La Italia - Storia di due anni 1848-1849/Libro primo

Libro primo

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Introduzione Libro secondo


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LIBRO PRIMO



Stato civile della Italia nelle singole sue città. — Quale il governo, quali i governati. — Gregorio XVI. — Sua gestione principesca. — Il nuovo Papa. — Amnistia. — Cenni Biografici. — Organamento amministrativo dello Stato Romano. — Disegni di Riforma. — Consulta. — Incompatibilità di un sacerdote-massimo re. — Tendenze italiane. — Brighe Austriache. — Movimento di opinione in Toscana e in Piemonte. — Abozzo di confederazione politica fra i gabinetti Romano, Toscano e Subalpino. — Aspetto politico e morale della Italia in sul finire del 1847.


L’antica Italia dormiva da secoli il sonno delle proprie sventure!

La soverchia vaghezza del suo cielo, la ubertosità dei campi, la bramosia forestiera e la intestine discordie — rendendo inutili gli eterni baluardi che la provvida natura le aveva conceduto nelle Alpi e sul mare — avevano chiamato uomini di tutte genti al dominio delle sue belle città. Le romane ingordigie, i brevi amori, la feroce tirannide di famiglie salite al principato sui cadaveri dei forti, rendettero questa infortunata nazione la scena di mille conflitti, di vendette tremende, di svariate fortune, le quali crebbero sulle ruine dei popoli, allorchè le smarrite virtù gli uccisero miserabilmente nella infiorata via de’ piaceri. Da quel tempo sino a noi, la Italia, rimbellettata con tutte arti di vil corruzione, perdette ognor più le tracce di quello che fu.

Il suolo ove i cittadini di venti contrade si strinsero fraternamente la mano per raumiliare in Alessandria e in Legnano l’orgoglio insolente del Barbarossa, mostrava a’ dì nostri una caserma di Austriaci, un conservatorio di musica, un teatro, in cui la gioventù educavasi alla vanità, alla effeminatezza, agli ozi beati; e il Duomo torreggiava in mezzo a Milano come solenne ironia ai pigmei che intorno vi brulicavano. — La simmetrica e morale Torino, che aveva dato alle scienze un Beccaria ed un Lagrangia, appariva gelosa guardiana della parziale sua nazionalità; e i principi che v’ebbero ed han seggio, alimentarono mai sempre nel cuore l’ansia per un gigantesco e provvidenziale disegno: ma, molti de’ loro atti dicevano ingiuria ai diritti della umana dignità. — L’Atene d’Italia, la Firenze del Buonarroti, ridotta feudo dei Medici e della casa di Lorena, offerivasi qual turpe mercato alle libidini nostrane e straniere. — Pisa, fattasi l’ospedale de’ malazzati di Albione, nella sua Università ricordava la fama immortale di Galileo come in un sogno. — Il loco natio di Castruccio, caduto in dominio di una famiglia spensierata ed ignava, era il ritrovo di un’aristocrazia cosmopolita. I ducati di Modena e di Parma, il ricettacolo della premiata ignoranza e della schiavitù più o meno gravosa, intollerabile sempre, perchè derivante da estranei [p. 10 modifica]signori. — La dotta Bologna vedeva chiusa la famosa sua scuola d’onde era escito cotanto lume; e pur forti spiriti ancora albergava, cui era delitto di carcere, di esiglio e di morte l’oprare. — Roma, museo dell’antica magnificenza dal colosso pagano al colosso cristiano, contava gli evirati suoi giorni sul calendario gregoriano, satirizzando con ridevoli pasquinate le processioni, il frequente succedersi de’ suoi re-sacerdoti, le condanne de’ tribunali militari e del Santo-Ufficio. — Genova, assorta ne’ lucrosi negozi, avvolgevasi in una nube di cifre algebriche; il ricordo de’ dominati mari la crucciava spesso e la faceva perciò temer da un governo che i trattati di Vienna avevanle imposto. — Venezia, la città dello incanto, retta un dì dal valore e dal senno di un astuto patriziato; quindi, al cangiarsi di una grande fortuna, stretta dall’avaro artiglio dell’aquila Austriaca, languiva oppressa dai suoi costumi senz’altra ricchezza, tranne quella d’illustri nomi e di titoli che la facevano degna della compassione europea. — La città di Giannone e di Vico, la patria di Giovanni da Procida e di Campanella, abitate da plebe volubile, nelle cui vene ogni razza di dominatori ha inoculato i suoi vizi, parevano nate a patir l’onta della propria schiavitù. Ogni ardito conquistatore, apparso con temeraria fiducia su quel magico paradiso della natura, fu certo di esservi accolto, aggradito e piaggiato; onde, tutti vi convennero dalla vana gente di Francia alla superba di Spagna sino alla famiglia Borbonica che tuttor v’ha dominio. Spesso, succedendo alla vergogna il furore, lo spregio rese arditi gli oppressi, e la terra de’ sotterranei fuochi dava vita a cospirazioni tenebrose ed a feroci necessità di sangue. Fede non certa ed instabile al pari del suolo!

