Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Beatrice e Lelio.

Lelio. Ah, signora, voi mi sembrate una Venere.

Beatrice. Anzi voi un bellissimo Adone.

Lelio. Se qualche cosa evvi nel volto mio di pregiabile, sarà un effetto del riverbero de’ vostri sguardi.

Beatrice. Eh no, signore, la vostra è una originale bellezza1.

Lelio. Veramente siccome preziosa voi siete, tutto è prezioso ciò che da voi dipende.

Beatrice. Spiegatevi, non v’intendo.

Lelio. Sino la vostra cameriera partecipa delle peregrine adorabili qualità vostre2. [p. 456 modifica]

Beatrice. Vi piace la mia cameriera?

Lelio. Senza pregiudizio del vostro merito, senza confronto alla vostra condizione, non mi dispiace.

Beatrice. Volete che io la faccia venire?

Lelio. Il volere a me non compete.

Beatrice. Ma se verrà, la vedrete voi volentieri?

Lelio. Perchè no?

Beatrice. Eh, voi siete un cavaliere facile3. Tutto v’aggrada4, non è così?

Lelio. Oh, sino ad un certo segno. Peraltro poi, la nobiltà de’ miei pensieri prende solo di mira la sublimità di merito peregrino, ne sa il sagrificante e sagrificato mio cuore porger incensi e adorazioni a un idolo di vil metallo composto.

Beatrice. Credo che sagrificareste anche a un idolo di creta e di fango, purchè avesse la figura di donna.

Lelio. V’ingannate, signora; io fo più conto della purità del mio affetto, che della illustre prosapia de’ miei grandi avi.

Beatrice. Poter del mondo! questa è una gran parità.

Lelio. Voi che sapete l’antica nobiltà del mio casato, giudicate da ciò con quanta delicatezza misuri le fiamme dell’amor mio.

Beatrice. Quand’è così, non potrà accendervi che un’eroina.

Lelio. Ed un’eroina m’accese.

Beatrice. Chi è5 codesta?

Lelio. Eccola. Voi siete quella.

Beatrice. Io?6 quale eroica azione ho io fatta?

Lelio. Avete saputo soggiogar il mio cuore.

Beatrice. Oh grande, oh bella impresa che ho fatta! non mi credea capace di tanto.

Lelio. E pure ella è così. Il cuor di Lelio, che riguardò sinora tutti gli oggetti terreni, come indegni delle sue adorazioni, trovò in voi l’epilogo della bellezza e della virtù; trovò in voi il magnetico incanto, che s’impossessò del mio arbitrio7. [p. 457 modifica]

Beatrice. Sarà invidiato il mio nome per tutti i secoli.

Lelio. Deh, madama, ponete al cimento l’affetto mio, ponete l’oro della mia servitù nella coppella de’ vostri cenni, e vedrete la purezza del mio metallo.

Beatrice. Signor Lelio, volete che ci divertiamo?

Lelio. Dipendo da’ vostri arbitrari voleri.

Beatrice. Eh là, Rosaura8.

SCENA II.

Rosaura e detti.

Rosaura. Che comanda la mia signora padrona? Oh, con che bella compagnia la ritrovo! Invero non si può fare di più. Il signor Lelio ha la beltà nel volto, la grazia negli occhi, l’affabilità nel tratto (e la pazzia nel cervello). (piano a Beatrice)

Beatrice. (Costei mi fa crepar dalle risa). (da sè) Orsù via, preparaci da giocare.

Rosaura. A qual gioco, signora?

Beatrice. A quello che più aggrada al signor Lelio.

Lelio. Piace a me ciò che piace a madama.

Beatrice. Sta a voi lo scegliere.

Lelio. Mi meraviglio.

Beatrice. Rimettiamoci in Rosaura; scelga ella il giuoco. Siete contento?

Lelio. Contentissimo.

Rosaura. Vorrei pur scegliere un giuoco degno di un sì peregrino talento. Potete giuocare a scacchi, il qual giuoco fu instituito da Palamede, per trattenere gli stanchi e nauseati guerrieri all’assedio di Troia; guardatevi però, signore, che madama non vi dia scacco matto. Volete giocare a dadi? Il gioco non è vile, si dilettò con esso Domiziano imperatore, Enrico re d’Inghilterra, ed era l’usato trattenimento de’ Corinti. Se questo non [p. 458 modifica] vi piace, potete giocare a dama. Questo è il miserabile gioco degli uomini9 che si lasciano mangiar tutto, prima di acquistar una Dama. Ma sarà meglio che vi divertiate a giochi di carte, ove concorre egualmente il sapere e la sorte10. Se foste in tre, vi vedrei volentieri giocare all’ombre; gioco bellissimo, inventato dall’acutezza degli Spagnuoli, che in italiano vuol dire gioco dell’uomo, ed infatti molto si può alludere di questo gioco alla vita umana. Io che mi sono dilettata di tutto, ho composto un sonetto sopra il gioco dell’ombre; contentatevi ch’io ve lo reciti, che spero non vi dispiacerà.

     Bella, quel sempre dir passo e ripasso,
          E mai entrar, mi pone in iscompiglio:
          È ver che nell’entrare evvi periglio,
          Ma almen si gioca, e s’ha diletto e spasso.
     La prima volta che mi viene un asso,
          Disperato vo’ fare un cascariglio;
          E se volete poi darmi codiglio,
          Lo prenderò da voi senza fracasso.
     Fatemi dir di più, se lo bramate,
          Lo farò solo, e pagherò gli onori;
          Basta che, se mi do, voi mi prendiate.
     Deh, lasciatemi almeno entrar agli ori.
          Già lo riponerò, non dubitate,
          Mentre avete voi sempre i mattadori

Lelio. Evviva, evviva!

Beatrice. Sei molto brava, Rosaura.

Rosaura. Oh, non sapete ancora ciò che vi sia in questa testaccia. [p. 459 modifica] Ora vado a servirvi. Farò portare il tavolino, e le carte, e giocate a quello che più v’aggrada11. (parte)

SCENA III.

Beatrice e Lelio, poi servi che portano tavolino e carte.

Beatrice. Divertiamoci a un gioco più facile di tutti quelli nominati da Rosaura. Giochiamo al faraone. (siedono)

Lelio. In me troverete sempre una cieca obbedienza.(Fortuna ingrata! non ho denari!) (da sè)

Beatrice. Fatemi il piacere di tener voi il gioco.

