La botte di sidro/Le bocche inutili

Le bocche inutili

../Per ingrandirsi ../Due amici si amavano IncludiIntestazione 4 giugno 2008 75% Racconti

Octave Mirbeau - La botte di sidro (1919)
Traduzione dal francese di Anonimo (1920)
Le bocche inutili
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A Ferdinand Brunetière.


Il giorno in cui fu ben provato che papà Francesco non poteva più lavorare, sua moglie, molto più giovane di lui e assai vivace, con due occhietti brulanti di avara, gli disse :

— Che cosa vuoi farci, vecchio mio ?... Quando ti sarai desolato ben bene per ore intere !... Tutto ha un termine su questa terra... Tu sei vecchio come il ponte della Bernache... hai quasi ottanta anni tu... e le reni nodose come un vecchio tronco d’olma... Bisogna che ti rassegni... riposati...

E quella sera essa non gli diede da mangiare.

Quando papa Francesco si accorse che la scodella e il pane non erano stati preparati per lui sulla tavola, secondo il solito, ebbe freddo al cuore. E disse con una voce tremante, una voce umile che implorava :

— Ho fame... moglie mia... vorrei almeno una crosta di pane...

Allora la donna rispose assai calma :

— Hai fame... hai fame... È un guaio, povero vecchio mio... ed io non ci posso far nulla... Quando si lavora... non si ha il diritto di mangiare... bisogna guadagnarselo, il pane che si mangia... Non è vero ?... Un uomo che non lavora non è un uomo... è più nulla di nulla... è peggio d’un ciottolo in un orto... è peggio d’un albero secco contro un muro...

— Ma se non posso lavorare... e tu lo sai bene — osservò il pover’uomo. — Vorrei, se lo potessi... ma le gambe e le braccia si riflutano...

— E che forse ti rimprovero qualche casa io ?... Ed è forse colpa mia ?... Bisogna esser giusti in tutto... Ed io son giusta. Tu hai lavorato ed hai mangiato... Ora non lavori più e non mangerai più... Ecco qua ! E non c’è proprio niente da ridire. Così. Come due e due fan quattro. Tu lo terresti nella stalla, con la rastrelliera calma e l’avena nella mangiatoia, una vecchia carcassa di cavalIo che non si tenesse più sulle gambe ? Lo terresti tu ?

— No, certo ! — rispose candidamente papà Francesco, che questo ragionamento parve schiacciasse con la sua implacabiie giustezza.

— E allora... vedi bene ! Bisogna che ti rassegni...

E con una voce beffarda, soggiunse :

— Se hai fame, mangiati un pugno e l’altro serbatelo per domani !

La donna andava e veniva su e giù nella stanza povera, ma assai pulita, ordinando le cose per risparmiarsi la fatica pel domani — poichè bisognava ormai ch’essa lavorasse per due — e per non perder tempo sbocconcellava rapidamente il pezzo di pan nero e la mela acerba che aveva raccolta sotto l’albero nel cortile...

I1 pover’uomo la seguiva con due occhi accorati, coi suoi piccoli occhi ammiccanti che forse per la prima volta conoscevano che fosse una lacrima. Sentì passare sopra di sè, sulle sue vecchie ossa anchilosate, una immensa e pesante angoscia, sapendo che nessuna discussione, nessuna preghiera potevano flettere quell’anima più dura del ferro. Sapeva altresi che la terribile legge che gli applicava, essa l’avrebbe accettata per se stessa, senza alcuna debolezza, perchè quella era una donna stretta, semplice e leale come l’omicidio. Tuttavia pur senza speranza, osò soggiungere con una smorfia sorniona delle labbra :

— Ma abbiamo qualche piccola rendita...

La donna protestò vivamente :

— La rendita ?... La rendita !... Ah ! sì ! Hai perso la testa, tu, mi pare !... Se se ne toccasse un soldo di quella, dimmi, dove si andrebbe a finire ?... E il figlio, pel quale abbiamo messi insieme quei pochi soldi, cosa direbbe ?... No, no... Lavora e avrai del pane... Se non lavori, non avrai nulla... È giusto !... ed è cosi che deve essere...

— E va bene !... — fece papà Francesco.

E si tacque, con l’occhio avidamente fisso sulla tavola spoglia, che d’ora innanzi sarebbe stata sempre tale per lui... Gli parve ben duro questo, ma giusto in fondo, poichè alla sua anima primitiva non era mai toccato di elevarsi dalle feroci tenebre della natura fino al luminoso connubio dell’egoismo umano e dell’amore.

Si raddrizzò penosamente. ed emettendo dei sordi lamenti di sofferenza « Oh ! le mie reni ! le mi reni  ! », se ne andò nella camera accanto che dalla porta spalancata gli si apriva davanti, nera e profonda come una tomba.