Dalle Alpi adunque mal viete alla estrema Sicilia viveva un popolo dislocato — nella sua unità di religione, di costumi, di linguaggio, di tendenze — da dieci frontiere, taglieggiato da altrettanti separati governi l’uno all’altro straniero, stretti però tutti ad un patto, quello di soffocare in Italia ogni qual si fosse germe di libertà. Dagl’infranti monumenti però, eretti dal genio inemulato degli avi — reliquie di non inutile iattanza a’ nepoti — udivasi una voce che diceva


gloria e vergogna


e metteva ne’ cuori intiepiditi un certo fomite di virtù a far vacillare talvolta le corone sulle fronti altere dei re, e tal’altra inchinarle dinanzi ai bisogni intellettuali, morali e materiali del popolo. Le scienze, le lettere, le arti davano tratto tratto qualche nome famoso alle pagine della storia contemporanea, e ciò addimostrava che il sacro nido della civiltà non erasi affatto isterilito e che un potente sole pioveva ancora i suoi benefici influssi sulle menti dei pensatori e degli artefici del bello. Ma, i più arditi in fra questi erano forzati a migrare in estranea terra per politico bando, o per sottrarsi dallo sdegno, che mai non perdona, della paurosa e tremenda Inquisizione. La luce del vero la doveva esser muta pei più. Le mal redatte gazzette governative impedivano a tutt’uomo che quell’elemento di libera vita penetrasse nella breve sfera, la quale di menzognero pabolo esse avevansi il carico di alimentare. Laonde, spesso avveniva che gl’Italiani di uno Stato non sapessero novelle di un movimento [p. 11 modifica]avvenuto in quello limitrofo, che dai pubblici fogli di Francia e di Augusta, o malamente lo giudicassero dalle parole del proprio giornale; imperciocchè, questo si piaceva dare il titolo di briganti, di grassatori e di ladri ai larghi della loro vita a pro dell’altrui bene, i quali, in una terra ricinta di armati e di spie, si attentavano a domandare a’ loro rettori e leggi ed onore.

Cotesto stato di cose si avea nome di pace dai nostri governi. La era invece una guerra sorda e celata, talvolta irrompente e repressa, rabbonacciata mai, sempre nefasta al presente e di utili effetti per lo avvenire. I cultori delle arti belle si facevano alla lor volta i cospiratori ausiliarii degli esuli e degl’imprigionati; e numerose effemeridi parlavano al popolo nei loro racconti e romanzi, esiliati dalle cronache di tutti gli evi d’Italia, parole di energico dolore e di solenni speranze; e le sale delle ritrattistiche sposizioni mostravano sulle tele, sui gessi, sui marmi gli uomini e i fatti or lamentabili ora lodevoli di una perduta grandezza e di una gloria di continovo ricordo; e le scene teatrali rappresentavano come viva cosa i delitti de’ tiranni, le corruttele delle corti, le egregie gesta, ogni nobile e generosa passione; e la musica disposata a’ versi di que’ drammi imprimeva nelle menti più grette e più schive gl’inni molteplici di un non lontano risorgimento. E Alessandro Manzoni scriveva l’Adelchi e il Carmagnola; Tommaso Grossi il Marco Visconti; F. Domenico Guerrazzi la Battaglia di Benevento e lo Assedio di Firenze; Gio Battista Niccolini il Giovanni da Procida, l’Arnaldo, il Filippo Strozzi; Massimo d’Azeglio la Disfida di Barletta; e Giuseppe Giusti le Canzoni Satiriche che tutti conoscono.

Il pensiero, corroborato della dignità, aspirava gradatamente al ben’essere goduto dalle altre nazioni di Europa. Si chiesero e si ottennero vie di più rapida comunicazione interna tra l’un paese e l’altro; franchigie al commercio e protezioni alle industrie; asili infantili ed ospizi pei vecchi e pe’ necessitosi; provvedimenti di miglior istruzione per la gioventù; penitenziari correzionali pei traviati a cagione dell’ignoranza. E quando ne’ molti incarnossi la idea della (loro?) nazionalità, i nostri governi dovettero accogliere nelle città capitali i membri de’ Congressi scientifici, i quali — malgrado la loro apparente nullità — regolarono, concretandolo, il concetto della rigenerazione italiana.

