliolo di Olopupenko?

– O chi dovrei essere? A meno che io non sia diventato il diavolo calvo.

Dopo tale preludio dialogato i nuovi amici si sberrettarono e incominciarono a baciucchiarsi; ma il nostro figliolo di Opopupenko tagliò corto e venne subito alla cosa principale:

– Dunque, Solopi, tu vedi bene che io e tua figlia ci si vuol bene e vogliamo stare insieme per sempre. [p. 21 modifica] – Dunque, se’ d’accordo anche tu, eh Parasca? – disse Cerevik ridendo – tu ci staresti a fare insieme... come si dice?... a pascolare la medesima erba! Sta bene: diamoci la mano e tu, genero novello, paga da bere!

E il noto ristorante della fiera, presso alla tenda dell’ebrea, li vide tutti e tre insieme fra una squadra di damigiane, di bottiglie e di fiaschi di tutte le specie e di tutte le età.

– Bravo, così va bene! – diceva Cerevik un po’ brillo, stupito dalla facilità con cui il futuro genero colmava un boccale d’acquavite e lo faceva sparire in gola fino a una gocciola. – Che ne dici, Parasca? Non t’ho trovato un buon marito? Ma guarda, guarda come gli riesce tracannare l’acquavite...

Poi, tutto allegro e barcollante, s’avviò con lei verso il carro, mentre il nostro giovane visitava le botteghe de’ mercanti di Adiaci e di Mirgorod (due città celebri nella provincia di Poltava), in cerca d’una bella pipa di legno montata in rame, di un fazzoletto rosso a fiorami e di un berretto di pecora, per fare, secondo le costumanze, il primo dono nuziale al suocero e a chi bisognava.

IV.

– Dunque, mogliuccia mia, ho trovato marito alla nostra Parasca.

– Scioccone! gli è proprio il tempo questo di cercare i mariti!!... tu non metterai mai giudizio! S’è mai visto, s’è mai sentito dire che un uomo per bene vada a cercar de’ fidanzati? Tu avresti fatto meglio a pensare al grano. Dev’esser carino quel tuo sposo! Sarà il peggiore strappino fra tutti i mascalzoni.

– Se tu lo vedessi non diresti così. Solamente la sua svita costa più di tutti i tuoi giubbetti verdi e scarpe rosse. E non è nulla questo, se si pensa a come sa bere l’acquavite. Che il diavolo ci porti, se in vita mia ho visto mai un giovane come lui tracannarsene mezzo litro, senza batter palpebra.

– Ecco: basta che sia un ubriacone o un buono a [p. 22 modifica]nulla perchè ti vada subito a genio. Scommetto il collo che è quello stesso birbante che ci ha dato noja sul ponte. Mi dispiace che non mi sia capitato fra le mani... Te l’avrei conciato io, non dubitare!

– O se anche fosse lui, Teodora mia?... Perchè lo chiami un birbante?

– Testaccia senza cervello! Sentite un po’: domanda perchè dev’essere un birbante! O dove te li eri cacciati gli occhi, stupidone, quando si passava di sotto il molino!... Già, se anche avessero fatto chissà che cosa a tua moglie, sotto il tuo naso tabaccoso, non te ne sarebbe importato un fico!

– Pensala come vuoi, mi pare un bravo giovine e basta. Invece tu, perchè t’impiastricciò il musaccio di mota...

– Ma tu non mi lasci nemmeno dire una parola, questa sì che è bella!... In conclusione tu ti sei ubriacato e non hai veduto nulla.

Qui il nostro Cerevik si accorse di essere andato un po’ oltre con le parole, e lesto lesto si nascose la faccia tra le palme, in attesa della sfuriata e degli artigli della consorte.

E scansandola a quando a quando, pensava:

– Ecco tutto andato a monte: bisognerà rifiutare quel galantuomo per un nonnulla! Signore Dio mio, perché ci mandi questo flagello? Ma che ce n’era poca della robaccia in questo mondo! E tu hai voluto creare anche le donne!

V.

Il giovine colla svita bianca, seduto vicino al suo carro, guardava la folla che brulicava e rumoreggiava intorno a lui.

Il sole, stanco, abbandonava l’orizzonte, dopo aver riscaldato tranquillamente alla mattina e arso rabbiosamente a mezzogiorno. Il giorno estinguendosi nell’incanto di sfumature e vapori vermigli, colorava di luce roseo-ignea le cime delle tende e dei baracconi.

Ardevano i cristalli delle invetriate, le bottiglie e i [p. 23 modifica]bicchieri erano in fiamme: le zucche, i poponi e i cocomeri ammonticchiati parevano materiati di bronzo e d’oro. Dileguarano i rumori rari nella vasta sonorità del tramonto: le lingue dei contadini, dei rivenditori e degli zingari erano stanche e amavano riposare. Qualche fuocherello si accendeva e tremolava qua e là e per tutto si spandeva la fragranza dei gnocchi fritti.

