Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Martorino e la Baronessa.

Martorino. (Incontrandosi colla Baronessa.)

Signora Baronessa, ella di qua è passata,
Ed or la mia padrona nelle sue stanze è andata.
Baronessa. È ver, dovea aspettarla; ma, a dirla in confidenza,
Con quel caro mio padre perduta ho la pazienza.
Quando a parlar principia, non la finisce mai;
So qual è il suo costume, ma ancor non mi avvezzai.
Ei fu sempre alla guerra, io vissi in un ritiro;
Dacchè è morta mia madre, seco mi mena in giro.
So ch’egli fa il possibile per ritrovarmi un sposo,
Ma con quel suo parlare qualche volta è noioso.
Martorino. (Ed ella qualche volta fa dar nelle impazienze
Colle sue cerimonie, colle sue riverenze.

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Di un padre seccatore si conosce che è figlia,

E anch’essa in altro genere si accorda e lo somiglia).
Ecco la mia padrona. (alla Baronessa)
Baronessa.   Chi son quei due signori?
Martorino. Son della mia padrona due fidi adoratori,
Ma ella non ci pensa. Con tutti è indifferente.
Eccola. Con licenza. Servo suo riverente. (parte)
Baronessa. Ogni dì qua si vedono venir nuove persone,
Ed io che non son pratica, mi metto in soggezione.
Mio padre vuol ch’io faccia dei complimenti assai,
E a far quel che va fatto, ancor non imparai.

SCENA II.

La Contessa, il Capitano, il Cavaliere e la suddetta.

Contessa. Serva alla Baronessa.

Capitano.   Servitor riverente.
Baronessa. Serva di lor signori. (al Capitano)
Cavaliere.   Riverisco umilmente.
Baronessa. Serva sua. (al Cavaliere)
Contessa.   Come state?
Baronessa.   Bene. E voi?
Contessa.   Sto benissimo.
Sediamo.
Baronessa.   Seda ella.
Contessa.   Tocca a lei.
Baronessa.   No certissimo.
Capitano. Tocca alla forastiera.
Baronessa.   Per obbedir mi assido, (siede)
Capitano. (Da galantuom la godo). (siede vicino alla Baronessa)
Contessa.   (Io mi diverto, e rido).
(siede vicino alla Baronessa, e presso di lei il Cavaliere)
Fin che state con noi, amica, è di dovere,
Che andando fuor di casa vi serva un cavaliere.

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Eccolo, vi presento il capitan Gismondo,

Il cavalier più saggio e il più gentil del mondo.
Baronessa. Serva sua divotissima.
(si alza per fare una riverenza al Capitano)
Contessa.   L’avrete ogni momento
In casa, e fuor di casa, ad obbedirvi intento.
Baronessa. Umilissima serva. (come sopra)
Capitano.   Per obbedir, signora.
La servirò non solo, ma pel suo merto ancora.
Baronessa. Umilissime grazie. (come sopra)
Contessa.   Ma tralasciar bisogna
Cotanti complimenti.
Baronessa.   Ho un tantin di vergogna.
Contessa. Oh via, col vostro spirito mostratevi più svolta:
Voglio che vi avvezziate ad esser disinvolta.
Il capitan Gismondo, ch’è un uom gentile e destro,
In quel che non sapete, vi farà da maestro.
Baronessa. Sarò bene obbligata. (come sopra)
Contessa.   E se imparar bramate
Quel che fan le marmotte, il Cavalier mirate.
Cavaliere. Sono della Contessa preziosi anche i disprezzi:
Temprano le amarezze di quel bel labbro i vezzi;
Vi è noto il mio costume, e so che non vi spiace.
So che scherzar solete, e lo sopporto in pace.
Contessa. Baronessa, che dite? Vedeste uom più gentile?
Conosceste un altr’uomo al Cavalier simile?
Con lui si ponno usare i termini scherzosi;
Non li posso soffrire gli uomini pontigliosi. (verso il Capitano)
Capitano. Se di me v’intendete...
Contessa.   Di voi? sinceramente.
Credetemi, signore, non mi veniste in mente.
Io non so quel che siate; vedrò per l’avvenire.
Se siete un uom capace d’amare e di soffrire.
Quella dama servite come vi detta il cuore,
Poscia vedrò col tempo, se meritate amore.