Lelio. No, no, madama, dispensatemi, ve ne prego.

Beatrice. Tanto pronto a compiacermi, ed ora mi pregate ch’io vi dispensi? (Già capisco, non ha denari12). (da sè)

Lelio. Oh Cielo!13 quel far la banca con una dama in gioco d’azzardo, non è ben inteso. Alcuno potrebbe temere.... Si sa la mia onestà, la mia cavalleria, ma pure, gente maligna.... Basta, dispensatemi, ve ne prego.

Beatrice. Non voglio già ch’esponghiate14 gran somma, basterebbero solamente tre o quattro scudi.

Lelio. (Che stoccata al mio cuore!) (da sè) Con tre o quattro scudi potrei cimentare il vostro contegno. So il vostro spirito. Madama, tenete pur voi l’invito. Io punterò per servirvi. Ognuna di queste marche dirà mezzo paolo; siete contenta?

Beatrice. Farò come volete. (Almeno gli guadagnassi sulla parola!) non per l’utile del denaro, ma per deriderlo). (da sè)

Lelio. Grazie. (O sorte benigna, anche da questo laberinto il filo della prudenza mi trasse). (da sè) [p. 460 modifica]

Beatrice. Via, puntate.

Lelio. Due marche al sei.

Beatrice. Sei vince. (giocano)

Lelio. Paroli al due.

Beatrice. Due perde.

Lelio. Pazienza! Quattro marche all’asso.

Beatrice. Asso vince.

Lelio. Paroli all’otto.

Beatrice. Otto perde.

Lelio. (La cosa va molto male). (da sè)

SCENA IV.

Ottavio e detti.

Ottavio. (Ecco qui mia moglie al tavoliere. Ella vuol mandarmi in rovina). (da sè)

Lelio. Quattro marche al re.

Ottavio. Signora Beatrice, con buona grazia di quel signore, ascoltate una parola.

Lelio. Madama, chi è questo che sì francamente v’impone?

Beatrice. È mio marito.

Lelio. Vostro marito? Lasciate ch’io eserciti seco lui gli atti del mio ossequioso rispetto. (si leva)

Ottavio. (Che idea aperta ha quel signore; sarebbe mai intendente di cabala?) (da sè)

Lelio. Mio riverito, ed ossequiato padrone, permetta che, estraendo dal fondo del mio cuore il più sincero attestato di rispettosa ed impegnata amicizia, vaglia ad assicurarla ch’io sono quale ho l’onore di protestarmi15.

Ottavio. (Se avessi vinto al lotto, costui mi farebbe ridere). (da sè) [p. 461 modifica]

Lelio. Ricusa forse la benignissima gentilezza vostra gli omaggi della mia servitù16?

Ottavio. La riverisco divotamente. Signora Beatrice, ascoltate.

Lelio. (O lo confonde la mia facondia, o è zotico come un tronco). (da sè)

Beatrice. Con sua licenza. (a Lelio) Che cosa comanda il mio adorabile signor consorte? (ironico)

Ottavio. (Eccola col fiele sulle labbra. Oh, se vinco, se vinco, la vogliam veder bella). (da sè) Prima di tutto vorrei dirvi che questo vostro giuoco ci farà andare in precipizio.

Beatrice. Sì, il vostro maledetto giuocare al lotto rovinerà voi, e rovinerà me.

Ottavio. Sentite, confesso che finora ho giuocato con isfortuna, ma ora, grazie al Cielo, sono arrivato al tempo di rifarmi.

Beatrice. Avete guadagnato?

Ottavio. No, ma son sicuro di guadagnare.

Beatrice. Solite vostre speranze. Signor Lelio, perdoni, sono da lei.

Lelio. Non vi prendete17 pena per me.

Ottavio. Questa volta, dico, son sicuro. Il punto sta, che non ho tutto il denaro, che ci vorrebbe per far il mio giuoco. Mi mancano tre zecchini e non so dove trovarli. Se voi gli avete, fatemi il favore d’imprestarmeli: sicura, che vi frutteranno assaissimo.

Beatrice. Dove volete ch’io trovi tre zecchini? Siete pazzo? Chi mi dà denaro? Come volete che io ne faccia? Non ho un paolo, se mi scorticate.

Ottavio. Ma non giuocate?

Beatrice. Giuoco sulla parola.

Ottavio. Vincete, o perdete?

Beatrice. Sinora io vinco.

Ottavio. E bene, vi pagherà.18 [p. 462 modifica]

Beatrice. Io non ho un paolo, e quello che giuoca meco non ha un baiocco19. Signor Lelio, la servo.

Lelio. Mi confonde e mortifica.

Ottavio. Fatemi dunque un piacere; datemi un anello, un abito, qualche cosa.

Beatrice. Voglio darvi il diavolo che vi porti: pensate a farmene della roba, e non a mangiarmene.

Ottavio. Vi farò tutto ciò che volete. Ma, per amor del Cielo, non mi levate la mia fortuna.

Beatrice. Eh, che se siete pazzo voi, non sono pazza io. Sono sei anni che andate distruggendovi con queste belle speranze.

Ottavio. Ma questa volta sicuro...

Beatrice. Io non vi voglio dar niente.

Ottavio. Non mi fate andar in collera. (alterato)

Beatrice. Che andar in collera? che minacciarmi? Uomo senza giudizio. Non so chi mi tenga, che io non faccia una risoluzione20. Andatemi via di qua. In sei anni ch’io sono vostra moglie, m’avete mangiato sedicimila lire; ed ora vorreste consumare questi quattro stracci. Giuro al Cielo...

Ottavio. Zitto. Sei anni, sedicimila lire, quattro stracci. Quattro, sei e sedici: vado a giocar questo terno. (parte)

SCENA V.

Beatrice, Lelio, poi Diana.

Beatrice. (Mi fa ridere a mio dispetto). (da sè)

Lelio. Deh ricomponete, o madama, gli spiriti tumultuanti21.

Beatrice. Compatite, di grazia, la mala opera che ho commessa. Frenar gl’impeti della collera non è in nostro arbitrio. [p. 463 modifica]

Lelio. In mezzo all’ire siete ancor bella.

Beatrice. Mi adulate, e pur mi piacete.