– Perchè sei così triste, Giorgetto? – Gridò un alto e adusto zingaro battendo sulla spalla del nostro giovinotto. – Via! me li lasci per venti i bovi?

– Tu non fai altro che pensare a’ bovi, e quelli come te non sanno far altro che imbrogliare, guadagnare e spogliare il povero prossimo.

– Cosa diavolo almanacchi? Eccoti in bestia! ti dispiace d’esserti cacciato in qualche impegno amoroso?

– No: gl’impegni in cui mi caccio io li mantengo: quel che è fatto una volta è fatto per sempre... ma quel vecchiaccio di Cerevik, che non ha neanche un briciolo di coscienza, ha detto «sì» e ora si ritira. Ma forse non c’è da prendersela con lui, che è un pezzo di legno buono a nulla: tutta la colpa è di quella maledetta strega che abbiamo trattata così male sul ponte. Vedi: se io diventassi un re o un signore farei subito impiccare gl’imbecilli che si fanno guidare dalle donne.

– Se ci riesce di persuadere Cerevik a darti la sua Parasca, me li cedi i bovi per venti?

Giorgetto stupito guardò i lineamenti dello zingaro, sui quali c’era confuso un certo non so che di maligno, di volgare e di nobile, e capì che in quell’anima strana dominavano alcune grandi virtù, per le quali l’unico premio in terra è la forca.

La bocca rintanata tra il naso e il mento, sempre sconvolta da un malefico sorriso provocatore; gli occhi piccoli ma accesi come il fuoco; lo strano viso su cui si avvicendavano i lampi convulsivi di tristi espedienti; tutto questo esigeva una foggia strana di vestire, qual’era appunto la sua. Un pastrano oscuro, che solamente a toccarlo pareva volesse sfaldarsi in polvere, sulle spalle del quale si rapprendevano a boccoli i lunghi capelli neri – un pajo di scarpe che cercavano di coprire la vergogna di due piedi abbruciacchiati e turpi: tutto questo pareva contribuisse a integrare la sua indole. [p. 24 modifica] – Non per venti, ma per quindici te li lascierò, pur che tu non mentisca! – rispose il giovine guardandolo sempre fissamente.

– Per quindici? va bene, non dimenticartene: per quindici! Eccoti cinque rubli di caparra.

– E se tu mentissi?

– Tienti per tua la caparra...

– Va bene, dammi la mano.

– Eccotela.

VI.

– Passi di qui, sor Anastasio! Attento, c’è una siepe; alzi i piedi e non abbia paura: quell’imbecille di mio marito passa tutta la notte col compare a guardare che i moscoviti non portin via nulla dai carri.

In seguito a queste persuasive e incoraggianti parole, pronunciate dalla turbolenta consorte di Cerevik, il figlio del prete che nascondeva la sua paura sotto il parancolato, montò su di una siepe e vi restò fermo come un lungo fantasma pauroso, incerto per dove e come saltare, finchè precipitò sconciamente fra l’erbaccie, con sordo rumore.

– Dio, che disgrazia! che tonfo! Non s’è rotto, Dio ci scampi, il collo? – mormorava sollecitamente Teodora.

– Ps... non è niente, mia carissima Teodora, disse con voce piagnucolosa il figlio del prete, rizzandosi in piedi, niente: soltanto qualche puntura d’ortica, di quella pianta simile alla vipera, come diceva quella buon’anima del pievano.

– Venite; in casa non c’è nessuno. Non vedendola venire io dubitavo che le dolesse il corpo. Come va? Ho sentito dire che suo padre quest’anno ha avuto un monte di regali.

– Oh, poca roba, signora Teodosia! In tutta la quaresima a stento ha raggranellato quindici sacchi di grano, quattro di miglio, un centinajo di panini imburrati e appena appena una cinquantina di pollastre. Le uova poi sono tutte imbarlaccite... Ma – aggiunse il figlio del prete, facendo l’occhio languido – nessun [p. 25 modifica]dono è pregevole come quello che mi può dar lei, amorosa Teodora.

– Eccole il dono, signor Anastasio! – Diss’ella mostrandogli i vassoi e abbottonandosi confusa il giubbetto, che voleva far credere sbottonatosi a caso. – Eccole i cappelletti con la ricotta, i maccheroni, le frittelle e le polpette.

– Scommetto che tuta questa grazia di Dio è stata creata dalla più ingegnosa figlia d’Eva! – disse il figlio del prete, fra un boccone e l’altro di polpette, accostandosi i cappelletti. – Però il mio cuore, o mia bella Teodora, il mio cuore ha sete di altre cose più dolci di gnocchi e delle frittelle...

– Non so di che vivanda voglia parlare – rispose la bella corpulenta, fingendo di non aver capito.

– Parlo del suo amore, incomparabile signora Teodora – replicò Anastasio tenendo un dolce da una mano e abbracciando con l’altra il largo torace della matrona.