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Capitano. (Parmi capir la cifra; ma se dell’amor mio

Far intende una prova, vuò far lo stesso anch’io).
(da sè)
Baronessa. Quanto mi piace mai la vostra acconciatura!
Credo che la mia testa sia una caricatura.
Contessa. Per dir la verità, non vi lagnate invano.
Volete un parrucchiere? Ditelo al capitano.
Capitano. Vi servirò, signora, senza far torto in nulla,
Nè al vostro genitore, nè al grado di fanciulla.
Quello che far mi lice, tutto farò di cuore.
Ogni vostro comando per me sarà un favore:
Merita il sangue vostro, merita la beltà,
Ch’io vi offra e ch’io vi serbi rispetto e fedeltà.
Obbligo ho alla Contessa di quest’onor pregiato,
A una simil fortuna non vuò mostrarmi ingrato;
E chi conoscer vuole, se son d’amore indegno,
Vederà s’io vi servo col più costante impegno.
Baronessa. Umilissime grazie. (facendo una riverenza)
Contessa.   (Crede mortificarmi.
Sei lo fa per dispetto, saprò anch’io vendicarmi).
(da sè)
Baronessa, davvero con voi me ne consolo;
Il capitano è fido, ma in questo ei non è solo.
Anch’io posso vantarmi d’un cavalier costante:
Il cavaliere Ascanio è un virtuoso amante.
Un che servir s’impegna senza pretesto alcuno,
E non ha in gentilezza invidia di nissuno.
Capitano. (O finge, o dice il vero. Nell’uno o l’altro modo,
O d’umiliarla io spero, o vendicarmi io godo). (da sè)
Cavaliere. L’onor che voi mi fate, mi esalta e mi consola.
Dispor di me potrete: vi do la mia parola.
Contessa. (E dell’uno e dell’altro finor mi presi gioco;
Ma pur del capitano par che or mi caglia un poco).
(da sè)

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SCENA III.

Martorino e detti, poi don Armidoro.

Martorino. Con sua buona licenza, è qui don Armidoro,

Che brama riverirla. (alla Contessa)
Capitano.   (Sempre son qui costoro).
Contessa. Permettete ch’ei venga? (alla Baronessa)
Baronessa. Contessa, mi burlate;
Siete voi la padrona.
Contessa.   Ad introdurlo andate.
(a Martorino, che parte)
Capitano. Vedete, Baronessa? a donna di talento
Non manca compagnia; ne trova ogni momento.
Contessa. Vuò veder, se fra tanti ne trovo uno di buono.
Cavaliere. Non ci son io, signora?
Contessa.   Oh, vi chiedo perdono, (al Cavaliere)
Armidoro. Servo di lor signori. Contessa, io vi son schiavo.
Contessa. Viva don Armidoro, bravo davvero, bravo!
Venite qui, teneteci un po’ di compagnia;
La Baronessa ed io siamo in malinconia.
Il Cavalier non parla, il capitan, vedete,
Ha i spiriti occupati. Venite qui, sedete.
Armidoro. Signora mia, ier sera...
Contessa.   Ier sera io vi piantai.
Davver, don Armidoro, me ne dispiace assai.
Per mancanza di stima certo non vi ho lasciato;
Credetemi, in coscienza, che m’ho di voi scordato.
Armidoro. Di un galantuom scordarsi è averne una gran stima.
Contessa. Via via, non sarà questa l’ultima, nè la prima.
Che fate? state bene?
Armidoro.   Sono ai vostri comandi.
Contessa. Volete che ogni volta a ricercarvi io mandi?
Una grande amicizia davver mi professate,
Se così facilmente di me voi vi scordate!
Parmi che si dovrebbe venir con più frequenza.