Un solo governo respinse ostinatamente i disegni di civile progresso che altrove attuavansi. Il Capo della Chiesa cattolica — che un avverso destino aveva dato ad una delle migliori popolazioni della penisola — era un uomo invecchiato nel silenzio dei chiostri e volea ad ogni patto attutire le voci che osassero turbarglielo sui gradini del doppio trono. Accerchiato da ministri di null’altro curanti che di tutelare con artifiziosi puntelli il crollante e decrepito edificio della potestà temporale; rappresentato nelle province da delegati i quali, commettendo soprusi e sospettando delitti di fellonia nella gioventù dignitosa e pensante che mormorava sui loro decreti, o tenevasi in non servile atteggiamento, di questa assiepava le carceri e i tribunali delle commissioni miste; dipendente nelle spesse insurrezioni dall’Austria, di cui temeva e le pecuniarie esigenze e il manifesto desiderio di esautorarlo della parte più florida dello Stato suo; abborrito come [p. 12 modifica]principe, perchè negligente della pubblica cosa; fatto crudele dalla paura; dedito intero al godimento di quelle temporali felicità che a lui vecchio una robusta costituzione concedeva fruire, Gregorio XVI moriva in Roma a’ dì 9 di giugno del 1846, senza alcuno rimpianto, come colui che lasciava un triste compito della sua gestione principesca e la infruttifera fama d’uomo erudito nelle morali e teologiche dottrine. I ricordi del suo regno trilustre erano lo erario consunto; il debito pubblico accresciuto; le imposte addoppiate; lo esiglio dei più incliti cittadini; lo eccidio o la detenzione dei più forti; le corti marziali; lo arbitrio invece della legge; l’anarchia legale in ogni ramo della pubblica amministrazione. Luttuoso corredo di mali gittato sul capo a tre milioni d’uomini in faccia all’Europa civile.

Già parecchi statisti italiani — quali più, quali meno apertamente, però tutti collo stesso proposito — avevano parlato della incompatibilità di un reggimento siffatto in mezzo ai lumi del nostro secolo. Alcuni invocavano un rimedio radicale, pronto, efficace; le medicine forti di Macchiavello. Altri mostravano la via che il governo teocratico dovesse tenere a prò della religione in un tempo e della libertà dei soggetti. Il Primato co’suoi Prolegomeni di Vincenzo Gioberti aveva guadagnato l’animo di tutti ed infiltrato sino nel clero la febbre per le proposte riforme. Ond’è che, morto il pontefice, i Municipii dello Stato Romano — quelli particolarmente delle Legazioni — indirizzavano allo Eletto a succedergli il quadro desolante delle miserie del popolo ed i mezzi i più acconci per renderlo prosperoso e felice.

Cinquantuno cardinali, riunitisi nel Quirinale, nominavano il nuovo papa dopo una breve dimora in Conclave. I tempi correvano minacciosi e difficili ed ogni lentezza poteva essere di molto pregiudizio alla potenza delle somme chiavi. II conte Giovanni Maria Mastai-Ferretti, cardinale e vescovo d’Imola, raccolti i maggiori suffragi del Sacro - Collegio, saliva sulla sedia apostolica col nome di Pio IX. I Romani rimasero freddi spettatori dell’accaduto. Taluno sperava. Nessuna novità in sulle prime, tranne la scarcerazione di molti romagnuoli sostenuti lungo lo interregno per cautele di polizia, e la dimessione richiesta da sei cardinali — il Lambruschini, il Macchi, il Mattei, lo Amat, il Gizzi e il Bernetti — i quali, chiamati dal nuovo pontefice al reggimento provvisorio della cosa pubblica in sullo scorcio del giugno, indi a poco se ne ritraevano per divergenza di opinioni su talune riforme da lui designate. Udito perciò lo avviso de’suoi aderenti e quello degli ambasciatori stranieri, scrutinando i desiderii del popolo che sono spesso la volontà di Dio, agì a seconda del cuore. E alle ore sette della sera del 18 luglio facea pubblicare sui canti della città il decreto d’amnistia a benefizio degli esuli e degl’imprigionati per motivi politici. Le genti, oppresse sino a quel punto, interpretarono le umane parole di quell’atto nel vero suo senso, e quei che il compiva rimeritarono di feste e di ovazioni di grande riconoscenza.