– Chissà cosa le salta in testa, sor Anastasio! – disse Teodora, abbassando gli occhi, pudicamente. – Le salterà anche il ticchio di darmi un bacio!

– Se sapesse – riprese subito il figlio del prete. – Quando io ero, per così dire, in seminario, mi ricorderò sempre che...

Nel cortile s’intesero subitamente de’ guaiti di un cane, seguiti da violenti colpi picchiati improvvisamente alla porta. Teodora corse in fretta e ritornò tutta pallida in viso.

– Presto, signor Anastasio! siamo scoperti. Fra la calca di gente che c’è fuori della porta, m’è parso di sentire la voce di mio marito.

Una polpetta rimase in gola al figlio del prete e gli occhi gli usciron fuori dall’orbite, sconvolti, come se avessero veduto un emigrato dall’altro mondo.

– Presto... salga lassù! – gridava la spaventata Teodora, mostrando le tavole adagiate su due travi, poco sotto al soffitto.

Il pericolo dette coraggio al nostro eroe. Riavutosi un poco saltò sulla stufa e di lì s’arrampicò fin sulle tavole, mentre Teodora corse verso la porta che rintronava di più validi e impazienti colpi. [p. 26 modifica]

VII.

Alla fiera era avvenuto un caso strano: s’era sparsa la voce che in qualche posto, fra le mercanzie, fosse apparsa la svita rossa e che una vecchia venditrice di ciambelle avesse veduto Satana in persona, che non faceva altro che ficcare sui carri il muso porcino, come per cercarvi qualcosa. Tali voci corsero ogni lato della fiera e tutti giudicavano delitto non crederle, tuttochè la venditrice di ciambelle, che teneva bottega vicino al bettoliere, facesse ogni sorta di saluti senza necessità, e coi piedi disegnasse delle curve, raffiguranti un po’ grossolanamente i suoi dolci appetitosi.

A queste voci s’aggiungeva il racconto snaturato ed esagerato del miracolo apparso nel vecchio magazzino, proprio sotto gli occhi dello scrivano.

Tutti questi paurosi racconti producevano in chi li ascoltava o li diceva certi vaghi timori, tantochè a notte tarda tutti si accostavano e si ammonticchiavano l’uno contro l’altro, e non ci fu più quiete. A ogni più impercepibile rumore, i poco coraggiosi spalancavano ben bene gli occhi e correvano a rifugiarsi in qualche casa.

Fra quest’ultimi era Cerevik con un suo amico e con la figlietta; e questi appunto, insieme con altri ospiti che si erano invitati da sè, erano stati la cagione di quel fracasso che aveva tanto spaventato la nostra Teodora. L’amico di Cerevik era un po’ brillo, e ciò lo dimostrava l’avere egli girato il cortile per due volte col carro, prima di trovare la porta di casa. Anche gli ospiti erano sufficientemente allegri, e senza tanti complimenti entrarono in casa avanti del padrone e si misero a rovistare per tutti gli angoli, mettendo sulle spine la povera consorte di Cerevik.

– Dunque, comare – disse questi entrando – ti dà sempre noja la febbre?

– Sto poco bene – rispose Teodora, dando un’occhiata inquieta alle tavole sotto il palco.

– Presto, moglie: va a pigliarmi quella bottiglia che è sul carro. La vuoteremo con questi buoni amici perchè quelle maledette donnaccie ci hanno fatto una [p. 27 modifica]paura tale, da far vergogna a dirlo. C’è da scommettere – continuava il compare assaporando il liquido a piccoli sorsi – che quelle donne hanno voluto prendersi giuoco di noi. Eppoi, anche se il diavolo ci fosse stato davvero, che cosa ci doveva importare del diavolo? Gli si sputerebbe in faccia. Se s’azzardasse a venir dinanzi a me, sarei figlio d’un cane se non gli facessi fico sul naso.

– Perchè tu hai fatto d’un tratto il viso bianco? – gli domandò un tale, che sorpassava tutti in statura dalla testa in su e amava farsi credere il più coraggioso.

– Io!... Dio santo!... Ma voi sognate!

Gli ospiti risero e con essi rise di compiacenza la faccia del garrulo coraggioso.

– È egli possibile che doventi bianco in viso – osservò un altro – se le sue guance sono più rosse del papavero? Ora lui non è più una cipolla, ma una barbabietola; anzi lui è doventato proprio la svita rossa, che ha impaurito tanto la gente.

Il giro fatto dalla bottiglia fra gli ospiti li rese ancora più allegri.

Cerevik che avrebbe pagato chissà che cosa per sapere che diamine fosse questa svita rossa che dava tanto da fare alla sua curiosità, s’avvicinò al compare:

– Mi sai dire qualcosa, compare? È tanto che ne domando, ma nessuno me la sa raccontare questa benedetta storia della svita.