Lelio. Sono ingenuo, sono sincero.

Beatrice. Proseguiamo, se pur v’aggrada.

Lelio. Anzi. Asso a sei marche.

Beatrice. Asso perde. Sarà fortunato in amore.

Lelio. Ah! lo volesse Cupido.

Diana. Signora cognata, dov’è Rosaura?

Beatrice. Sarà nella camera dov’io dormo.

Lelio. È questa la dignissima vostra cognata?

Beatrice. Sì, signore.

Diana. Per servirla.

Lelio. (s’alza) La concomitanza della vostra persona colla signora cognata mi obbliga ad attestarvi quella esuberanza d’inestimabile stima, con cui riverentissimamente vi riverisco22.

Diana. La ringrazio, e gli son serva. (Mi pare un pazzo costui). (da sè)

Beatrice. Se volete Rosaura, ora la chiamerò.

Diana. Mi farete piacere.

Beatrice. Ehi, Rosaura.

SCENA VI.

Rosaura e detti.

Rosaura. Eccomi a’ vostri cenni.

Beatrice. La signora Diana ti vuol parlare.

Rosaura. Son a lei. Come va il gioco, signori?

Lelio. Sinora la sorte fa giustizia al merito di madama. Io perdo.

Rosaura. (Il demonio lo può far perdere, ma non pagar certamente). (da sè) Che cosa mi comanda la signora Diana?

Diana. Non ti ho più veduta; ecco la lettera. Come abbiamo a fare a darle recapito23?

Rosaura. Datemela, e lasciate fare a me. (piano) [p. 464 modifica]

Diana. Prendila.

Rosaura. Si può leggere questa vostra lettera?

Diana. Anzi l’ho lasciata aperta per questo. Ma di’ piano, che mia cognata non senta.

Rosaura. Eh, quando gioca, non sente se si spara24. un cannone. Sentiamo: Mio bene; oibò, oibò, questa lettera l’avete copiata da qualche romanzo.

Diana. Ma se veramente gli voglio bene.

Rosaura. Se si vuol bene ad un uomo, non bisogna dirglielo; altrimenti siamo spacciate. Dalla vostra tardanza comprendo che voi non mi amate. Anche questo è mal detto. Non bisogna sempre tormentar gli uomini colla diffidenza; si stancano poi, e ci lasciano. Un giorno mi vedrete morire; peggio, peggio. Niuno è sì pazzo a credere che una donna voglia morire per lui. Sente l’affettazione, e vi perde il credito.

Diana. Come dunque ho da fare?

Rosaura. Lasciate fare a me, che vi detterò una lettera di buon gusto.

SCENA VII.

Dottore e detti.

Dottore. Rosaura è qui! Si può venire? (di dentro)

Rosaura. Uh, ecco quel fastidioso calabrone. Se vi vede a giuocare, non s’accheta per un anno. Date qui, date qui, e prendetevi in cambio questo libro. (Leva le carte ed i segni, caccia tutto nel grembiale, e dà un libro a Beatrice)

Beatrice. Lascia. E le marche ch’io vinceva al signor Lelio?

Lelio. Pazienza! Un’altra volta comincieremo da capo. (Anche qui la sorte mi ha assistito). (da sè)

Diana. Che dirà mio padre trovandomi qui?

Rosaura. Lasciate fare a me.

Dottore. Vi è nessuno? Si può venire? [p. 465 modifica]

Beatrice. Venga pure signor suocero, è padrone: (non vi movete). (a Lelio)

Dottore. Oh, che bella conversazione! In che si diverte la mia dottissima signora nuora? Quel libro è il Galateo, o il Cicisbeo sconsolato25? (con ironia)

Beatrice. Nè l’uno, ne l’altro: guardate il frontespizio. La Filosofia per le donne.

Dottore. Capperi! Ella mi edifica. (con ironia)

Rosaura. Signore, quando vi è Rosaura, non si tratta che di cose serie.

Dottore. Ma che cosa fa qui Diana?

Rosaura. L’ho condotta io a divertirsi un poco, per distorla dalla sua intensa malinconia. Sente volentieri la lettura di cose buone.

Dottore. Ma come c’entra quel signore in questa bella lettura?

Rosaura. Egli serve d’interprete in alcuni passi difficili, che non sono appieno spiegati26.

Dottore. Ma io non sono a proposito per questa interpretazione?

Rosaura. È vero: ma questo signore si è trovato a caso. È un amico del signor Ottavio, ed è il più buon signore del mondo. Parla con una modestia esemplare. Sapete s’io son delicata, e pure non ho riguardo ch’egli pratichi in questa casa.

Dottore. Quando lo dice Rosaura, non ho che replicare.

Rosaura. Vi potete di me fidare. Andate là, ditegli qualche cosa.

Dottore. Signore, io le sono buon servitore.

Lelio. Trattenete27 un termine alla essenza mia eterogeneo. Voi siete mio ossequiato e venerato padrone.

Dottore. Parla molto elegante. (a Rosaura)

Rosaura. È un’arca di scienze.

Dottore. Rosaura, vorrei che mi faceste un piacere.

Rosaura. Comandate.

Dottore. Vorrei che m’andaste a fare una limonata; ho una sete grandissima.

Rosaura. Vi servo subito, e ve la porrò nel ghiaccio. Vogliono [p. 466 modifica] i buoni medici che il ghiaccio sia molto cooperante alla digestione. Egli irrita la fibra trituratoria, la rende più corrugata, e più atta al moto. Così il cibo più presto si concuoce, e fa più presto le sue separazioni28. (parte)

SCENA VIII.

Beatrice Lelio, Diana, Dottore29.


Dottore. Signora Beatrice, Diana figliuola mia, sappiate che è arrivato Florindo mio figlio; e vi prego riceverlo con amore30.

Diana. Io l’amo teneramente,31 e sospiro di vederlo.

Beatrice. Avrò per lui quella stima e quel rispetto che gli si deve.

Lelio. Io pure sarò ammiratore32 della di lui decantata, peregrina virtù.

Dottore. Le sarò bene obbligato. Dicono che sia un ragazzo di spirito.

Lelio. Degno rampollo d’un sì bel tronco.

Dottore. Obbligato dell’onor che si degna farmi33.

Diana. Signor padre, se vi contentate, mi ritiro.