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Cavaliere. (Oh! ci vuole per altro una gran sofferenza). (da sè)

Armidoro. I rimproveri vostri mi onorano non poco.
Questa sera, signora?...
Contessa.   Andremo in qualche loco.
Capitano. Baronessa, ciascuno ha gli interessi suoi;
Far la conversazione possiamo infra di noi.
Sentite. (le parla piano, avvicinandosi colla sedia)
Contessa.   Dite forte, che ciascun senta e goda.
Capitano. Che pensate? le parlo di un conciero alla moda.
Contessa. Dite, don Armidoro, mi fareste un piacere?
Armidoro. Comandi.
Contessa.   Lo sapete qual sia il mio parrucchiere?
Armidoro. Lo so.
Contessa.   Subito, subito, vi prego andar da lui;
Ditegli che qui venga, che porti i ferri sui.
Che una dama straniera vuole assettarsi il capo.
Armidoro. Ma signora...
Contessa.   Signore! (con alterezza)
Armidoro.   (Siamo sempre da capo).
Vuole che vada io? (si alza)
Contessa.   Sì, Armidoro adorabile.
Per far le cose bene, voi siete inarrivabile.
Chi vuol cosa ben fatta, ha da venir da voi.
Andate, via, da bravo. Ritornerete poi.
Facilmente non soglio scordar gli altrui favori.
Siete il mio cavaliere.
Armidoro.   Servo di lor signori.
(parte confuso)

SCENA IV.

La Contessa, la Baronessa, il Capitano, il Cavaliere
e Martorino.

Capitano. Donde, signora mia, questa focosa brama?

Non son io nell’impegno di servir questa dama?
(alla Contessa)

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Baronessa. Umilissime grazie. (con una riverenza al Capitano)

Contessa.   Signor, chiedo perdono.
È in casa mia la dama, e la padrona io sono.
Tocca a me provvederla di quel che le conviene,
Nè vi credea capace da far di queste scene;
Dissi alla Baronessa, e non l’ho detto invano,
Se un parrucchier volete, parlate al capitano.
Ma il capitan doveva dire alla Baronessa:
Il parrucchier migliore è quel della Contessa,
Servitevi del suo; così dovea spiegarsi,
E non subitamente cercar d’ingrazianarsi,
E non farsi ridicolo con tutta la brigata,
Che ormai del capitano son di già stomacata.
Basta; di più non dico. (sdegnosa)
Capitano.   Vi ho capito, signora.
Rispondervi saprei, ma non è tempo ancora.
Baronessa. Che cosa è questa collera? Dite, Contessa mia,
Siete con lui sdegnata forse per causa mia?
Contessa. No, amica, compatitemi. Per questo io non mi sdegno;
Ho piacer ch’ei vi serva, dee mantener l’impegno.
Cavaliere. Contessa, voi mostrate, mi par, troppa caldezza.
Contessa. State un’ora a parlare, poi dite una sciocchezza.
(al Cavaliere)
Martorino. Signora.
Contessa.   Cosa vuoi? (sdegnosa)
Martorino.   Don Fabio.
Contessa.   Oh buono buono!
Venga, venga don Fabio, contentissima or sono.
(con allegrezza)
Capitano. (Chi diavol può conoscere il suo temperamento?)
Cavaliere. (Va da un estremo all’altro).
Capitano.   (Si cambia in un momento).
Contessa. Conoscerete, amica, un uom celebre al mondo.
Di cui non ha l’Italia, e non avrà il secondo;
Un uom che scrive in versi con tal facilità,

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Che se voi lo sentite, innamorar vi fa.

(alla Baronessa)
Baronessa. È giovine? è bellino?
Contessa.   Anzi è in età avanzato;
Ma sta la sua bellezza nell’esser letterato.
E non è poco onore per me, ve lo confesso,
Che sì grand’uom si veda a visitarmi spesso.
Baronessa. Parla in versi?
Contessa.   E che versi!
Baronessa.   Contessa, il ver vi dico,
In materia de’ versi non me n’intendo un fico.
Capitano. In versi spiegheranno fra loro il suo concetto:
Noi parleremo in prosa. (alla Baronessa)
Contessa.   (Che tu sia maladetto!) (da sè)

SCENA V.

Don Fabio e detti.

Fabio. Mi umilio a queste dame. Signori, a voi m’inchino.