– Veramente queste le non sarebbero cose da raccontarsi di notte, ma per far piacere anche a tutte queste persone, che a quanto pare sono vaghe quanto te di saper qualcosa di questo miracolo, racconterò. Ascoltate!

Si grattò una spalla, s’asciugò il naso colla manica del vestito, stese una mano sulla tavola e cominciò:

– Dovete sapere che un tempo, non mi ricordo più per quale colpa, un diavolo fu mandato via dall’inferno...

– Come! Compare – interruppe subito Cerevik – o, come fecero a mandar via un diavolo dall’inferno?

– Che ne so io, compare! Fatto sta che lo cacciaron via, e buona notte! come un contadino scaccia un cane da casa sua. Forse gli sarà saltato il ticchio di fare qualche buona azione e allora gli fu indicato la porta. [p. 28 modifica]Questo diavolo senza inferno s’annojò al punto che fu lì lì per impiccarsi. Che cosa fece? Dalla disperazione incominciò a bere. Si rintanò in quel magazzino mezzo diroccato sotto il monte, dove ora non passa un buon cristiano senza farsi il segno della croce, e bevi, bevi, bevi, quel diavolo divenne un ubriacone di prima forza, tantochè nessun giovinastro poteva paragonarglisi: dalla mattina alla sera nella bettola non faceva che bere...

Qui Cerevik, tutto serio, interruppe di nuovo.

– Ma che cosa dici? Come è possibile che abbian lasciato passare il diavolo in bottega? O non glieli vedevano gli artigli appuntati e le corna?

– Qui sta l’inganno: colla beretta di pecora e i guanti, chi l’avrebbe riconosciuto? Beveva... beveva... alla fine consumò tutti i quattrini. Il padrone per un pezzo gli dette a credenza, ma poi ebbe a smettere, tantochè il diavolo fu costretto a impegnare la sua svita rossa a un ebreo bettoliere di Sorocinzi. La impegnò e gli disse: «Bada, ebreo, tieni da conto la mia svita, perchè fra un anno preciso verrò a riprenderla.» E sparì come uno che affoga. L’ebreo vide che il panno era tanto buono e non si sarebbe trovato uguale neanche a Mirgorod, che il colore era d’un rosso così acceso che a guardarlo c’era da non levar più gli occhi, e s’annojò ad aspettare fino alla scadenza. Una volta si grattò i capelli e per cinque ducati la tirò dietro a un signore che passava di lì. Poco tempo dopo eccoti un tale che gli dice: «Dunque, ebreo, rendimi la svita.» Dapprima l’ebreo non lo riconobbe davvero; quando però l’ebbe ravvisato fece vista di non averlo mai conosciuto: «Che svita? – disse. – Io non ho svite.» L’altro se n’andò. Ma verso sera, quando l’ebreo stava per chiuder bottega e contò i quattrini, e messosi un panno sul capo cominciò a pregare Iddio, sente un fruscìo... guarda... e vede da tutte le finestre sbucare musi di porco... Zitti!...

Qui un rumore confuso che pareva davvero un grugnito di porco fece impallidire tutti i visi... Il sudore gocciolò dalla fronte del novellatore.

– Che c’è? – domandò spaventato Cerevik.

– Nulla – rispose il compare tremando come una foglia. [p. 29 modifica] – Che cosa? – domandò un altro.

– Io?

– Chi ha grugnito, allora?

– La sa Iddio la cagione del nostro spavento! Non c’è proprio nulla?

Tutti si guardarono d’intorno paurosamente e ficcarono gli occhi su tutti gli angoli della casa. Teodora era più morta che viva. Pure tentò di parlare:

– O che donnicciole siete! E vi chiamate cosacchi, e vi dite uomini? Bisognerebbe darvi una ròcca da filare... Qualcuno avrà forse, Dio mi perdoni, fatto... o gli sarà scricchiolato la panca sotto, ed eccovi tutti pazzi di paura!

Queste parole fecero arrossire e rianimarono i nostri coraggiosi.

Il compare ribevve e continuò:

– L’ebreo si svenne dalla paura, e i porci con certe gambone lunghe come trampoli l’acchiapparono e lo fecero tornare in sè a forza di frustate; e lui, poveretto, fece certi salti più alti di questa trave e confessò ogni cosa...; ma come ritrovare la svita? Uno zingaro la rubò a quel signore, mentre era in viaggio, e la rivendè a una mezzana che la portò alla fiera; ma nessuno comprava niente da lei. Alla fine questa s’accorse che la colpa era della svita, infatti quando si provava a indossarla sentiva come mancarsi il respiro. Senza rifletterci la buttò nel fuoco, ma le vesti del diavolo non bruciano: «Ma questo è un regalo di Satana!» – esclamò. Allora la mezzana la ficcò fra il burro di un contadino, e quest’imbecille ne fu contento; ma intanto nessuno compra più del suo burro. «Accidenti a quelle mani che m’hanno regalato la svita!» E la spezzettò colla scure. Ma ecco che i pezzetti si riuniscono ed ecco che la svita ritorna nuova un’altra volta. Si fece il segno della croce, dette un altro colpo alla svita e scappò. Ma d’allora in poi quando viene la fiera il porco passeggia per le piazze, grugnisce e raccatta i pezzi della svita. Ora si dice che gli manchi solamente la manica sinistra. Da quasi dieci anni la fiera non si fece più in quel luogo; ma uno spirito maligno ha spinto il prefetto ad ass...