Dottore. Perchè ritirarvi? Oh, bella grazia che sarebbe! Fermatevi, vi dico.

Diana. Ubbidisco.

Beatrice. Eccolo che giunge34. [p. 467 modifica]

SCENA IX.

Florindo, Isabella in abito da uomo, e detti.

Florindo. M’inchino al carissimo signor padre. Riverisco la signora cognata, la signora sorella, e quel signore ch’io non conosco: omnes, omnes simul, et in solidum.

Dottore. (Canchero, è spiritoso!) (da sè) Vien qui, il mio caro figlio, vieni fra le mie braccia, consolazione di questo povero vecchio. Hai fatto buon viaggio? Sei stanco?

Florindo. Veramente, per venir presto, oggi non ho pranzato: onde faciunt mea crura jacobum.

Dottore. (Parla bene latino). (da sè)

Beatrice. Signor cognato, mi consolo infinitamente di vedervi arrivato sano, virtuoso, e di sì bell’umore.

Florindo. Alla ciceroniana: Mihi gratulor, tibi gaudeo.

Diana. Caro fratello, quanta consolazione risento or che vi veggo alla patria tornato!

Florindo. Anch’io sono di ciò consolatissimo. Dulcis amor patriæ, dulce videre suos.

Lelio. Signore, alle consanguinee congratulazioni unisco anch’io le sociali mie contentezze35.

Florindo. Fateor me tanto dignum honore non esse. (a Lelio)

Lelio. Ha studiato! È un uomo grande. Seco lei mi consolo, lo dirò nuovamente, degno rampollo d’un sì bel tronco, (al Dottore)

Florindo. Così è: derivata patris naturam verba sequuntur.

Dottore. Chi è quel giovanotto? Fa ch’egli si avanzi.

Florindo. Egli è uno scolaro mio amico: Amicus est alter ego: onde per ciò non ho potuto dispensarmi dal condurlo meco36. Ma si tratterrà poco tempo37. [p. 468 modifica]

Dottore. Stia pure quanto tu vuoi, mi maraviglio. Sai che ti amo, e che altro non desidero che vederti contento.

Florindo. Avanzatevi, signor Flaminio, mio padre desidera conoscervi e trattarvi; egli vi amerà quant’io v’amo, mentre sapete che Pater et Filius censentur una et eadem persona.

Isabella. (Ahimè! Tremo tutta! Temo d’essere scoperta), (da sè)

Dottore. Venga. Favorisca. (Egli è ben circonspetto). (da sè)

Isabella. Arrossisco presentandomi a voi in atto di dovervi dar incomodo: incolpate di ciò la bontà del signor Florindo. Egli faccia per me le mie scuse; io non posso che assicurarvi del mio rispetto, e d’una eterna memoria delle mie obbligazioni.

Dottore. Signore, io le risponderò senza complimenti. Ho piacere d’aver38 l’onore di conoscerla: ella si serva con libertà, come se fosse nella sua medesima casa.

Isabella. Son molto tenuto alle vostre grazie.

Diana. (Che bel giovinotto!) (da sè, osservando il creduto Flaminio)

Florindo. Che cos’è d’Ottavio mio fratello?

Dottore. Sarà incantato a studiar qualche cabala per il lotto.

Florindo. Cupio videre eum.

Dottore. Lo vedrai questa sera a cena. Senti, figlio mio, tutto il paese è prevenuto della tua venuta, e si parla di te in varie guise. I buoni amici dicono che sei virtuoso; i nemici dicono che non è vero. Domani39 immediatamente voglio che facciamo smentire i maligni. Coll’occasione che verran delle visite, intendo così all’improvviso che facciamo un’Accademietta, e che tu mostri il tuo spirito e la tua abilità: sei contento?

Florindo. Contentissimo. Io son paratus ad omnia.

Dottore. Ho da dirti una cosa che ti darà piacere. Abbiamo in casa una serva, che è un portento: è una donna veramente di garbo, pronta a tutto; ha le scienze alla mano, come un lettore d’Università; non si può far di più! M’impegno che quando la sentirai, ti farà maravigliare.

Florindo. Veramente sarà cosa da stupirsi, vedere una donna sì [p. 469 modifica] virtuosa. (Così era la mia Rosaura in Pavia. Povera ragazza! come l'ho abbandonata!) (da sè)

Dottore. La voglio andar a chiamare; voglio che tu veda, se dico la verità.

Florindo. Andate, che avrò piacere.

Dottore. Ma è savia e modesta. Non creder già... basta, c’intendiamo.

Florindo. Eh, non occorr’altro.

Dottore. (Florindo avrà giudizio. Rosaura la voglio per me). (da sè, e parte)

SCENA X.

Florindo, Beatrice, Lelio, Diana e Isabella.

Isabella. (Signor Florindo, questa donna sì virtuosa non mi piace). (piano a Florindo)

Florindo. (Su via, signora Isabella, cominciate a tormentarmi con la gelosia). (piano a Isabella)

Beatrice. Signor cognato, se mi date licenza, mi ritiro nella mia camera.

Florindo. Prendete il vostro comodo.

Beatrice. A buon rivederci questa sera.

Florindo. Signor cavaliere, perchè non servite madama? (a Lelio)

Lelio. Temo di essere soverchiamente ardito.

Florindo. Eh, signore, il gran mondo pensa diversamente. Andate, andate; al braccio, al braccio; e voi, signora, lasciatevi servire. Il platonismo è già in uso; oggi tutto il mondo è Parigi.

Lelio. Dunque, se madama il permette...

Beatrice. Quando il signor cognato l’approva...

Florindo. Non solo l'approvo con un pro maiori, ma amplissime atque solemniter.

Beatrice. Nuovamente la riverisco.

Lelio. A lei m’inchino.

Florindo. Salvete, amici, salvete.

Lelio. Che degno scolare! (parte, dando braccio a Beatrice) [p. 470 modifica]

SCENA XI.

Florindo, Diana, Isabella.

Florindo. e voi, signora sorella, quando vi maritate?

Diana. Oh, io dipendo dal mio genitore.

Florindo. Se il genitore volesse, vi accompagnereste volentieri?

Diana. Per ubbidirlo.

Florindo. Solamente per ubbidirlo? Eh via, non fate meco la schizzinosa. Vi conosco negli occhi, che avete volontà di maritarvi. Siete mia sorella, e tanto basta.