Il deputato dall’Onnipotente a fornire alla Italia le più vaste speranze e i più grandi dolori, era nato in Sinigaglia — piccola terra della Marca d’Ancona sul mare Adriatico— a’ dì 13 maggio del 1792. Venuto di famiglia patrizia, agiata [p. 13 modifica]ed onesta molto, ebbe facili gli studi e le pratiche del mondo elegante e civile. Nè la natura gli niegava i suoi doni, concedendogli leggiadre forme, viso gioviale, occhi esprimenti e vivaci, un fine ed incantevole sorriso, facilità di eloquio, mani affilate e piccoli piedi; un di quei tipi della bella e robusta razza romagnuola che al sol vederli si distinguon tra mille. Simulatore e destro ne’modi, di carattere debolissimo, ardente ne’giovanili piaceri, incontrò casi d’amore che gli addolorarono per due volte l’anima. Onde, per isbarazzarsi più agevolmente da cuocenti memorie — dure a patirsi nel loco natio — dieciottenne recavasi in Roma a fine di ottenervi il posto di guardia nobile nella corte del papa.

Sedeva allora pontefice la santità di Pio VII, cui la famiglia per legame di amicizia raccomandavalo; e quel buono accoglievalo con affabilità grande nel Vaticano, assentiva a’suoi desiderii; e vedendolo di sovente, preso dal costumato e riflessivo contegno suo, gli pose fortissimo affetto. Ma la smania affannosa ch’entro il rodeva nocque alla di lui salute e fu colto da tale incresciosa malattia a fargli abbandonare la impresa carriera. Alla molta afflizione, alle molte parole di conforto portegli dal pio protettore successero le macerazioni, i digiuni, le ferventi e lacrimate preghiere al fattor d’ogni bene. La fede operava il miracolo; ogni traccia del male scomparve; la gratitudine lo chiamò al ministero santo di Dio; e, ordinatosi prete, si diè alla direzione dell’ospizio degli orfani, detto, dal nome del caritatevole fondatore, di Tata Giovanni.

In quel cuore bollente, impetuoso, la pietà non potevasi rimanèr tepida e tranquilla; il cerchio dei derelitti e miseri fanciulli parve a lui troppo ristretto; ed aspirò ad un apostolato rischioso in regioni lontane, nelle vergini foreste, in mezzo a nomadi e selvagge tribù per catechizzarle e mostrar loro la fiaccola delle vangeliche dottrine. Un prelato partiva alla volta del Chili ed egli accompagnavalo in qualità di uditore. Colà diè libero campo al suo zelo smanioso, provò emozioni nuove e soavi nella concitata anima sua, pati disagi e sventure; finché, discacciato insiem col Vicario di Roma per ordine del governatore del luogo, tornò nella capitale dell’orbe cattolico, ove Leone XII, in premio delle sue fatiche, il nominava presidente dell’ospizio di San Michele, quindi arcivescovo di Spoleto.

Allorché nel 4834 le bande armate degl’insorti occuparono la sua diocesi, egli rimase al suo posto; e cominciate le persecuzioni del governo contro tutti gli uomini sospetti di amare la loro patria, gli arrestati fe’ rilasciare, i fuggiaschi protesse e difese. Al ministro Bernetti non poteva piacere un prelato si umano e periglioso perchè vicino; per tali ragioni, da papa Gregorio facealo nominare cardinale e trasferire in Imola, città delle Legazioni non lungi di Bologna. Quivi come altrove apparve prodigo del proprio pei poveri, apri la sua casa a serali veglie, invitandovi ogni culla e costumata persona a qualunque opinione politica essa si appartenesse. La cieca devozione a’ cattolici precetti non lo inselvaticava ponto; chè anzi, nel civile consorzio mostravasi ameno e facile narratore, amante di libertà temperata ed onesta. E una sera, parlando con un conte di Ravenna, venuto a complirlo nella sua residenza, così si esprimeva:

[p. 14 modifica]«Io non so comprendere l’attitudine riottosa del nostro governo, il quale mortifica colle persecuzioni la gioventù che spira l’alito del proprio secolo. Vi vorrebbe si poco per contentarla e farsene amare! E nè anche valgo ad ini maginare la sua contrarietà alle strade ferrate, alla illuminazione a gasse, ai ponti sospesi, ai congressi scientifici. La teologia non si oppone — ch’io sappia — allo incremento delle scienze, delle arti, delle industrie... Ma.... già... io non intendo un ette in politica, e forse sbaglio.»