La fine della parola restò sul labbro del narratore: la finestra andò in pezzi e attraverso ai vetri apparve [p. 30 modifica]un muso di porco che si sporse in dentro come per dire: «Ohe! cosa si fa qui?»

VIII.

La paura invase tutti quelli che si trovavano nella stanza. Il compare spalancò la bocca, schizzò fuori gli occhi come projettili e divenne come una statua di pietra colle dita aperte e ferme in aria. Il coraggioso dall’alta statura nel parossismo del terrore, spiccando un salto verso il palco, battè il capo nella trave con tanta violenza, che le tavole si smossero e il figlio del prete capitombolò giù come corpo morto, facendo un rumore sordo di cenci infagottati.

– Ohi! ohi! ohi! – gridò nel massimo della disperazione dimenando braccia e gambe sul banco dov’era caduto.

– Ajuto! – vociava un altro coprendosi la faccia con una pelliccia di montone.

Il narratore nel delirio della convulsione trovò rifugio sotto le gonnelle di Teodora. Il coraggioso dall’alta statura, fallito il primo tentativo, tentò un ultimo assalto disperato e infilò diritto diritto nel forno, tuttochè fosse stretto d’apertura, e trionfante vi si serrò dentro da sè col chiusino. Cerevik balzò in piedi come scottato dall’acqua bollente, si mise per isbaglio in testa una pentola invece della berretta e si diede a corsa senza quasi toccare il terreno coi piedi, senza saper dove. Gli batteva il cuore come il pestello d’un molino, la testa gocciava di sudore come una grondaja. Sfibrato, era sul punto di buttarsi per terra... quando sente che qualcuno gli corre dietro. Gli mancò il fiato:

– Il diavolo, il demonio! – gridava pazzamente moltiplicando le sue forze, ma cadendo poscia privo di sensi.

– Il diavolo, il diavolo! – si gridava dietro di lui, ed egli sentì soltanto che qualche cosa di pesante gli era piombato addosso.

Il suo cervello gli si svuotò di pensieri ed egli rimase muto e immobile in mezzo alla strada come «il terribile abitatore d’un ermo sepolcro». [p. 31 modifica]

IX.

– Hai sentito, Biagio? – diceva svegliandosi a notte un tale che dormiva per istrada – qualcuno qui presso noi ha nominato il diavolo!

– Che m’importa? – brontolò stirandosi le membra uno zingaro che gli giaceva accanto – avesse chiamato magari tutti i suoi parenti!

– Ma però urlava come se lo sgozzassero.

– Un assonnato è capace d’ogni cosa.

– Sarà come tu dici, ma bisogna andare a vedere. Accendi il fuoco.

L’alto zingaro, sagramentando, si rizzò in piedi, fece sprizzare la scintilla per due volte, soffiò nell’esca e accendendo una lucerna di coccio si mise in cammino.

– Fermo: c’è qualcosa qui per terra. Fa lume!

Altre persone s’erano unite a loro.

– Che c’è, Biagio?

– Mi par che siano due uomini, uno sopra e uno sotto, ma non riconosco quale sia il diavolo.

– E chi sta disopra?

– Una donna.

– Allora è quella il diavolo.

Una risata finì di svegliare tutti i dormenti della strada.

– Una donna sopra a un uomo... Questa donna dev’esser brava per andare a cavallo! – diceva uno della folla.

– Guardate, amici! – esclamò ancora un altro raccattando un pezzo di pentola rimasto sulla testa di Cerevik – che berretto s’è ficcato questo galantuomo!

Lo strepito crescente e le risate finirono per risuscitare in vita anche i nostri due morti. Solopi e la consorte, che con gli occhi ancora inebetiti per la paura passata, guardavano fissamente le faccie aduste degli zingari.

La luce incerta e tremula che investiva tutti li faceva parere una turba selvaggia di gnomi, irradiata da un pesante vapore, nelle perpetue tenebre di una notte senz’alba. [p. 32 modifica]

X.

La freschezza del mattino alitava su Sorocinzi già desto. Dai camini il fumo saliva in spire verso il sole che si levava. Si rianimava la fiera e s’incominciavano a udire per l’accampamento i belati delle pecore, i nitriti dei cavalli, gli schiamazzi delle oche e delle venditrici. I racconti spaventosi della svita rossa che avevano popolato d’immagini paurose il crepuscolo e la notte insonne de’ popolani, svanirono collo schiarire del nuovo giorno.