Diana. Via40, non mi fate arrossire.

Florindo. Ditemi: questo giovinetto vi piacerebbe?

Diana. È libero?41

Florindo. Sicuro.

Diana. Ma io forse non piacerei a lui.

Florindo. Chi sa? Volete, ch’io gliene parli?

Diana. Fate voi.

Florindo. (Sarebbe allegra con un tal marito!) (da sè)

Diana. (Questo mi pare più bello del signor Momolo; voglio partire, acciò abbia campo di dirgli qualche cosa) (da sè). Addio, signor fratello.

Florindo. Perchè partite?

Diana. Ho da finir un lavoro. (Mi raccomando a voi). Serva, quel signore.

Isabella. A voi m’inchino, signora.

Diana. (Che bella grazia!) (parte, guardando Isabella)

SCENA XII.

Florindo ed Isabella.


Isabella. Che diavolo fate? Siete pazzo? Far innamorare di me quella povera ragazza? [p. 471 modifica]

Florindo. Mi prendo un poco di spasso.

Isabella. Non vorrei che tanto vi perdeste nelle fievolezze.

Florindo. Che volete!42 ch’io pianga?

Isabella. No, ma pensate al vostro impegno. Mi avete levata da Pavia, mia patria, anzi dal seno de’ miei genitori, promettendomi di sposarmi subito che fossimo arrivati in Bologna. Sollecitate dunque questi sponsali.

Florindo. Ma adagio un poco; non abbiate sì gran fretta.

Isabella. Conosco la vostra volubilità. Non voglio che perdiamo tempo.

Florindo. Dimani ne parleremo.

Isabella. Benissimo. Frattanto fatemi assegnare una stanza.

Florindo. Sapete ch’io v’amo e che fo stima della vostra nobile condizione. Ma non siate così rigorosa e severa; datemi almeno una buona occhiata.

Isabella. Eh sì, sì43; vi conosco.

Florindo. Sapete ch’io sono la stessa fedeltà.

Isabella. Basta; lo vedremo.

SCENA XIII.

Dottore e detti, poi Rosaura.


Dottore. Son qui, ho condotta la serva. Dove siete? venite innanzi.

Rosaura. Eccomi, signore.

Florindo. (Stelle! Che vedo!) (vedendo Rosaura)

Isabella. (Colei mi par di conoscerla). (da sè)

Rosaura. E questi il suo signor figlio? (al Dottore)

Dottore. Questi; che ve ne pare?

Rosaura. Permetta, signore, ch’io abbia l’onore di protestarmi sua umilissima serva. (a Florindo) (Il sangue mi bolle tutto). (da sè)

Florindo. (Che incontro inaspettato è mai questo?) (da sè) [p. 472 modifica]

Dottore. Via, di’ qualche cosa: rispondi, temi forse ch’ella ti confonda?

Florindo. Quella giovane, ammiro il vostro spirito, e confesso che mi avete sorpreso,

Rosaura. (Lo credo ancor io). (da sè) Mi dia licenza, ch’io le baci la mano. (a Florindo)

Florindo. (In qual laberinto mi trovo!) (da sè)

Dottore. Lasciala fare. Accetta pure quest’atto del suo rispetto. (a Florindo)

Florindo. (Convien dissimulare). (da sè) Prendete, (le dà la mano)

Rosaura. (T’ho pure arrivato, assassino). (piano a Florindo, e gli morde la mano)

Florindo. Ahi! (ritirando la mano)

Dottore. Che c’è? Che è stato?

Florindo. Con riverenza, un callo.

Dottore. Fatelo tagliare.

Isabella. Signor Dottore, come si chiama quella vostra serva? (piano al Dottore)

Dottore. Si chiama Rosaura.

Isabella. È di Pavia? (come sopra)

Dottore. Di Pavia.

Isabella. (È ella senz’altro; oh, povera me! temo che mi discuopra! Se mi conosce, sono perduta). (da sè)

Rosaura. (Se non m’inganno, mi pare di conoscere quel volto). (da sè) Signor padrone, e quell’altro signore chi è? (al Dottore)

Dottore. Un amico di mio figliuolo.

Rosaura. (Buono! sta a vedere che l’amico l’ha fatta bella!), (da sè) Signor Florindo, scusi la mia curiosità, è di Pavia quel signore?

Florindo. (Ora sì che l’imbroglio cresce). (da sè)44 Non è di Pavia, è Milanese.

Rosaura. Parmi però averlo veduto in Pavia varie volte.

Florindo. Può essere.

Rosaura. Era scolare? [p. 473 modifica]

Florindo. Appunto.

Rosaura. S’è lecito, come ha nome?

Florindo. Flaminio.

Rosaura. Guardate, quando si dice delle fisonomie che s’incontrano! Egli rassembra tutto tutto una certa signora Isabella, figlia d’un Lettore dell’Università di Pavia.

Isabella. (Ahimè! sono scoperta!) (da sè)

Florindo. (Siamo perduti). (da sè)

Dottore. E bene, non è gran meraviglia; si danno di queste somiglianze.

Florindo. (Rosaura, pietà!) (piano a Rosaura)

Rosaura. (Non la meriti, traditore). (piano a Florindo)

Florindo. (Qui convien in qualche modo aggiustarla), (da sè) Signor padre, prego vi a condurre in una stanza il signor Flaminio. Io anderò nel solito camerino.

Dottore. Benissimo. Rosaura, andate a chiamar qualcheduno45 che assista a mio figlio, e voi andate nella vostra stanza.

Rosaura. Sì, signore sarete servito.

Dottore. Favorisca di venir meco, signor Flaminio.

Isabella. Vi ubbidisco. (Ah, caro signor Florindo, ponete rimedio al male che ci sovrasta). (piano a Florindo)

Florindo. (Lasciate fare a me, non dubitate). (piano a Isabella)

Dottore. Via, Rosaura, andate.

Rosaura. Vado subito. (Non voglio partir senza rimproverar quest’indegno). (si ritira)

Dottore. Non vorrei.... basta.... aprirò gli occhi. (parte con Isabella)

SCENA XIV.

Florindo e Rosaura.


Florindo. (Come mai dovrò regolar la faccenda? Come con costei contenermi? La mia franchezza non giova. Ne sa più di me). (da sè) [p. 474 modifica]

Rosaura. Siam soli, Florindo: posso a mia voglia empio, mancatore chiamarvi.