(tutti si alzano e lo salutano, poi tornano subilo a sedere)
Contessa. Il mio caro don Fabio, venite a me vicino:
Portagli qui una sedia. (a Martorino)
Martorino.   Eccola pronta e lesta.
Contessa. Tre dì senza vedermi? che baronata è questa?
Fabio. Sono gli affari miei, che tengonmi lontano.
Contessa. Eh sì, sì, sono in collera: via, tenete la mano.
(gli dà la mano, e don Fabio gliela bacia rispettosamente)
Capitano. (Oh sarei un gran pazzo a sospirar per lei!)
Cavaliere. (Che dicesse davvero! affè non crederei).
Contessa. Questa dama, don Fabio, nata in suolo romano,
Dove le dolci muse cantano al monte e al piano,
Vi conosce per fama, e di sentir desia
Qualche pezzo sublime di vostra poesia.
Baronessa. Umilissime grazie. (inchinandosi a don Fabio)

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Fabio.   È un onore infinito

Esser da questa dama sofferto e compatito.
Baronessa. Oh! umilissime grazie. (come sopra)
Fabio.   Spiacemi che l’effetto
Corrisponder non possa all’utile concetto.
Baronessa. Sono molto obbligata. (come sopra)
Contessa.   Via dunque, a questa dama
Fate sentir qualcosa, che di sentirvi ha brama.
Fabio. Dirò, per obbedirvi, cosa di fresco nata.
Capitano. (Oh pigliamoci in pace questa bella seccata!)
Fabio. Dirò, se il permettete, una canzon che ho fatto:
Sarà di bella donna un semplice ritratto.
Nice è il nome poetico, che usar si suol da noi.
Ma il ritratto di Nice l’originale ha in voi. (alla Cont.)
Contessa. In me? (pavoneggiandosi un poco)
Fabio.   Sì, mia signora.
Contessa.   Don Fabio, i vostri carmi
Non gettate sì male. Troppo volete alzarmi.
Sentite, Baronessa? fa il mio ritratto in rima.
La bontà di don Fabio ha per me della stima.
Con rossore i suoi versi udire io mi apparecchio;
Capitan, vi consiglio di chiudervi l’orecchio.
Capitano. Anzi il vostro ritratto ho di sentir desio;
Oh, se fossi poeta, lo vorrei far anch’io.
Ma no, se fossi tale, quale il mio cuor mi brama,
Ritrar la bella effìgie vorrei di questa dama.
Contessa. (Fa per farmi dispetto). Fateci un po’ sentire.
(a don Fabio)
Fabio. Dirò per obbedirvi. Priegovi a compatire.
     Colle tue piume, Amore,
     Forma gentil pennello;
     Tu, veritier pittore.
     Fingi di Nice il bello,
     E la perpetua tela
     Sia degli amanti il cor.

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Contessa. Bravissimo. Che dite? (alla Baronessa)

Baronessa.   Bravo. (Mi fa dormire).
(piano al Capitano)
Capitano. Sulla tela perpetua vi sarebbe che dire.
Fabio. Perchè?
Contessa. Via, seguitate.
Capitano. Così non finiremo.
Fabio. Vi do noia, signore?
Capitano. Anzi, ho un piacere estremo.
(con qualche caricatura)

                    Fabio.Scegli la rosa e il giglio
                    Per colorire il volto;
                    Puoi, per formare il ciglio.
                    L’oro stemprar disciolto;
                    E il candido alabastro
                    Per colorire il sen.

SCENA VI.

Il Barone Federico e detti.

Barone. Servo di lor signori.

Contessa.   Serva, signor Barone.
Barone. Serva sua, signor padre.
Capitano.   Riverisco.
Fabio.   Padrone.
Contessa. Siete venuto a tempo...
Barone.   Oh quanto ho camminato!
Credo per tutta Mantua stamane aver girato.
Fui dal governatore, andai dal commissario,
E poi dal generale, e poi dal segretario.
Alla posta, al caffè, nel bottegon dei giochi.
Alla piazza, alle mura... Son stato in cento lochi.
(siede sulla sedia di don Fabio)
Contessa. Caro Baron, vi prego, lasciate che sentiamo
Una canzon magnifica, e poi....

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Barone.   Che ora abbiamo?

(si alza, guarda l’orologio, e seguila a parlare)
Diciott’ore sonate. Diciotto solamente?
Ho fatto le gran cose, e tutte prestamente.
Non era ancora giorno, quando mi sono alzato;
Chiamato ho il servitore, ho preso il cioccolato.
Ho scritto quattro lettere. Ehi appunto, mia figlia,
Ho risposto alla lettera del conte Cociniglia.
L’ho salutato ancora per parte vostra; affè.
Me l’ho scordata in tasca: oh il bell’uomo! Lacchè.
Questa lettra alla posta, e portala di trotto;
Tieni, vammi a giocare questi numeri al lotto.
Oh sentite sta notte cosa mi son sognato....
Contessa. Signor Barone, in grazia.
Barone.   Mi parve esser chiamato...
Contessa. Si vorrebbe sentire una canzon; signore.
Potrebbe un po’ star zitto, almeno per favore?
Fabio. Per me non impedisco.
Contessa.   Don Fabio, seguitate.
Barone. Mi pareva sta notte...
(a mezza voce a quello che gli è piìi vicino)
Contessa. Non gli badate.1 (a don Fabio)

                    Fabio.Pinger le luci belle
                    Come potresti mai?