Cerevik sonnecchiava, allungandosi e sbadigliando sur un po’ di paglia, sotto la tettoja del compare, fra i bovi e i sacchi di farina e di grano.

Non pareva disposto ad abbandonare i suoi sogni, quando d’un tratto lo fece sobbalzare una voce conosciuta quanto l’asilo della sua poltroneria, o l’amata panchina della sua stufa, o la bettola d’una sua parente distante un cento passi da casa sua.

– Su, su, levati! – gli urlava negli orecchi la tenera consorte, scuotendogli il braccio con forza.

Cerevik per tutta risposta gonfiò le gote e agitò le mani, come per battere sul tamburo.

– Grullo! – esclamò Teodora cansando la mano che mancò poco non la colpisse al viso.

Cerevik s’alzò un poco, si stropicciò gli occhi, guardò intorno, poi disse:

– Che mi porti il diavolo se il tuo muso, o mia colomba, non mi è parso un tamburo sul quale dovevo suonarci la ritirata, come un superbo moscovita. Infatti i musi di porco, lo dice anche il compare...

– Via, via: non dir più grullerie. Cerca piuttosto d’andare a vender la cavalla. C’è proprio da far rider la gente: esser venuti alla fiera senza aver venduto nemmeno un batuffolo di canapa.

– Che cosa dici, moglie mia? – interruppe Cerevik – la gente ride ancora di noi?

– Sì, va via: ridono sempre di noi.

– Non mi sono ancora lavato – piagnucolò Cerevik sbadigliando e nello stesso istante grattandosi le spalle per guadagnar tempo. [p. 33 modifica] – Per l’appunto t’è venuta proprio ora la voglia di ripulirti. In vita tua non mi ricordo che tu ti sia mai lavato. Eccoti un asciugamano; pulisciti la tua maschera.

Le capitò sotto mano un rotolo di panno, e lo rigettò subito spaventata: era la manica rossa della svita!

– Va’ presto a fare i tuoi interessi – replicò a suo marito, vedendolo fiaccato dalla paura e udendogli battere i denti.

– Ora sì che si farà la vendita – brontolava egli fra sè, staccando la cavalla e incamminandosi per condurla in piazza. – Qualche cosa mi pareva dovesse nascere: infatti sul punto di partire sentivo un peso, come se mi fosse cascata addosso una vacca morta. Anche i bovi si voltarono due volte per tornare indietro. Ora che mi ricordo, si dovè partire di lunedì. Perciò tutti questi malanni... E quel maledetto diavolo che non sta un momento fermo! O che male sarebbe per lui portare la svita senza una manica! Invece no: non vuol lasciare in pace chi non dà noja a nessuno! Se io, per esempio, fossi un diavolo, Dio me ne liberi, vorrei far altro che intirizzire dal freddo tutte le notti per cercare un pezzo di cencio!

Il monologo del nostro Cerevik fu rotto da una voce aspra e canzonatoria. Lo zingaro dall’alta statura gli stava dinanzi:

– Cosa diamine vendi, galantuomo?

Il venditore dopo una pausa squadrò da capo a piedi il suo interlocutore e calmo calmo senza fermarsi e con la briglia sempre in mano, rispose:

– Lo vedi da te che cosa vendo!

– Cigne? – domandò lo zingaro.

– Sì, cigne; se una cavalla rassomiglia alle cigne!

– Ma allora, perdio, tu la devi aver campata a forza di paglia!

– Di paglia?

E Cerevik tirò la briglia per fargli passare la cavalla di sotto gli occhi e convincere così il suo offensore della sua spudorata menzogna; ma la mano con insolita facilità gli picchiò sul mento. Guardò... aveva in mano un pezzo di briglia e all’estremità di essa c’era attaccato... (Orrore! I capelli gli si rizzarono sul cranio...) un pezzo di manica rossa della svita!... [p. 34 modifica] Sputò, si segnò, abbandonò fuggendo il regalo inaspettato e si perse fra la folla, con una rapidità da giovinotto.

XI.

– Fermalo, fermalo! – gridavano diversi giovani dal fondo stretto d’una via. Cerevik si sentì a un tratto afferrato da due mani robuste.

– Legatelo! È proprio lui che ha rubato la cavalla a quel brav’uomo.

– Che Dio vi ajuti, perchè mi legate?

– Ed hai anche il coraggio di domandarlo? Perchè hai rubato una cavalla a Cerevik?

– Siete matti, giovinotti? Si è mai sentito che una persona abbia rubato a sè stesso?

– Ti si è conosciuto, caro mio, che buona lana sei! Perchè fuggivi come se Satana ti corresse dietro?

– Bisogna correre per forza quando c’è la svita del diavolo!

– Va a darle a bere ad altri certe storielle. Fra poco t’insegnerà il sindaco a far paura a tutti colle tue stregonerie!