Ma, il di che s’ebbe cinte le tempia della tripla corona, ed egli, buono amministratore del suo, parco allora per sè e largo pe’miseri, vide lo scompiglio grande nelle pubbliche finanze, le dilapidazioni e l’anarchia completa nelle cose governative e notò lo interesse parziale de’ molti alla continuità dei mali del popolo che Iddio alle sue cure affidava, provò lo sgomento nell’anima e pregò le potenze del cielo lo aiutassero in tanta emergenza. Ei potè porre in atto le riforme domestiche del pontificale palagio col ridurre ai minimi termini i cavalli, le carrozze, lo sfaccendato servitorame e le gastronomiche spese. Ma, per isterpare dalle radici gl’ingenti abusi, eravi mestieri di un cuore più saldo che il suo non era, od essere assecondato da uomini capaci, probi e intenzionati al bene. La polizia non dipendeva da leggi, ma dallo arbitrio di un prelato sedente governatore nel palazzo Madama e dai commessarii sparsi nelle province. La giustizia non era che un vano nome, imperciocché, un ammasso indigesto di motu-proprii e di decreti non rivocati e di autorità d’uso, innestato al vecchio albero del Gius Romano, governava le persone e gli sterminati possessi della Chiesa e impediva le ragioni dei cittadini ed il giudizio dei magistrati; i militari sentenziavano senz’appello sui delitti politici; i giudici erano scelti tra la gente inetta, bacchettona e strisciante nelle sagrestie, o nell’aule prelatizie; e spesso avveniva che un onesto calunniato fosse ritolto dalla sua famiglia e cacciato misteriosamente in un carcere senza processo, senza difesa; e più spesso, un mal cominciato litigio per determinare il limite di un territorio, l’uso di un albero confinante, o delle acque di un ruscello attraversante due campi affaticava i tribunali per più di un secolo, e non giudicato cessava, sol perchè a’ due puntigliosi litiganti immiseriti dal lungo spendere mancavano i denari per vivere. Una masnada di facinorosi— chiamati centurioni dal cardinal-ministro Bemetti che instituivagli a sostegno dell’altare e del trono nel 4831 — scorrazzava armata le Legazioni e le Marche, e, insultando a’cittadini, imponendo gravami a’fattori di padroni liberali od invisi, imprigionando chi più le talentasse, rendeva impossibile la tranquillità, il malo umore ognor più crescente. L’armata senza disciplina, senza istruzione, senz’amore pei capi, nè pel governo, reclutavasi nelle bettole, ne’ trivii e sulla porta delle carceri correzionali; i gradi si comperavano o colle bassezze o coll’oro; e quest’oro chi lo aveva speso recuperavalo sulla paga dei soldati, o sulla cassa militare. Le migliori milizie eran le Svizzere, obbedienti alle proprie ordinanze; ma le costavano il doppio delle schiere formate dagl’indigeni vagabondi, e perciò doppiamente disprezzate e abborrite. E che dirò della finanza, questa parte principalissima di ogni buon reggimento, la quale, diretta dalle economiche dottrine, [p. 15 modifica]debbe sorreggere la potenza dello Stato e mantenerne la civile prosperità? Mai più disordine al pari di questo! I balzelli governativi dipendevano dalla volontà del tesoriere, prelato che non dava mai conto ad alcuno della propria gestione. Ogni possesso, ogni consumo, il vitto, la persona erano tassati senza senno, senza misura, senza equità; si pensava soltanto a riempire colle maggiori imposte lo erario, il quale — come la botte delle Danaidi — era continuamente vuoto ed esausto. Le entrate comunali venivano in parte nelle mani dei delegati delle provincie, i quali spesso sottraevano quei fondi dai pubblici lavori e ne usavano come di cosa propria. Il ministero delle finanze non aveva registri. La statistica degl’impiegati era stata lacerata sin dal 1815. E quando nel 49 la Costituente nominò una Commessione che una ne organizzasse sulle basi esistenti, si scopersero orrori, impudenti dilapidazioni, consuetudini disordinate, incredibili cose. Molti si godevano paghe mensili, senza prestar servigi allo Stato, col presentare al cassier generale la lettera di un alto dignitario in favore; e mille scudi al mese si davano ad un uomo, il cui merito era lo aver affisso sulla porta delle basiliche la scomunica contro l’imperatore Napoleone; e parecchi cittadini si avevano tre, quattro e sei impieghi lucrosi senza disimpegnarne alcuno; e pensioni si pagavano a vedove rimaritate; ed altre a belle donne pericolanti, ma si dovea credere non lo fossero; ed altre ancora ad impiegati morti già da un secolo, ma che si tenevan vivi con solenne scaltrezza ne’ nomi degli abiatici e dei pronipoti. Ho veduto persino ne’ dicasteri giovani di trent’anni aspiranti già alla pensione di ritiro, perchè nominati allo impiego di minutante, di segretario, di contabile il dì del matrimonio dell’avvenente lor madre. Lo ingegno era calcolato a nulla, o a delitto. La cabala, la doppiezza, la cortigianeria, tutto. Il cinismo presentavasi nudo qual era dalle forme le più schifose. Le arti si alimentavano meschinamente, tanto per non mancare a gloriose tradizioni. Le opere di pubblica utilità erano i conventi, le chiese; intanto i fiumi traboccavano; il traffico rimaneva senza aiuto; le industrie languivano, perchè quasi represse; l’agricoltura era sconosciuta nell’agro romano; il popolo accasciato dalla miseria e dalla insolente baldanza di chi il governava.