Barone. Ho sentito una voce, che mi dicea dormendo....

(A quello a cui si trova vicino, il quale gli fa cenno che taccia: egli si accheta, e va in un altro luogo.)


                    Fabio.Pinger le luci belle
                    Come potresti mai?
                    Se delle chiare stelle
                    Tu non adopri i rai?

Barone. Ho cavato dal sogno un numero stupendo.

(A quello a cui si trova vicino. Tutti gli fanno cenno di tacere.)

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                    Fabio.O se non togli al sole
                    Parte del suo splendor? (alzando la voce con sdegno)

Contessa. Bravo, evviva don Fabio.

Barone.   Ora che ha terminato...
(a quello cui si trova vicino)
Contessa. Non ha finito ancora. (al Barone)
Barone.   Dirò quel che ho sognato.
(come sopra)
Mi spiccio in due parole (alla Cont.) Chiamare io m’ho
sentito...
Fabio. Servo di lor signori. (parte)
Barone.   Padron mio riverito, (a don Fabio)
E mi parea la voce...
Contessa.   In verità, signore...
Barone. D’una savia sibilla...
Contessa.   Siete il gran seccatore. (parte)
Barone. Possibil che non possa sentir quattro parole?
La Contessa è buonissima, ma vuol quello che vuole.
Dice a me seccatore? credo che non vi sia
Seccatura più bella quanto la poesia.
Ma se la godi pure. Per terminar di dire,
Una savia sibilla veduta ho comparire,
E parea che alla mora meco giocar volesse;
Ora sette, ora cinque parea ch’ella dicesse.
Sette e cinque fan dodici, e il dodici giocai;
Vi par ch’io l’indovini? (al Cavaliere)
Cavaliere.   Per me non gioco mai.
Sopra di tal materia non vi dirò opinione.
(Son seccato abbastanza). Con vostra permissione. (parte)
Barone. Ma che razza di gente! e voi che cosa dite?
(a don Armidoro)
Armidoro. Dico, che facilmente...
Barone.   La mia ragion sentite.
È ver, che sette e cinque può far cinquantasette,
Può far settantacinque anteponendo il sette.

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E cinque volte sette fa trentacinque ancora,

Ma il dodici mi piace, e il dodici vien fuora.
In materia di cabala non cedo a chi si sia.
La cabala è un bel studio. Altro che poesia!
Guardate se può essere più chiara e più visibile.
(lira fuori un foglio)
Armidoro. Vado, e ritorno subito. (È una cosa insoffribile). (parte)
Barone. No, se veder volete la cabala di Pico,
Eccola qui, osservate. (tira fuori un libro)
Capitano.   Un’altra volta, amico.
Barone. Ecco la gran figura...
Capitano.   (Signora, perdonate,
Tornerò a riverirvi). (alla Baronessa)
Barone.   Voglio che l’imparate.
Questa è la vera cabala...
Capitano.   Sì, la cabala è vera.
Deggio partir per ora. Ci rivedrem stassera. (parte)
Barone. Voi capite le cabale? (alla Baronessa)
Baronessa.   Io non capisco niente.
Barone. Ascoltatemi adunque...
Baronessa.   Serva sua riverente.
Barone. Ma lasciatemi almeno spiegar questa figura.
Baronessa. Grazie, grazie....
Barone.   Di che?
Baronessa.   Della sua seccatura. (parte)
Barone. Pazzi, bestie, ignoranti. Tutti, la notte e il dì.
Cercano la fortuna, e la fortuna è qui.
È ver colla mia cabala che vinto ancor non ho;
Ma a dispetto di tutti, un dì guadagnerò. (parte)

Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Così nel testo. Forse è da correggere: Signor, non gli badate.