– Piglialo, piglialo! gridavano dall’altro lato della strada. Eccolo lì il fuggiasco!

E Cerevik vide il compare in uno stato più compassionevole del suo, con le mani legate dietro la schiena, trascinato da parecchi altri giovani.

– Avete sentito come cercano d’infinocchiarci, eh? Avete sentito cosa racconta questo brigante? Basta guardarlo in faccia per avvedersi che è un ladro. Quando gli si è domandato dove correva, sapete che cosa ci ha risposto? «Mi sono frugato in tasca per prendere la scatola da tabacco e invece mi son trovato in mano un brandello della svita del diavolo, che ha preso fuoco, ed io... via a gambe!»

– Oh! oh! Son uccelli del medesimo nido. Leghiamoli tutti e due insieme. [p. 35 modifica]

XII.

– Di’ la verità; hai tu rubato davvero qualche cosa, compare? – domandò Cerevik, legato insieme con lui sotto una tettoja di paglia.

– Che mi si secchino le braccia e le gambe se ho mai rubato nulla, eccetto, quand’ero piccino, qualche ghiottoneria alla mamma.

– Perchè allora c’è accaduta questa disgrazia? Quanto a te, meno male: tu sei accusato d’aver rubato ad altri; ma io sono incolpato dell’accusa imbecille di aver rubato a me stesso. Si vede proprio che è scritto nel nostro destino di non aver mai fortuna.

– Poveri noi; abbandonati da tutti!

E i due compari si misero a singhiozzare.

– Che hai, Cerevik? – domandò Giorgetto, entrando in questo momento – chi t’ha legato?

– Olopupenko, Olopupenko! – gridò Cerevik raggiante di gioja. – Eccolo qui, vedi, compare, quello di cui t’ho parlato. Che Dio mi faccia cascar morto se non s’è ingojato in presenza mia un boccale grosso come la tua testa, senza fare una smorfia.

– Perchè non hai dato retta a un giovinotto così bravo?

– Tu vedi bene – disse Cerevik rivolto a Giorgetto – che Dio m’ha castigato per averti fatto un torto. Perdonami, amico! Sarei pronto a fare ogni cosa per te, ma ho una vecchia che ha il diavolo in corpo!

– Io non sono vendicativo, Cerevik. Se ti farà piacere ti rimetto in libertà.

E dietro un suo cenno gli stessi giovani che l’avevano scortato lo sciolsero.

– Ora sta in te a portarti bene. Facciamo queste nozze e poi si ballerà tanto che le gambe seguiteranno a dolerci per un’annata intera.

– Va bene, va bene – disse Solopi battendo le palme. – Mi sento allegro come se i moscoviti m’avessero portato via la vecchia! Senza pensarci, o bene o male oggi si farà lo sposalizio.

– Ascolta bene, Solopi: fra un’ora sarò da te; ora [p. 36 modifica]torna a casa poiché ti aspettano i compratori della cavalla e del grano.

– Come! si è forse ritrovata la mia cavalla?

– Sì.

La gioja questa volta pietrificò addirittura Cerevik, che rimase fermo a guardar l’ombra di Giorgetto che s’allontanava.

Frattanto lo zingaro dall’alta statura, che accompagnava il giovinotto, diceva:

– Dunque, Giorgetto, l’ho condotto bene l’affare? Ora i bovi sono miei, non è vero?

– Tuoi, tuoi!

XIII.

Parasca rimase in casa sola e pensierosa, col grazioso mento poggiato sulla mano. Numerose fantasticherie turbinavano per la testina bionda. Talora sulle labbra le si disegnava un sorriso tenuissimo e gli archi delle ciglia le si sollevavano per un affluire di pensieri di gioja; ma poi una nube d’inquietudine glie li faceva abbassare sui suoi occhi bruni.

– Cosa farò se non si avvera quel che lui m’ha detto? Mormorava nell’incertezza penosa. Che sarà di me se non me lo faranno sposare? Sì... ma no... non può essere. La mia matrigna fa quel che le piace; o perchè io non posso far lo stesso? Anch’io, all’occorrenza, saprei tener duro. Com’è bello! Come luccicano i suoi occhi neri! Come sa dir bene «Parassia ma cara!» Come gli sta bene la svita bianca! Però gli ci vorrebbe una cintura più vistosa!... ma glie la farò io quando anderemo a stare a casa nuova.

Poi, tratto fuori uno specchietto montato su panno rosso e considerandovisi con piacere:

– Chissà che gioja quando la incontrerò in qualche luogo! Non la saluterò neanche se ne dovesse schiantare. No, matrigna: tu m’hai picchiato troppo finora. Quando fruttificherà la rena sul selciato e la quercia s’inclinerà sull’acqua come un salcio, allora solamente m’inchinerò per salutarti... Ah... dimenticavo di provarmi la cuffia della matrigna, per vedere come mi sta.