Onde ovviare a tanta congerie di mali, il pontefice associava a’ suoi disegni d’innovazioni il cardinale Pasquale Gizzi, uom giusto e dabbene, il quale, pochi mesi innanzi legato a Forlì, colla dignitosa sua condotta aveva saputo acquetare la indignazione degli abitanti rompenti a minacce contro il gregoriano governo. E per vie meglio indagare la verità — che i cortigiani ai principi sogliono sempre tacere — prese a dissuggellare di per sè stesso le lettere che se gl’indirizzavano per la posta e a ricevere ogni giovedì nel Quirinale gran numero di persone. Così vennero ritolti i più grossolani abusi; e si provvide ad una maggior libertà d’istruzione, allo allontanamento delle spie, alla regolarità de’ processi criminali e politici; ed al popolo che dignitosamente sapeva esigere il buono della vita civile si promise una legge sulla stampa; la revisione del codice amministraiio; ponti sospesi sul Tevere; strade ferrate; asili infantili, ospizi di mendicità, scuole domenicali e serotine pe’ contadini e per gli artigiani; congressi [p. 16 modifica]scientifici. Infrattanto, l’abate Graziosi suo maestro e il P. Gioacchino Ventura, suo condiscepolo — due tra i più ragguardevoli uomini del clero cattolico, fervidi zelatori del bene della Chiesa e delle popolari franchile — a lui soccorrevano col lume dello intelletto e colla sapienza della parola.

Ma, gl’Ignaziani, i retrogradi, gli amici dello straniero i funzionarii sprofondati dalle riforme non potevano starsi colle mani alla cintola, e soffiarono sullo incendio delle civili contese in Bologna, in Cesena in Faenza. La sanguinosa lotta fu breve; i tristi, parve, si raumiliassero: inerti però non rimasero mai. Ed ecco altro motivo di rancore per essi, altro di gratitudine, di entusiasmo pe’ buoni; chè il papa, consigliato dai suoi benevoli ad addentrarsi sempre più nel sistema adottato pel miglioramento della pubblica cosa, faceva emanare dal cardinal Gizzi una circolare ai governanti le province, perchè proponessero il nome de’ più chiari per ingegno e per virtù all’oggetto di riunirli a Roma in un’Assemblea di Notabili.

Or, cotesta misura maturata dalla necessità, se addoppiava lo amore dei più per colui che ordinavala, nuoceva però potentemente al principio assoluto, immutabile della Corte Romana. Questa — riguardo il poter temporale de’ Papi — non si ha altro domma che il beneplacito del principe, informato della potestà spirituale e sempre intento a favorire la Chiesa a discapito de’ diritti naturali dei popoli. Essa pretende che lo Eletto dai suoi voti intralmente trasmetta i possedimenti consegnatigli dal cardinal camerlengo il dì della incoronazione. Che tutto ch’ei prodiga in fatto di libertà temporali sia revocabile all’uopo, onde restituire al suo successore quella pienezza di civile comando, senza cui, sembrale, che l’un de’ due poteri non possa sussistere. E che, accerchiato da divine apparenze e confondendo in sua mano la potestà sacra e la profana, ne’ politici moti gitti sul capo di que’ che richieggono popolaresche istituzioni la taccia di sacrileghi uomini e le temute folgori del Vaticano.

Pio IX stimava poter conciliare il principe italiano col pontefice universale; voleva farsi credere il padre amoroso de’ sudditi suoi, sedere a scranna coi re e palesarsi in un tempo il Vicario di Gesù salvatore ai popoli della terra; immaginava che le concedute riforme — le quali erano nelle sole apparenze e non negli atti di quei che rappresentavano il governo nell’interno e nell’estero— bastassero a far felici gli abitanti dello Stato Romano. Ei non sapeva che la libertà domanda guarentigie ed in ispecial modo laddove il magistrato supremo di un reggimento procede dalla elezione di uomini pregiudicati e devoti a dispotica autorità. Nè pur sospettava quanto fosse periglioso e difficile lo abiurare ai principii e rimettersi sulla via del vecchio assolutismo dinanzi a gente risorta a libera vita, che in lui idoleggiava soltanto la bandiera della unità e dell’italiano riscatto.