Doveva arrivare per lui quel terribile momento com’era sopraggiunto già per suo padre, per sua madre, ai quali, braccia impotenti e bocche inutili, anch’egli aveva con implacabile rigore negato il pane degli ultimi giorni vissuti senza lavorare. Da molto tempo l’aveva veduto avvicinarsi, quel momento. Via via che le sue forze diminuivano, diminuivano anche le porzioni parsimoniosamente regolate dei suoi pasti.

Si era dapprima cominciato a rifilare sulla carne della domenica e del giovedì, poi sulle verdure di ogni giorno. Ora era la volta del pane che gli si ritirava di bocca. Egli non si doleva e si preparava a morire, silenziosamente, senza un grido, come una pianta troppo vecchia, il cui tronco disseccato e le radici marcite non assorbono più i succchi della terra.

Egli, che non aveva mai sognato, sognò, quella notte, la sua ultima capra. Era una vecchia e dolcissima capra, tutta bianca, con due piccole corne nere e una barbetta lunga simile a quella dei diavoli di pietra che istoriavano il portale della chiesa. Dopo aver dato per tanto tempo dei graziosi caprettini e del buon latte, il suo ventre era diventato sterile e le sue mammelle si erano inaridite. Tuttavia, il suo mantenimento e la sua lettiera non costavano nulla, e la povera bestia non disturbava nessuno. Legata al piuolo per tutta la giornata, a qualche metro dalla casa, essa brucava le cime dei giunchi della landa comunale, e andava su e giù, quanto glielo permetteva la lunghezza della corda, belando lietamente alle persone che passavano lontano, sulla viottola.

Egli avrebbe potuto lasciarla morire così, ma una mattina, l’aveva sgozzata perchè bisogna che tutto quello che non produce più nulla, nè latte, nè semenze, nè lavoro, sparisca e muoia. E rivedeva l’occhio della capra, teneramente attonito, il suo rimprovero, quando, mantenendola abbattuta fra le sue ginoechia strette, egli ne frugava col coltello la gola sanguinante.

Destandosi, con la mente ancora piena del suo sogno, papà Francesco mormorò :

— È giusto... Un uomo è un uomo, come una capra è una capra... Non ho niente da dire... giusto !...


Papà Francesco non ebbe una recriminazione nè un atto di rivolta : non lasciò più la sua stanza, non più il suo letto. Supino, le gambe distese riunite, le braccia lungo il corpo, la bocca aperta e gli occhi chiusi, se ne stette immobile come un morto.

In questa posizione di cadavere, non soffriva più alle reni, non pensava più a nulla, s’immergeva in un torpore morbido, in una continua sonnolenza che lo trasportava lontano dalla terra, lontano dal suo povero giaciglio, in una specie di gran flutto biancastro, sconfinato, che era attraversato da piccoli bagliori rossi e in cui formicolavano minuscoli insetti di fuoco. E dal suo letto si alzava un fetore come di letamaio.

La mattina, andando al lavoro, sua moglie chiudeva a doppio giro di chiave. La sera, rincasando, essa non gli diceva nulla, non lo guardava neanche e si coricava accanto al letto, su un pagliericcio, addormentandosi d’un sonno pesante non interrotto da nessun sogno e da nessun risveglio. Fin dall’alba ella si dava ai suoi lavori soliti con la stessa tranquillità attiva, con lo stesso tendimento d’ondine e di pulizia.

La domenica che seguì, la donna la occupò a riunire i panni del vecchio, ad accomodarli, a ordinarli meticolosamente in un angolo del cassettone. La sera andò a cercare el prete perchè assistesse il suo uomo di cui sentiva prossima la fine.

— Che cosa ha, papà Francesco ? domandò il prete.

— Ha la vecchiaia ! rispose la donna con tono perentorio — Se ne muore, ecco tutto ! Tocca a lui, poveraccio !

Il prete unse le membra del vecchio con l’olio santo, e recitò qualche preghiera.

— Credeva di camparla più lunga, lui... — disse, ritirandosi.

— È la sua volta — ripetò la donna.

L’indomani, entrando nella camera, ella non intese più il piccolo rantolo che usciva dal naso del buon uomo, come il gorgoglio d’una bottiglia che si vuoti. Tastò la fronte, il petto, le mani del vecchio e lo sentì freddo.

— È morto ! disse con tenerezza, ma con un tono di profondo rispetto.

Le palpebre di papà Francesco si erano arrovesciate nel momento supremo dell’agonia e svelavano l’occhio appannato, senza sguardo. Ella le abbassò con un rapido tòcco del pollice, poi considerò, pensosa, per qualche momento, il cadavere, e disse tra sè :

— Era un uomo ordinato, economo, coraggioso... Si è ben condotto in tutta la sua vita... ha lavorato molto... Gli metterò una camicia nuova e il suo abito di sposo... un bel lenzuolo bianco... E, poi, se il figliolo vorrà... si potrà comperare una concessione per dieci anni... al cimitero... come per un ricco...