Chinò la testa sulla piccola spera e senza [p. 37 modifica]abbandonarla con gli occhi passeggiò per la stanza con circospezione, quasi temesse di cadere nel palco che vedeva capovolto in luogo del pavimento, con le pentole e col palchetto, dal quale era capitombolato giù il figlio del prete.

– Che bambina! – disse ridendo – ho paura di mettere un piede in fallo!

E battendo forte i piedi camminava sempre più lesta, finchè postasi una mano al fianco, si diede a ballare, sempre guardandosi allo specchio e canterellando la sua canzoncina favorita:

               Una verde pianticina
                    verso terra è sempre china;
                    così tu, o bello dalle ciglia nere,
                    vieni a chinarti sulla tua bambina.

               C’è un arbusto piccolino
                    che si stende al suol bassino;
                    così tu, o bello dalle ciglia nere,
                    siedimi accanto, e vienmi più vicino.

In questo mentre Cerevik sporse la testa attraverso la porta e veduta ch’ebbe la figlia danzante con lo specchio davanti si fermò.

Per un pezzo stette a guardare la giovinetta, che invasa da quel capriccio improvviso non si accorse del padre; ma com’ebbe appena intesa l’aria familiare di quella canzoncina, dimenticò quel che aveva da fare e si mise a sgambettare come un fanciullo.

E tutti e due ballarono, ballarono finchè un riso sonoro del compare non li fece cessare bruscamente.

– Lesti; è arrivato il damo... Questa è bella: il padre e la figlia incominciano a far le nozze da soli... Lesti!...

A queste parole il viso di Parasca si fece più rosso del nastro scarlatto che gli cingeva i capelli; e il padre si ricordò dello scopo della sua venuta.

– Presto, figlia mia, presto! Teodora non c’è – disse guardandosi d’intorno con un po’ di paura – è andata a comprarsi dei grembiuli, tutta contenta per aver venduto la cavalla! Presto! Bisogna che sia fatta ogni cosa prima del suo ritorno.

Non aveva Parasca ancora varcato la soglia di casa, [p. 38 modifica]che si sentì fra le braccia del giovane della svita bianca, il quale con un branco di gente l’attendeva in istrada.

– Che Dio vi benedica – disse Cerevik, avvicinando le mani dei novelli sposi – e vi faccia stare uniti come i fiori d’una corona.

In questo mentre fra la folla vi fu un po’ d’agitazione.

– Che io crepi se lascio finire il matrimonio! – urlava la compagna di Solopi, che la gente respingeva indietro ridendo a crepapelle.

– Sta’ zitta; non t’arrabbiare, moglie – le diceva Cerevik a sangue freddo, rassicurato dai muscoli robusti degli zingari che la trattenevano. – Quel che è fatto è fatto, e non mi garba ritirare la parola data.

– No, no! questo non sarà mai – gridava come un’ossessa Teodora.

Ma nessuno si curava delle sue parole e già molte coppie si erano slanciate attorno alla giovine coppia, circondandola d’un impenetrabile muro danzante.

Era una cosa strana vedere come ad un sol fremito d’archetto del musicante, vestito d’una vivida svita, ma coi baffi arricciati all’insù con cura, si componesse l’armonia e l’ordine fra gente di vari e opposti sentimenti. Taluno, sul cui cupo viso pareva non avesse mai aleggiato un sorriso, batteva il tempo col piede e col braccio. Tutto si slanciava e ballava...

Ma più stravagante e curiosa era la vista di certe vecchierelle, i cui vetusti visi eran composti da una freddezza di sepolcro, e che pure amavano agitarsi fra quella ridente e fervente giovinezza.

Poverette! senza neanche la gioja dell’infanzia, senza nemmeno una sola scintilla di quella simpatia che suole sprizzare il vino – come il meccanico obbliga il meccanismo a mettersi in moto – esse dondolavano pigramente le loro teste avvinazzate, ballonzolando fra la folla, senza gratificar di uno sguardo o di un sorriso la nuova coppia.

Poi le risa, lo strepito e i canti si affievolirono e l’archetto lanciò gli ultimi suoni stanchi e morenti nel vacuo dell’aria. Perdurò ancora un poco lo scalpitìo dei piedi, simile al murmure del mare in lontananza. Poi più nulla: tutto ritornò deserto e muto. [p. 39 modifica] Non altrimenti quando la gioja – bella e incostante amica – s’invola da noi, è vana la nostra voce isolata se si prova a esprimere l’allegria. Pare che gli echi che suscita tremino di pianto e di solitudine e ascolta con ansia e con sgomento.

Non altrimenti, quando gli spensierati e i baldi amici della nostra giovinezza scarmigliata e svariata si perdono a uno per volta e ci lasciano soli, la noja ci attedia, il cuore ci si stringe e nessuna cosa può compensarci dal nostro fatale intristimento.



Note

  1. Barrocci e veicoli campestri.
  2. Piccolo corso d’acqua.
  3. Specie di blusa.