Il principe udì il linguaggio della insidia e della paura. Accordò a malincuore le armi cittadine e lo Statuto fondamentale; rese laico malgrado suo il ministeri e parte del governo nelle province; ma, altamente riprovò ed interdisse con una nota pontificale la guerra già accesa tra gli stranieri e i popoli italiani, che colle schiere regolari e avventicce volevano rivendicare la indipendenza della patria.

[p. img modifica]MANIFESTAZIONE DE’ MILANESI [p. 17 modifica]

Incoerenza de’ due svariati poteri!.... La stessa persona che come principe aveva scritto allo imperatore d’Austria, domandandogli lo affrancamento d’Italia, come pontefice pubblicava la enciclica in cui — grazie allo abborrimento che ha la Chiesa dal sangue ed alla eguale affezione ch’egli doveva a tutte genti cristiane — l'abbracciava i suoi figli ne’ nemici eterni della nostra nazionalità, e noi rigettava come uomini traviati e crudeli.

Una siffatta dualità fecesi sempre più mostruosa e nociva. Pio IX — che appariva ai popoli della terra l’angiolo della carità e dell’amore, il Messia redivivo delle libertà umane e il terrore dei despoti — bruciò le bianche ali, che gl’inneggiatori e gl’illusi gli avean prodigato, sulle fiamme delle fratricide discordie e ruinò da un’altezza cui a nessuno era dato di giungere. I vincoli stretti dallo affetto e dalla conoscenza furono rotti. Le grida festose si cangiarono in grida di sprezzo. Le legioni armate, le navi, le piazze, le vie che s’intitolavano da lui, novellamente si battezzarono. L’uomo del miracolo venne reputato l’uomo della sventura. E lo fu!

La Italia è paese eminentemente cattolico; ma, da ciò non deriva che i suoi abitatori debbano essere divisi in tante frazioni, nè stimmatizzati da una intollerante teocrazia, la quale gli dichiara atei e gli separa dalla Chiesa quantunque volte intendano muoversi per togliersi le pastoie che gl’inceppano, od imprendano opere di fraterno amore; nè schiavi dello straniero, il quale si fa tenero della maestà pontificia sol quando più a lui interessa per ingerirsi ne’ fatti nostri e aver agio di calpestarci e mantenerci popolo d’Iloti.

La Italia tende a costituirsi in nazione, e i suoi figli ornai sanno di chi debbano temere, in cui sperare. Ne’ tempi dei quali or tengo proposito, essi, fiduciosi nel bene, stimavano col grido di Pio IX sulle labbra e nel cuore dar compimento al miracolo che tutti i nostri grandi attesero senza vederlo mai, la cacciata d’oltr’Alpi dello straniero e lo stabilimento della italiana nazionalità. Quel grido echeggiante co’ segni della più alta venerazione nell’Europa ammirata era come un dardo avvelenato, confitto nel cuore della potenza Austriaca e della curia romana. Il Piemonte aveva un anno innanzi riconquistato la sua indipendenza col permettere la circolazione di alcuni liberi scritti e di una medaglia — avente nell’esergo il lione di Savoia che straziava colle sue zanne poderose un’aquila bicefala — e collo attivare una nuova tariffa doganale sui prodotti germanici. Il papato, non più pupillo in faccia alle sperante dell’universale, finse anch’esso di rompere i lacci del secolar vassallaggio. Cotali ed altri siffatti avvenimenti avevano impensierite il principe di Metternich sui destini di quell’edifizio da lui rizzato con tanti sudori sul sangue e sulle lacrime de’ popoli; egli su quel torno scriveva al Dietrichstein queste logiche parole: “Sotto la bandiera delle riforme amministrative i faziosi cercano consumare un’opera che non potrebbe rimanersi circoscritta nei limiti dello Stato della Chiesa, nè in quelli d’alcuno degli Stati che nel loro insieme compongono la Penisola Italiana. Le sette tendono a confondere questi Stati in un solo corpo politico; o per lo meno in una confederazione di Stati, posta sotto la condotta d’un potere centrale [p. 18 modifica]supremo”. Onde, ad ovviare i sommi mali e rimettere gli ordini nell’antico assetto, quel solenne tranellatore cercò ricorrere a’ satanici espedienti della politica che avevagli procacciato nome si grande e fortuna anche più grande. E le gazzette tedesche pubblicavano articoli ricordanti Io episodio piemontese del 1821, o profetavano il vero sul carattere del meraviglioso pontefice, o ne dipingevano la mal ferma salute e la debolezza del senno. E il conte Lutzoff, ambasciatore austriaco in Roma, minacciava il Vaticano con severe parole, cui rispondevano i fatti nella occupazione di Ferrara. E molti emissarii, forniti d’oro e di perverse istruzioni, venivano spediti nelle Romagne e nell’alma città per sollevare i mali spiriti contro il nuovo governo e le oneste tendenze dei liberali che il sorreggevano. Il tristo e violento rimedio produsse contrarii effetti; e il popolo, in pria spensierato e solo bramoso di una vita più facile, si fece guardingo, salvò il paese e nella sua forza vide la possibilità d’innalzarsi.

