La chioma di Berenice (1803)/Considerazione V

Considerazione V. Giuramento

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Gaio Valerio Catullo - La chioma di Berenice (I secolo a.C.)
Traduzione di Ugo Foscolo (1803)
Considerazione V. Giuramento
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considerazione v

Giuramento.


          Verso 40. — Adiuro teque tuumque caput:
          Digna ferat, quod si quis inaniter adjurarit.

Gli stoici prescrivono che si ricusi il giuramento a tutto potere (Epitteto, cap. 44); e, se pur è da giurare, si giuri soltanto o per trarre l’amico di manifesto pericolo, o per i parenti e la patria (Simplicio, comen. ad Epitt., ibid.). — L’accusatore di un omicida giurava all’Areopago ch’ei diceva il vero. Se l’accusa non era provata non era punito, ma consecrato per lo spergiuro all’ira divina. = Quantunque egli siasi obbligato al sacramento, non però gli si crede. Convinto di calunnia, chi vorrà redarguirlo? Ma sé ed i figliuoli, e l’intera famiglia avrà di nefando e sterminatore sacrilegio contaminati. Demostene contro Aristocrate. = So d’avere letto nell’antico scoliaste di Pindaro, sebbene or non mi torni a mente il testo, che gli antichi, per timore dello spergiuro, si contentavano della sola formola del giuramento, omettendo il nome degli Dei. Essendo la religione de’ greci incorporata negli affari politici, gli spergiuri consecrati all’ira de’ numi erano oppressi ad un tempo dalla pubblica infamia. — Questa formola Adjuro teque tuumque caput era famigliarissima a’ greci; onde Giovenale, satira vi, v. 16:

                     — Nondum graeci jurare parati
               per caput alterius.

Ma a torto il satirico morde i greci, ch’ei doveva mordere e gli ebrei (Matth., v, vers. 36), ed i romani de’ suoi tempi, che giuravano Per salutem et Genium Principis, e gli sciti sin dall’età più antica per solium regis," [p. 178 modifica] ventum et acinacem (Luciano in Toxari). Giuramento ch’io trovo pieno di sapienza; e di cui parlerò, poiché a quel luogo i cementatori non parlano. Gli Sciti comprendevano in quel giuramento le leggi, la religione e la forza dominatrice di tutto quello che vive. La prima parte sta nel Solium regis, ed è da osservare quanto accortamente giurassero più per la dignità che per la persona. Il Vento era dagli antichi preso per l’anima; anzi anime sono i venti presso Orazio (lib. iv, od. xiii, 2); voce derivante dalla greca ἄνεμος vento: così πνεῦμα, spiritus, e mille altri siffatti: anzi la voce ψυχή, con che più comunemente da’ greci si chiama l’anima, suona refrigeratio. Cassiodoro (Expositio in psalm. ciii, v. 3) interpreta i venti del poeta ebreo essere le anime de’ giusti. Or poiché per la storia di tutte le religioni sappiamo che la speranza di un’altra vita è riposta nell’anima la quale si crede superstite alla morte del corpo, lo Scita, dopo la patria e le leggi, giurava per la speranza o pel timore del Tartaro. La terza parte del giuramento è riposta nella forza della propria spada, a cui gli uomini veri ricorrono, quando veggonsi traditi dai principi ed abbandonati dal cielo.

Tornando al giuramento della chioma, e considerandolo poeticamente, per chi con più passione poteva ella giurare che per lo capo della sua donna, ove pur sospirava di ritornarsi? I giuramenti fatti sobriamente e con pietà fanno l’orazione sublime, perché, intermettendo le cose divine alle umane, aprono un sentiero al meraviglioso; e facendone temere la vendetta celeste contro lo spergiuro, ci tramandano i concetti nel cuore pieni di passione e di voluttuoso ribrezzo, quando specialmente si giura per cose care e perdute, le quali ridestano le dolci e dolorose rimembranze del passato. Perciò Longino [p. 179 modifica] sezione xvi) allega per esempio di sublime il giuramento di Demostene per le anime de’ morti in Maratona. Così è pieno di magnificenza, perché porta tutti i pensieri del lettore sulle grandi speranze del futuro, quel giuramento d’Ilioneo: Eneid. vii, 234:

                    Fata per Æneae iuro.

E pieno di profondo dolore è quello di Pier delle Vigne in Dante: Inferno, canto xiii, v. 73:

               Per le nuove radici d’esto legno
               Ti giuro che giammai non ruppi fede
               Al mio signor. . .

ma chi vuole sentire la forza di questi versi, legga tutto il discorso di quel venerando suicida. Quintiliano scrive alcuni precetti sul giuramento, ma son tutti da poco; ed insegna assai più, quand’egli (lib. iv, nel proemio), narrando a Marcello Vittorio le proprie sciagure domestiche, esclama: Juro per mala mea, per infelicem conscientiam, per illos manes numina doloris mei. . ..