Florindo. Dite tutto ciò che volete. Sempre direte meno di quel ch’io merito.

Rosaura. Ecco la vostra solita disinvoltura! Così solevate umiliarvi, qualunque volta giustamente di sdegno accesa mi conoscevate.

Florindo. Ma che volete ch’io faccia? Avete ragione, lo confesso.

Rosaura. Se ho ragione, avete da farmi giustizia. Mi avete promesso fede di sposo, dovete mantenermi la promessa46.

Florindo. Abbiate pazienza: vi sarà tempo. Mi ricordo del mio impegno: state zitta, e lo manterrò.

Rosaura. No, no, non vi lusingate di deludermi, come faceste per lo passato. Non vi credo, vi conosco. O sposatemi subito, o saprò vendicarmi.

Florindo. Che diavolo! con gli stivali in piedi ho da sposarvi?

Rosaura. Che stivali! che barzellette?47

Florindo. Ma che volete che dica mio padre?

Rosaura. Vostro padre s’accheterà, quando saprà di che mi siete voi debitore.

Florindo. Datemi almeno due giorni di tempo. (Se posso fuggire, qualche cosa sarà). (da sè)

Rosaura. Due giorni di tempo, eh? Mendace, scellerato. Credete ch’io non sappia le vostre baratterie? Ho conosciuto quel giovane, che avete con voi condotto. Sì, quella è Isabella. Ma giuro al Cielo, mi saprò vendicare. Pubblicherò i vostri inganni; farovvi arrossire; vostro padre vi scaccerà dalla casa; vi aborriranno i vostri parenti; sarete la favola di Bologna. Voglio vedervi precipitato.

Florindo. (Ed è capace di farlo). (da sè) Deh, cara Rosaura, abbiate pietà di me.

Rosaura. Cara Rosaura, eh! Chiudete la sacrilega bocca. Non proferite il mio nome. [p. 475 modifica]

Florindo. Ma s’io son pronto a sposarvi.

Rosaura. E mi credete sì poco saggia, o tanto innamorata, che vi volessi porger la mano? l’ingannate: piuttosto sposerei la morte.

Florindo. (Manco male). (da sè)

Rosaura. Ho finto tutto ciò per iscoprire il vostro mal animo. Andate pure, sposate la vostra Isabella, ch’io già ho48 ritrovato marito.

Florindo. Siete maritata? (Oh, il Cielo lo volesse!). (da sè)

Rosaura. Dimani seguiran le mie nozze.

Florindo. E siete venuta a maritarvi in casa mia?

Rosaura. Sì, per vostro tormento.

Florindo. Crudele! Su gli occhi miei? (affettando amore)

Rosaura. (Ancor49 mi deride!) (da sè) Sì, su gli occhi vostri, ed ho scelto uno sposo che faravvi tremare.

Florindo. È qualche soldato?

Rosaura. Altro che soldato: stupirete, quando ve lo dirò.

Florindo. E chi è mai questo sì gran soggetto

Rosaura. Il Dottore vostro padre.

Florindo. Come! Mio padre? (con sorpresa)

Rosaura. Sì; non dissi che stupirete?

Florindo. Ed avete tanto coraggio? Sapete gli amori passati tra voi e me, ed ardirete sposarvi a mio padre?

Rosaura. Voi mi avete insegnato ad essere scellerata. (Fingasi per tormentarlo). (da sè)

Florindo. Ah, non lo soffrirò mai.

Rosaura. Ebbene: se vi dà l'animo, scoprite voi l’arcano. Rimediate voi al disordine; io per me sono risoluta di non parlare. Se il vostro genitore mi sollecita ch’io gli porga50 la mano; se voi tacete, io pur taccio; pensateci voi, che per me ci ho pensato.

Florindo. (Che strana specie di vendetta è mai questa? Sì, sì, la farò scacciar da mio padre, senza pubblicar la mia colpa). (da sè) [p. 476 modifica]

Rosaura. Che dite fra di voi stesso? Meditate forse qualche novello inganno?

Florindo. Mi stupisco, come abbiate potuto introdurvi in mia casa, prevenire il mio arrivo ed affascinare mio padre.

Rosaura. Ed io stupisco, come abbiate potuto abbandonarmi, tradirmi e de’ vostri giuramenti scordarvi.

Florindo. Orsù, abbiate giudizio, che sarà meglio per voi.

Rosaura. Come! Minacce ancora? Indiscreto, incivile, così trattate chi tante prove della sua fede vi ha date? Barbaro! Così ricompensate il mio affetto? Almeno mi compatiste, chiedeste almeno perdono. Ma no, ostinato, perverso, mi odiate, mi deridete, mi maltrattate. Ma senti, senti, spietato, saprò vendicarmi. Sarò una furia per tormentarti. No, che un torto sì grande non si può soffrire.

SCENA XV.

Dottore e detti.

Rosaura. (Oimè! Ecco il signor Dottore), (da sè) No, che non si può soffrire un sì gran torto; mi maraviglio di voi.

Dottore. Che ci è di nuovo? Che cos’è questo rumore?

Florindo. (Ecco scoperta ogni cosa). (da sè)

Rosaura. Signore, io non posso soffrire che mi venga negata la verità. Questo vostro signor figliuolo ha delle massime troppo scolastiche. Non sa dir altro che nego maiorem, nego minorem. Che cos’è questo nego? qui totum negat, nihil probat. Bisogna distinguere, distingue textus et concordabis iura, dicono i Legisti. E poi dirmi: nego suppositum? Questa è una mentita, ed io dovrò soffrirla? La soffro, perchè sono in casa vostra, perchè è vostro figlio, peraltro me ne farei render conto. Ma piano, piano, ci51 toccheremo la mano. Vi pianterò un paio d’argomenti in Barbara, che non saprete da qual parte [p. 477 modifica] guardarvi. Se ben son donna, ne so più di voi; e da questo mio improvviso ragionamento potrete comprendere, signor Florindo, s’io so trovar mezzi termini. (parte.)

SCENA XVI.

Dottore e Florindo.

Dottore. Non l’ho detto io, ch’ella ti porrà in sacco? Sei restato là come un babbione, eh? Canchero!52 Conviene star all' erta per trattare con esso lei53.