La fama di Pio, accresciuta dallo amore di libertà e dal vivo entusiasmo che scalda con forza le menti immaginose degl’Italiani, eccitava una sommossa in Reggio, di Calabria, quindi il fuoco si appiccava in Messina e in Palermo. Quegli abitanti chiedevano le concessioni accordate ai Romani, cioè, la milizia cittadina liberalmente ordinata, le franchigie del pensiero, leggi non falsate, una consulta non serva nè corrotta; invocavano perciò novità di comando, reggimento a seconda dei bisogni del secolo e l’attuazione di antiche e non tenute promesse. La città di Napoli faceva eguali dimostrazioni in modo pacifico e legale, gridando osanna al papa ed al re. Ma, le risposte del principe, incroiato nelle massime del dominio assoluto, erano lo invio di forze preponderanti in Calabria e in Sicilia, ove le fucilazioni, le prigionie, i massacri riescirono pel momento a temperare la libera ed onesta voce; erano le archibugiate e le cariche alla baionetta sull’inerme popolo napoletano, il quale, nella esaltazione delle sue poetiche speranze, non bramava altro che benedirlo principe umano, ed amarlo. Intanto il granduca Leopoldo, in Toscana, sopraffatto dalla paura, mettea fuor di prigione i cittadini colpevoli di stampe clandestine e di rumori di piazza, liberava il popolo dai birri, instituiva la guardi civica ad imitazione della romana, e prometteva altre importanti riforme governative. In Piemonte, dopo qualche irresolutezza — ch’era seconda natura nell’animo del re — si oprava il medesimo con intendimenti anche maggiori; e i tre Stati, sino a quel punto divisi, intavolavano un trattato di alleanza reciproca, una specie di lega ancor mal definita, ma che pure inaugurava la nobile idea di una confederazione italiana. Il re di Napoli, richiesto, respinse le trattative. I duchi di Parma e di Modena si collegavano coll’eterno nostro nemico. La ostinatezza di questi nel mal governo giovava anzi che nuocere alla causa comune; imperciocchè i malcontenti incontravano lietamente il martirio per un inno cantato a Pio IX, sorridevano nel pagare ammende per aver detto parole di elogio al nome dell’arciduca Leopoldo; andavano allegri in carcere od in esilio per aver fatto plauso a re Carlo-Alberto e alla Italia. E dovunque cotesti tre principi riformatori muovessero, erano universali le accoglienze, le luminarie, i corteggi, i cantici e le processioni di bandiere, [p. 19 modifica]che andarono sino alla sazietà ed al fastidio; mentre, la privazione di cotali feste più e più addoppiava il desiderio di miglior reggimento ne’ popoli digiuni di libera luce che abitavano le parti estreme della Penisola.

Talmente avea fine il bene avviato anno di grazia e di giustizia 1847.

Ed io pur darò termine a questo primo libro, stringendo in brevi sentenze la situazione politico-morale degli Stati Italiani in tal’epoca.

La Corte di Roma colla mansuetudine creduta in Pio IX erasi fatta potente siccome coll’arroganza ai tempi di Gregorio VII. Ma il mondo illuso non vedeva in essa che un uomo innamorato del bene, ravvolto ne’ pregiudizii della sua casta, impastoiato nel doppio ed anomalo suo dominio, debolissimo per carattere, avido di lode e nell’atto stesso disdegnoso del perchè gli venia questa tributata; notava il numero grande degli ecclesiastici assunti in alte funzioni, avversi per ciò al novell’ordine di cose, favoratori di anarchia e di rivolte, bramosi per sè, insidiosi per altri.

Non lungi era il trono delle Due-Sicilie giacente sur un vulcano, pronto a scoppiare.

La Lombardia e la Venezia in fermento attendevano con ansia lo istante propizio per intimare la cacciata agli Austriaci, fatti crudeli dal disprezzo e dalla paura.

Gli altri popoli della Penisola, inebriati dall’entusiasmo, fidenti nella loro forza e ne’ loro errori, credevano avere nel pugno i destini di un avvenire stupendo. Nel cuore dì tutti, liberi od oppressi, animosi o prudenti, alimentavasi un voto solo, la libertà colla indipendenza d’Italia.

Il tempo però nascondeva sorti diametralmente contrarie!