Florindo. Eh, signor padre, siete ingannato. Colei non è qual vi credete. Vi par possibile ch’una donna, ed una donna giovane, arrivi a saper tanto? quella è una strega54.

Dottore. Eh, va via, che sei pazzo.

Florindo. Io vi dico la verità: e se non volete badarmi, ve ne troverete pentito.

Dottore. Il mondo ignorante, quando vede qualche stravaganza, subito dice che il diavolo l’ha fatta. Io non credo simili scioccherie. Rosaura è savia, Rosaura è virtuosa e Rosaura, basta.... so io quel che dico.

Florindo. Sarebbe mai vero ciò ch’ella stessa mi ha detto?

Dottore. Che cosa t’ha ella detto?

Florindo. Che voi la volete sposare.

Dottore. Potrebbe esser di sì.

Florindo. E fareste voi una tale pazzia?

Dottore. Qual modo di parlare è questo? Sei venuto da Pavia per far il pedante a tuo padre? Voglio fare quel che mi pare, e piace. Sono il padrone.

Florindo. Ma non vedete, che questo vostro amore è un effetto delle malìe di quella fattucchiera? [p. 478 modifica]

Dottore. Eh, povero sciocco! è un effetto della buona maniera e del buon tratto di quella giovane. Basta, se facessi un tal passo, non porterei pregiudizio ne a voi, ne a vostro fratello. Ho già disposte le cose in buona maniera: abbiate giudizio e non mi fate l’uomo addosso. Domani preparatevi a ricever le visite e fare spiccare il vostro talento, se ne avete, e non fate che s’abbia a dire: Parturient montes, nascetur ridiculus mus.

SCENA XVII.

Florindo, poi Brighella ed Arlecchino

Florindo. Ah, questo è un colpo non preveduto! Qual demone inspirò a Rosaura portarsi a Bologna ed introdursi in mia casa?

Brighella. Ben venuto, illustrissimo signor padron.

Arlecchino. Ben tornado, signor poltron.

Florindo. Buon giorno. (Qual astro per me fatale infuse nell’animo di colei un sì particolare coraggio?) (da sè)

Brighella. Hala fatto buon viazo?

Arlecchino. M’hala portà gnente?

Florindo. (E poi? Ah, questo è il peggior de’ mali! innamorare mio Padre? Volerlo sposare? Oh, trista donna!) (da sè)

Brighella. Vorla andar a riposar?

Arlecchino. Vorla che andemo a magnar?

Florindo. (Ma no, ciò non deve tollerare l'onestà d’un figlio. Tutto si sveli, tutto si pubblichi). (da sè)

Brighella. Me par che la sia molt’alterà.

Arlecchino. Me par che la gh’abbia molto poca creanza.

Florindo. (Ma che sarà d’Isabella? Dovrà scoprirsi? Dovrà partire, o dovrò sposarla?) (da sè)

Brighella. L’ha qualche cossa per la testa.

Arlecchino. L’è matto in coscienza mia.

Florindo. (No, no. Isabella dev’esser mia moglie. È nata nobile, non deggio tradirla). (da sè)

Brighella. Cossa mai gh’è successo? [p. 479 modifica]

Arlecchino. Elo55 sta bianco o negro?

Florindo. (Ma se scopresi l’impegno anteriore con Rosaura, sarò costretto a sposar quella, e lasciar quell’altra). (dà sè)

Brighella. El me fa compassion.

Arlecchino. El me fa da rider.

Florindo. (Oh Giove!)56

Brighella. Oh Venere!

Arlecchino. Oh Bacco!

Florindo. (Suggerisci l’espediente al mio cuore).

Brighella. Soccorri sto povero signor.

Arlecchino. Torneghe el so giudizio.

Florindo. (Ah, non v’è più rimedio).

Brighella. Oimei.

Arlecchino. L’è vera: chi nasce matto, non varisce mai.

Florindo. Brighella.

Brighella. Signor.

Florindo. Arlecchino.

Arlecchino. Son qua.

Florindo. Assistetemi. Ho bisogno di voi. Venite qui, datemi la vostra mano in pegno della vostra fede.

Brighella. Ecco la man. (gli danno la mano)

Florindo. No. (li rispinge57, essi partono) Non ho bisogno di voi. Solo ho sin ora operato, solo mi reggerò in avvenire. La notte è provvida consigliera. Dimani risolverò. Tutto si faccia, purchè il matrimonio di mio padre non segua. Nulla intentato si lasci. Anzi il più difficile e il più pericoloso si tenti. (parte)

Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Segue nell’ed. Bettinelli: «Lel (Vo’ingelosirla). (da sè) Beatr. (vo’ divertirmi). (da sè)».
  2. Bettin. aggiunge: «Beatr. (Rosaura ha fatta la parte sua). (da sè) Leil. (S’ingelosisce senz’altro). (da sè)».
  3. Bettin. e Paper.: di buono stomaco.
  4. Bettin.: Vi degnate di tutto.
  5. Bettin.: Chi mai è; Paper.: Chi è mai.
  6. Bettin. e Paper. aggiungono: Mi beffate.
  7. Bettin. e Paper. hanno invece: che pose fra due lacci il suo arbitrio.
  8. La fine di questa scena e il principio della seguente, com’è nelle edizioni Bettinelli e Paperini, vedi in Appendice.
  9. Bettin. e Paper.: degli uomini sciocchi; si lasciano ecc.
  10. Segue nelle edizioni Bettin. e Paper.: Volete giocare a picchietto? avvertite, signora, non lasciate far bazze al compagno. S’egli è agghiacciato, dategli qualche cappotto, ma se pretendesse tenervi al di sotto con i picchetti, e voi con un repicco licenziatelo dal tavolino. Il tresette scoperto non è giuoco da donne, mentre noi procuriamo sempre coprire il vero. Chi fa più, perde, è il giuoco degli amanti. Infatti, chi più ama e più soggetto a perdere il tempo, la quiete e la vita islessa. Potreste anche giuocare a bazzica, gioco adattato alla bella idea del signor Lelio.
  11. Segue nelle edd. Battin. e Paper.: Vi avverto solo, che il gioco può essere innocente; e può essere vizioso. Che il giocare per passatempo è cosa lecita, ma il giocare per vincere è cosa poco onesta. Dal giuoco violento molte derivano pessime conseguenze: si rovinano le case, si abbandonano i figli, si dà mal esempio alla servitù, si bestemmia, si delira e mille iniquità si commettono. Tutti gli altri vizi si lasciano col tempo, il gioco mai. Vi sono stati di quelli che hanno giocato la propria moglie; e vi sono delle donne che, se potessero, giocherebbero anche il marito».
  12. Bettin.: che non ha un soldo.
  13. Bettin.: Oh Dio!
  14. Bettin.: esponiate.
  15. Nelle edd. Bettin. e Paper.: «... il più caldo e il più sincero attestato di rispettosa, fedele, zelante ed impegnata amicizia; vaglia la rozza ed infeconda mia lingua ad assicurare la sua non inflessibile e non affascinabile credulità ch’io sia, o sia per essere, il minimo fra gl’inferiori, ma il fedelissimo fra’ suoi fedeli ossequiosissimi servi».
  16. Bettin. e Paper.: Ricusa forse la generosa benignissima non inselvaticabile gentilezza vostra gli omaggi della mia inlogorabile e inconsumabile servitù?
  17. Bettin.: prendiate.
  18. Bettin. e Paper.: E bene, fatevi pagare.
  19. Segue nelle edd. Bettin. e Paper.: «E poi volete ch’io vi dica? questa non è la maniera di trattar civilmente. Vedo che la passione del lotto ci accieca. Il marito ha da far capitale sul giuoco della moglie? mi meraviglio di voi. On. Avete ragione; zitto, zitto. Beatr. Signor Lelio, la servo. Lel. Lei mi confonde ecc.
  20. Bettin. e Paper.: ch’io non faccia una qualche bestialità.
  21. Bettin. e Paper.: gli ondeggianti spiriti del tumultuante vostro individuo.
  22. Bettin. e Paper.: La concomitanza, che tiene la vostra venerabile nobiltà colla signora tre e quattro volte da me riverita, vostra più che meritevole ed imparagonabile cognata, mi obbliga ad attestarvi quella esuberanza d’inestimabile stima con cui riverentissimamente vi riverisco.
  23. Bettin. e Paper.: a darle ricapito al signor Momolo?
  24. Bettin. e Paper.: sparasse.
  25. Commedia ben nota di G. B. Fagiuoli.
  26. Bettin.: dalla pratica dimostrazione spiegati.
  27. Bettin. e Paper.: fra le vostre erudite fauci un termine.
  28. Bettin. e Paper. aggiungono: Vado subito. Serva, signor Lelio: la riverisco.
  29. Bettin. e Paper, aggiungono: poi Brighella.
  30. Bettin. e Pap)er.: che oggi s’attende Florindo mio figlio; e può tardar poco a venire: onde vi prego a fargli buona ciera e riceverlo con amore.
  31. Bettin. e Paper. aggiungono: come mio fratello.
  32. Bettin. e Paper.: stupido ammiratore.
  33. Così continuano le edd. Bettin. e Pap)er.: «Brighella. Signor padron, allegramente. Dott. Cosa e’e di nuovo? Brigh. L’è arriva el sior Florindo. Dott. Dov’è? Dove si ritrova? Brigh. L’è smontà dal calesse, e el vien su della scala. Anzi l'ha menà con lu un so compagno, ch’el dise ch’el lo vol tegnir per quualche dì in casa co lu. Dott. Manco male, è padrone. Digli che venga, che son qua che l’aspetto. Brigh. Vago subito. (va via) Dott. Non gli voglio andar incontro per non dargli troppa albagia. L’amor del padre ha da essere moderato. Beatr. Fate benissimo. Diana. Signor padre, se vi contentate ecc.
  34. Segue nelle edd. Bettin. e Paper.: «Dott. Il sangue mi scorre più agile per l’allegrezza».
  35. Segue nelle edd. Bettin. e Paper.: «Assicurandovi che il globo terracqueo non vanta fra gl’individui razionali chi più di me esulti nel rimirare in voi il prototipo degli scienziati. Flor. (Chi diavolo è costrui? è pazzo?) (a Beatr.). Beatr. (È uno che ha per uso l’affettazione). Flor. (Non occorr’altro). Straboccando le grazie dal vostro categorico cuore, tanquam flumen ad altitudine mentis, vengono ad innondare e sommergere la brevità circonscritta de’ miei paludosi pensieri. Scilicet: fateor me ecc.».
  36. Bettin.: da meco condurlo.
  37. Bettin. e Paper. È vero che non est amicus noster, qui nostra bona tollit; ma si tratterrà poco tempo, non dubitate.
  38. Bettin. e Paper.: d’aver avuto.
  39. Bettin. e Paper.: domani mattina.
  40. Bettin. e Paper.: eh via.
  41. Nelle edd. Pasquali e Zatta le parole di Diana sono qui, e dopo, fra parentesi.
  42. Bettin.: Cosa volete?
  43. Bettin. e Paper.: Eh sì, sì, furbacchiotto.
  44. Bettin. aggiunge: «Isab. (Negagli la patria). (piano a Florindo) Flor. Non è di Pavia ecc.».
  45. Bettin. e Paper.: Brighella, Arlecchino, qualcheduno ecc.
  46. Bettin.: promissione.
  47. Bettin. e Paper.: Che stivali? che barzellette? Datemi la mano. Chiamiamo due servitori per testimoni, e son contenta.
  48. Bettin.: mi ho.
  49. Bettin. e Paper.: Ah galeotto maledetto! ancor ecc.
  50. Bettin.: Se il Vostro genitore mi sollecita, io gli porgo ecc.
  51. Bettin.: si.
  52. Bettin. aggiunge: Ella è una donna di garbo.
  53. Bettin.: seco lei.
  54. Segue nelle edd. Bettinelli e Paperini:... ed io a Pavia l’ho conosciuta benissimo. È stata bandita da quella città, ed ella è venuta per nostra disgrazia in Bologna, e nella nostra casa. Se a me non lo credete, ve lo farò confermare da Flaminio. Egli pur la conosce.
  55. Tutte le edd.: ella.
  56. La parentesi, qui e più sotto, è nelle edd. Bettin. e Paper.; manca nelle edd. Pasq. e Zatta.
  57. Bettin. e Paper.: li respinge e getta in terra, essi zoppicando partono.